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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Antonio Falbo

A tredici anni

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“Non è stato un gran gesto, ma la tua determinazione a fare la differenza”. Così, ripeteva
sempre il Mister quando uno della squadra intercettava un passaggio difficile, stoppava un
avversario in difesa, o riusciva a scavalcare quella avversaria e a piazzare un goal. E ogni
volta che lui lo ripeteva, con un tono mite e pacato da sacerdote, noi acconsentivamo con
umiltà. Non una smorfia, non un capriccio. Si masticava la rabbia, a volte l’umiliazione, e
via. Anche quando era il caso, nessuno si permetteva di ribattere, nessuno osava nemmeno
esultare come avrebbe voluto, facendo un trenino con i compagni, o alzandosi la maglia
sulla testa come uno dei fuoriclasse della serie A.
Solo a fine partita, sotto le docce dello spogliatoio, ci si lasciava andare. Un plauso
generale alla madre dell'arbitro, un “Poo-Po-Po-Po-Po-Po-Pooo-Po...” per sentirci dei
campioni e immaginarci giocare la finale di coppa del mondo in qualche paese straniero di
cui ignoravamo l'esistenza. Ma per noi la geografia contava poco o niente. Dopo tutto, il
mondo è una sfera e, in quanto tale, a noi sarebbe bastato un calcio ben assestato per
lanciarlo in orbita.
Anche i miei genitori, a modo loro, la pensavano così. Mentre mia madre ascoltava
orgogliosa, mio padre diceva che l’importante nella vita è sapere dove si vuole arrivare e
che non importa come ci si arriva, purché si muova il culo. Poi, mi invitava a guardarlo
negli occhi e, come ogni volta, dopo una breve pausa, ripeteva: “Guarda... Guarda tuo
padre, Santo. Sono partito che non avevo niente e adesso, sotto di me, ho più di un
centinaio d’operai. E li devo sfamare, controllare, e qualche volta pure ascoltare, per capire
che cazzo vogliono di più di ciò che gli do. Hai tredici anni, Santo, sei quasi un uomo, e tra
poco lo capirai anche tu: signori lo si diventa. O con la testa, o con queste”, sottolineava
poi mettendosi con decisione una mano a coppa tra l'inguine.
Io lo ascoltavo, e acconsentivo senza distogliere lo sguardo dal suo, fingendo di cogliere i
suoi messaggi e farli miei. Volevo che si sentisse compreso, fiero di sé e di suo figlio,
anche se in ciò che diceva non mi riconoscevo un granché. Troppo fissato, troppo fascista.
Quando a scuola ci insegnarono cosa fosse il fascismo, e qualche compagno esordì dicendo
che io ero un fascista, provai un forte fastidio, perché sapevo che questo non era vero.
Della politica e roba del genere non mi ero mai interessato. Io ce l’avevo con quelli
-stranieri e non- che vedevo tutto il giorno in giro a far niente, accampati per strada senza
ritegno come se quella fosse unicamente loro. Puzzavano, e pensavo che se si erano ridotti
così era perché erano persone deboli, senza spina dorsale.
Lo stesso pensiero era condiviso da Giulia, la ragazza con cui uscivo all'epoca. Ma da lei
era più facile aspettarselo. Era una ragazza con i piedi per terra, concreta, di buona famiglia
e senza troppe stranezze per la testa.
Giulia trascorreva il pomeriggio in casa a darsi lo smalto, o andava in giro con le sue
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amiche, facendo su e giù per le vie del centro. Io, quando non giocavo, guardavo qualche
video porno al computer fingendo di studiare, poi la raggiungevo. Le volevo bene, ma a
parte le volte in cui ci si ritrovava da soli a casa per toccarci, con lei non mi sono mai
divertito molto. Sempre i soliti discorsi sulla coppia e sullo stare insieme, pettegolezzi, e
mai un rimando onesto al calcio. Malgrado venisse sempre a vedermi giocare, sapevo che
non gliene importava molto. Ma a me bastava. Il quadro era perfetto. Mi sembrava di fare i
preparativi, di allenarmi per vivere al massimo il mio futuro: un calciatore di prima scelta,
sano, rispettato, senza preoccupazioni e sempre in compagnia di qualche modella a bordo
di una fuoriserie. Il top che uno potesse desiderare.
Malgrado qualche professore e compagno di scuola si ostinasse a dire che nella vita ci sono
cose più importanti -e mi chiedevo perché fare tanta fatica per nascondere la verità, quando
poi, in fondo, era chiaro che volevano tutti le stesse cose- io tiravo dritto per la mia strada.
Non mi facevo particolari domande. Sapevo di essere nel giusto, e pensavo che chi
affermava il contrario erano persone che nella vita avevano perso. Forse per paura di non
riuscire ad ottenere ciò a cui ambivano, o perché non si sentivano all’altezza. Il risultato,
comunque, per me era lo stesso.
Mentre la maggior parte dei miei coetanei non aveva le idee chiare su che strada
intraprendere una volta cresciuti, io sapevo già bene quello che volevo, ed ero certo che
l’avrei ottenuto. Impegnandomi -com’è giusto che sia- ma senza particolari ostacoli di
mezzo. Dopo tutto, ero sicuro che la vita facesse i doni migliori a chi credeva in lei, e
quindi in se stesso. Essere vincenti non era roba da tutti; ci si doveva nascere o, come
diceva mio padre, lo si diventava con la testa o con le palle.
Tra i miei coetanei, non molti erano capaci di prendere la palla a metà campo, avanzare
verso l’area avversaria e segnare; non tutti sapevano rialzarsi dopo un brutto fallo, e
continuare a giocare senza scatenare una volgare rissa. Io in campo tenevo i nervi saldi e la
palla attaccata al piede. Giocavo come se ogni partita fosse l’ultima. Ci mettevo tutto me
stesso, e i risultati si vedevano!
Gli osservatori delle grandi società li ritrovavi ovunque. Quando meno te lo aspettavi, loro
erano lì, pronti a fare le loro valutazioni e decidere chi fosse meritevole di fare strada e chi
no. Non c'era una sola occasione da sprecare, dunque. “Santo Del Monte, la nuova
promessa del calcio italiano”, così mi aspettavo che avrebbero presto detto sui giornali,
internet e nei vari programmi tv. Era successo per tutti i
grandi calciatori, e sarebbe arrivato presto anche il mio turno.
Ad ogni fine partita il Mister veniva a complimentarsi con tutta la squadra, e soprattutto
con me, per l’impegno e la serietà dimostrati. E così pure mio padre, che arrivava fuori
dallo spogliatoio con qualche regalo, tanto per mostrare ai genitori degli altri ragazzi
quanto fosse soddisfatto di suo figlio e, quindi, di se stesso.
Intanto, col passare del tempo, anche Giulia e mia madre iniziarono di riflesso a sentirsi
coinvolte dal mio sogno. Per Giulia, i fine settimana divennero l'occasione per illustrare a
me e alle sue amiche come avrebbe arredato quelle che sarebbero dovute essere le nostre
ville; sfogliando riviste di gossip, pensava a come si sarebbe vestita per presentarsi
impeccabile a qualche serata esclusiva di soli vip, e dove avremmo trascorso le vacanze.
Mia madre, invece, si vantava con tutto il vicinato e usciva di casa guardandosi intorno,
nervosa, come se si aspettasse da un momento all’altro l’incursione di qualche tifoso
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fanatico.
Al principio fui felice del loro entusiasmo. Mi divertiva e mi motivava, facendomi sentire
ancora più sicuro che ce l'avrei fatta. Ben presto, però, iniziai a sentirmi addosso il peso
enorme della responsabilità. Oltre le mie aspettative, in qualche modo dovevo tener conto
anche delle loro. E questo non era affatto semplice. Forse stavo diventavo grande. O
meglio, mi stavano facendo crescere al prezzo dei mie sogni.
«Non devi mollare Santo»
«Certo che non mollo, papà!»
«E invece l’altro giorno in campo non hai dato il meglio».
«Ma papà, ho segnato»
«Sì...Ma il livello in generale è stato basso... Non ti devi
distrarre. Che c’è che non va? C’è qualcosa che ti preoccupa, Santo? A papà gli puoi dire
tutto, lo sai»
E io, invece, non gli dicevo nulla.
Sempre più spesso, quando scendevo in campo avvertivo un fastidioso morso allo stomaco.
A volte mi guardavo intorno, incrociavo lo sguardo di Giulia o dei miei genitori e le gambe
mi diventavano così deboli da non riuscire più a stare dietro al pallone. Oltre tutto, mi
sembrava che questo diventasse pesante come un macigno e farlo entrare in rete mi costava
una fatica tremenda. Le restanti energie le spendevo per nascondere agli occhi di tutti ciò
che mi stava accadendo. Nello spogliatoio non avevo più la stessa voglia di festeggiare di
un tempo. I miei compagni urlavano facendosi scherzi sotto la doccia, io mi davo una
sciacquata veloce, mi rivestivo e uscivo di corsa cercando di non dare troppo nell’occhio.
In quel periodo iniziai ad avere anche strani incubi. Al posto dei soliti sogni erotici, o di
memorabili vittorie ai mondiali, a volte sognavo di succhiare il seno a mia madre o che lei
partoriva un pallone e poi lo cullava, chiamandolo con dolcezza «Santo». Altre, sognavo di
me come una piccola creaturina verde e gelatinosa che piangeva immersa nel buio e, il
mattino seguente, quando mi svegliavo, per alcune ore avvertivo come se quell’essere
fosse dentro di me.
Avevo paura, ma non capivo di cosa, e il non poterne parlare con nessuno mi faceva sentire
sempre più solo. Mi ripetevo che presto sarebbe passato tutto, che forse si trattava solo di
un periodo di stress, come è sempre capitato anche ai più grandi campioni. Così, malgrado
la fatica, in campo continuavo a dare il massimo. Prendevo il pallone e andavo a segnare,
come fossi nato solo per fare quello. Tutti mi amavano, ricevevo applausi e complimenti e
sembrava che fossi sempre più vicino a coronare il mio sogno. Poi, invece, successe una
cosa che né io né una sola delle persone che avevo vicino si sarebbe mai aspettata. E le
cose all'improvviso cambiarono.
Ricordo come fosse ieri quando a quel fesso di Mirko venne in mente di staccare lo
stemma dal cofano di una Mercedes, come gli aveva raccontato che faceva suo fratello più
grande quando aveva la nostra età.
Era da poco iniziata l’estate e non molto lontano dal campo della squadra avevano allestito
un piccolo luna-park. Finiti gli allenamenti, con un po’ di compagni avevamo deciso di
fare due passi prima di tornare a casa e Roby, il più grande del gruppo, ci aveva convinti a
seguirlo per mangiare insieme qualche schifezza in uno dei chioschi vicino alle giostre.
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Dopo una merenda veloce a base di bibite e patatine, decidemmo che era venuto il
momento di andarsene. Ci avviammo, tutti insieme, coordinati come in campo. Solo Mirko
era rimasto un po’ in disparte, al fondo della compagnia, ma nessuno gli aveva detto niente.
Neanche io, che pensavo fosse solo preso dalla musica che ascoltava a tutto volume con le
auricolari. Poi, però, dopo pochi secondi, attraversato un parcheggio, l’attenzione
dell’intero gruppo si concentrò su di lui.
«Dove cazzo vai?! Torna qui piccolo bastardo!», urlò un uomo di mezz’età con gli occhi
fuori dalle orbite mentre iniziava a rincorrere Mirko che, urlandoci a sua volta di scappare,
ci raggiunse e superò con uno scatto. Senza pensarci un istante, qualcuno iniziò a seguirlo
ridendo, qualcun altro chiedendo allarmato cosa fosse successo. Io, che avevo capito, per
un attimo restai immobile sperando che quell’uomo non se la sarebbe presa con me. Ma
quando mi arrivò a pochi passi e tese il braccio per acciuffarmi, capii che era meglio darsi
una mossa. E scappai. Iniziai a correre, come forse non avevo mai fatto nemmeno in
campo. Davanti a me, i miei compagni ridevano e urlavano, dribblando goffamente, con i
borsoni della squadra in spalla, i passanti. Alcuni sembravano addirittura divertirsi. Io,
invece, mi voltavo preoccupato per vedere se l’uomo ci fosse ancora alle calcagna. Ed era
sempre lì, anzi, era sempre più vicino. Pensavo alla vergogna che forse avrei provato per il
resto della mia vita se mi avesse preso. Immaginavo la mia reputazione macchiata, lo
sguardo di mio padre e mia madre pieno di amarezza e delusione, e i cori delle tifoserie
avversarie, ben contente di ricordare a tutti che Santo Del Monte andava in giro con dei
teppisti a rubare stemmi alle auto. Ero sul punto di scoppiare a piangere quando mi voltai e
vidi l’uomo alle mie spalle che finalmente iniziava a perdere terreno. Così feci un ultimo
sprint per staccarlo del tutto e mettermi in salvo sull’autobus che vidi arrivare
parallelamente, dal lato opposto della strada. Per non perderlo, scansai per un pelo una
donna con il figlio piccolo mentre uscivano da un negozio; diedi una borsata a un signore
in bicicletta che per poco non cadde a terra. Poi mi lanciai in mezzo alla via dove, prima di
fare l’ultima falcata e salire sull'autobus, evitai per un pelo alcune auto che sfrecciavano
nei due sensi di circolazione. Avevo già visto perfino un posto libero su cui sedermi
quando, all’improvviso, diventò tutto buio.
«È tanto grave?»
«Non c’è da scherzare»
«Investito da un’auto?»
«Sì»
«Un brutto incidente...»
«Sì, un brutto incidente: fratture multiple»
«Dove?»
«Al bacino»...
Quando ripresi conoscenza, mi ritrovai disteso in un letto d’ospedale. Vicino a me c’erano i
miei genitori in lacrime che discutevano con un dottore. Mentre parlavano studiando delle
radiografie, ogni tanto mi lanciavano un’occhiata. Provai a dire qualcosa ma non ci riuscii.
Poi sprofondai di nuovo nel buio.
Nove mesi più tardi facevo ancora i conti con i postumi dell’incidente, e con i due
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interventi subiti per rimettermi in piedi. Oltre agli innumerevoli dolori, e un senso di
stanchezza perenne, la notte continuava a tenermi sveglio la paura che la mia carriera fosse
finita. Per sempre.
All’inizio della fisioterapia mio padre mi seguiva. Mi incitava
a stringere i denti e lottare, mentre mia madre, forse per non mettermi ansia, si comportava
come se nulla fosse accaduto. Anche Giulia continuava a fare il tifo per me; anche lei non
voleva rinunciare al mio sogno, quindi al suo. E così il Mister che, quando venne a
trovarmi, mi rassicurò: «Vedrai Santo, dopo quest’esperienza tornerai in campo più forte e
motivato di prima», disse sempre con quel suo modo di fare da prete mancato.
Così reagii con la grinta di un leone e ripresi gli allenamenti con la squadra. Ma
nonostante tutti i miei sforzi, dopo poche settimane iniziai a perdere la speranza, come
tutti coloro che mi stavano intorno. Non riuscivo a ritrovare il giusto equilibrio, mi faceva
male la schiena e spesso perdevo la sensibilità al piede destro, commettendo gravi errori. I
compagni iniziarono a isolarmi, e ben presto anche il Mister perse l'interesse per me,
rivolgendo la sua attenzione unicamente ai nuovi assi e ai pilastri solidi della squadra. I
suoi consigli e incoraggiamenti divennero un lontano ricordo. Come la mia presenza in
campo. Ero titolare, ma della panchina, e le rare volte in cui mi veniva concesso di giocare
era allo scadere del tempo di una partita dall'esito già scritto. I fine settimana divennero
così un appuntamento fisso con la noia e l'umiliazione.
Mio padre veniva sempre più di rado alle partite e quando capitava fuori dallo spogliatoio
mi metteva fretta per andare via. Diceva: «Ci sono cose più importanti, Santo. La mamma
ci aspetta. E poi questa settimana non ti ho mai visto prendere in mano un libro. Sarà
meglio che inizi a darti da fare se non vuoi perdere l'anno». E io lo seguivo a testa bassa.
Ero confuso. Mi sentivo in colpa per non essere stato all’altezza delle aspettative, ma, allo
stesso tempo, sentivo che il non avere più quel pensiero mi alleggeriva notevolmente il
cuore. Per mettere ordine alle idee, decisi di seguire il suo consiglio e mi allontanai dal
campo da gioco per un po'.
A scuola, però, le cose non andavano meglio. Le lezioni, di cui già mi ero sempre
interessato poco, persero definitivamente ogni senso. Quelle degli insegnanti e dei
compagni mi sembravano parole vuote. Mentre si parlava di uomini, vite e storie del
passato, io restavo tutta la mattina immobile nel banco pensando al mio presente e futuro.
Speravo che nessuno si interessasse a me. Stare in mezzo alla gente, soprattutto ai miei
coetanei, mi agitava. Non ero più io, e mi sentivo a disagio, privato della mia identità.
Nemmeno quelli che si divertivano a provocarmi mi infastidivano più. Anzi, a volte notavo
che alcuni di loro mi guardavano allo stesso modo in cui io avrei potuto guardare quei
disperati che si incontrano in mezzo alla strada. Non avevo più un sogno, e mi ritrovavo ad
essere come quelli che credevo dei perdigiorno, senza ambizione o talento. Un perdente.
Una mattina, durante l'intervallo, Giulia mi prese da parte. Mi disse di seguirla nei bagni
del secondo piano, i meno frequentati perché spesso guasti. Doveva parlarmi di cose
importanti, disse, e io la seguì, anche se quasi contro voglia. Appena arrivati diede una
rapida occhiata per controllare che non ci fosse nessuno, poi mi spinse dentro e chiuse la
porta. «Santo, devi smetterla di fare così»
«Così come?»
«Così... Di startene sempre da solo con la faccia di uno che sta per morire. Si sistemerà
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tutto, vedrai... Forse ci vuole solo ancora un po' di tempo».
Poi, sorrise maliziosa e, senza lasciarmi ribattere, mi infilò una mano nei pantaloni della
divisa che mi ostinavo a indossare. Iniziò ad accarezzarmi e a baciarmi sul collo, ma dopo
un istante la allontanai e iniziai a piangere. Per la rabbia dovuta alla pietà che lessi nel suo
sguardo, e perché di tempo credevo di non averne più.
Non sapendo che fare, mi chiusi nel silenzio della mia camera dove trascorrevo interi
pomeriggi e sere davanti al computer. Quando qualche amico mi chiamava per passare a
trovarmi o per uscire, mi negavo inventando una scusa e così, in breve tempo, sparirono
tutti. Compresa Giulia che, ormai determinata a veder realizzati i suoi desideri, iniziò a
frequentare un ragazzo più grande che suonava in una band promettente.
Solo all'ora di cena mia madre si affacciava alla porta. Mi chiedeva con timidezza se stavo
bene, poi mi invitava ad andare a tavola dove mio padre -attento nell'evitare qualunque
riferimento al calcio- discuteva solo più di politica e cercava di coinvolgermi nelle sue
argomentazioni dissimulando. Io rispondevo con un secco “sì... arrivo!” alla prima, e che
non ne capivo nulla al secondo. Quindi, ad entrambi, di lasciarmi in pace. Ma la loro
apprensione e recita non accennava a placarsi e, quando anche il clima in casa si fece
snervante, non mi restò che armarmi di buona volontà e uscire, pur non avendo la minima
idea di dove andare.
Fu in quel periodo che iniziai a frequentare i giardini vicino casa. Lì, lontano da ogni
pressione, passeggiavo e trascorrevo il mio tempo osservando le persone che incontravo,
ma soprattutto alcuni ragazzini che puntualmente si ritrovavano per giocare a pallone.
Ricordo la sensazione che avevo nel vederli divertirsi, litigare fin quasi a picchiarsi e poi,
un attimo dopo, riprendere a giocare con la stessa naturalezza. Qualcuno di loro, forse,
sognava come me di diventare un grande campione e nelle grida che rimbombavano tra i
viali alberati sentiva l'esultanza di un intero stadio.
Io facevo lo spettatore, e questo mi bastava. Anche se, spesso, mi divertivo a prenderli in
giro per la loro ingenuità, grazie a quei ragazzini ritrovai qualcosa che mi accorsi di aver
perso da tempo: la spontaneità.
Iniziai a frequentare i giardini regolarmente. Ogni fine settimana mi appostavo su qualche
panchina e aspettavo che il gruppetto arrivasse. Mentre li spiavo, provavo a immaginare
cosa avrei fatto io al posto di uno di loro: come mi sarei mosso, a chi avrei passato la palla
o come e dove avrei tirato. Finché la palla, un giorno, non mi capitò davvero a portata di
mano... O meglio, di piedi.
Un sabato, due ragazzini litigarono e fecero a botte sul serio. Sedata la rissa, uno di loro
mandò tutti a quel paese e se ne andò via. Quelli intenzionati a continuare la partitella
fecero un rapido conteggio e quando si accorsero di me, mi chiesero se mi andava di fare
due tiri. Io, però, colto dall'imbarazzo, feci finta di nulla.
«Oh!... Ci senti? Vuoi giocare o no?» mi riprese uno di loro spazientito.
«Chi, io?» risposi allora fingendomi sorpreso, senza sapere che fare.
«No, tua nonna...», ribatté il ragazzino tra le risate degli amici, voltandosi poi di spalle
indispettito.
«No, aspetta!... Gioco!», esclamai, quasi senza volerlo. In un lampo mi decisi. Anche se
senza sapere esattamente cosa mi avesse spinto ad accettare, mi alzai, presi posizione nella
mischia e, dopo pochi secondi, con un sorriso stampato sul cuore, mi ritrovai a correre
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dietro al pallone come un bambino scalmanato.
Quando la sera tornai a casa, faticai a trattenere l'euforia. Percepivo la curiosità dei miei
genitori vogliosi di capire cosa mi fosse accaduto, ma feci finta di niente. Anche se avessi
voluto spiegargli con esattezza cosa provavo, faticavo io stesso a capirlo. Mi sentivo vitale
come non mai. Avevo sbagliato, ero inciampato e caduto più volte. Qualche ragazzino mi
aveva perfino detto che avevo il piede storto ed ero negato per il calcio. Ma mi ero divertito
e questa era la sola cosa che mi sembrava importante.
Pur non avendo raccontato nulla della mia esperienza di gioco, strinsi amicizia con quei
ragazzini, e i nostri incontri divennero un appuntamento fisso. Partita dopo partita,
gradualmente, mi resi conto che riuscivo di nuovo a sentire i cori dei tifosi, l'adrenalina del
goal e le lacrime di gioia che mi gonfiavano gli occhi ogni volta che mi immaginavo alzare
una coppa al cielo vittorioso.
Anche la notte ritrovai pace. Spariti gli incubi, i miei sogni tornarono ad essere sereni.
Sognavo nuovamente di giocare, ma di giocare e basta. Tutto il resto: la fama, i soldi, gli
spot , la tv, e il bisogno di sentirmi al di sopra della gente comune, erano spariti. Come la
paura stessa di non farcela ad affermarmi e il peso delle aspettative. C'ero solo più io che
andavo a braccetto con la mia passione. Ritrovai un po' di sicurezza in me stesso, quel
tanto che bastava per non nascondermi più in qualche angolo della scuola durante
l'intervallo o, a casa, distogliere lo sguardo da quello dei miei genitori. Mi allenavo a
ritornare il vero Santo Del Monte, ma non quello di un tempo. Un Santo Del Monte
completamente nuovo, come nuovo era lo spirito che animava il mio desiderio di scendere
in campo.
Senza dirlo a nessuno, tornai a farmi vivo agli allenamenti della squadra. Volevo giocare,
ma non solo. Volevo dimostrare a tutti che, anche se una cosa era vera, cioè che la mia
forma fisica e gli obbiettivi non erano più quelli di una volta, non significava che fosse
giusto mettermi da parte come un paio di scarpette logore.
Il Mister mi accolse con indifferenza, ma mi lasciò fare, e così il resto della squadra.
Iniziai tutto daccapo, senza più dare alcuna importanza a ciò che per me era divenuto
superfluo. Mentre mi allenavo non pensavo più a nulla che non fosse l'irrobustire il mio
corpo, ma soltanto per esprimere poi al meglio la mia fantasia e capacità di giostrare il
pallone. Senza mai scordarmi di passare ai giardini, settimana dopo settimana, coltivavo il
mio entusiasmo nel riuscire a fare un piccolo passo in avanti: uno stop su rimbalzo, un tiro
al volo o un colpo di testa ben dato. Non avevo più fretta, né tanto meno preoccupazioni.
Mi bastava giocare dando il meglio, anche se spesso continuavo a sbagliare e per questo la
palla mi veniva passata di rado. Poi, un giorno, sentii un nuovo stimolo ancora.
Prima di una delle più importanti partite della stagione, che vedeva la mia squadra
affrontare la prima in classifica, un mio compagno contestò la mia richiesta fatta al Mister
di entrare in campo dal primo minuto della gara. «Troppo scarso!...» disse «... per una
partita così».
Io non fiatai. Aspettai la reazione del Mister che, davanti agli sguardi perplessi dell'intera
formazione, da un primo cenno di timido assenso fece poi un passo indietro e disse che, in
effetti, sarebbe stato più opportuno non modificare certi equilibri: «Squadra che vince non
si cambia», affermò con la solita, pacata, impassibilità. Non mi scoraggiai, anzi, lo incalzai,
mostrandomi comunque determinato a giocare, come e quando lui avesse ritenuto più
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opportuno per il bene della squadra.
Dal fischio d'inizio, e per tutto il primo tempo, non staccai un attimo gli occhi dal pallone e
dai piedi di compagni e avversarti. I diversi colori delle divise mi confondevano, le urla e
le imprecazioni di genitori e tifosi mi eccitavano. Ma più di ogni altra cosa era il silenzio
del Mister, che non lasciava trapelare nessuna emozione, a tenermi sulle spine. Mentre in
campo, sugli spalti e in panchina tutti fremevano, anche quando si giunse all'uno a zero per
noi, lui non batté ciglio. Poi, al termine del primo tempo, si voltò verso di me e mi fece
cenno di alzarmi:«Nel secondo tempo entri al posto di Marchisio, stai pronto».
Chissà cosa pensarono tutti i presenti, quando presi posizione in campo e, in un attimo,
senza che io stesso potessi aspettarmelo, persi tutta la mia serietà?
Come si faceva spesso ai giardini, tra un'azione e l'altra mi misi a intonare cori da stadio.
Ridevo per gli errori degli avversari che cercavano disperatamente di rimontare e, a volte,
anche per quelli dei miei compagni che faticavano a tenergli testa. Intanto, appena potevo,
cercavo di prendere palla e portarmi avanti per segnare, trasgredendo ad ogni schema e
logica di gioco.
Ogni mio tentativo falliva miseramente. Venivo fermato dalla difesa avversaria o ripreso
con severità dai miei compagni e dal Mister, che sembrava aver perso la sua compostezza
innaturale e, ora, si agitava a bordo campo urlandomi di stare al mio posto. Ma io non davo
retta né alle imprecazioni, né alla vocina della mia coscienza che per qualche attimo, prima
di sparire, mi invitava a darmi un contegno. Mi stavo giocando quel poco di credibilità che
ero riuscito a riconquistare, e con essa avrei messo un punto definitivo alla mia carriera.
Eppure, il divertimento e la leggerezza che provavo, in qualche modo mi facevano sperare
bene per il mio prossimo futuro. Non so bene da cosa o da chi, ma mi sentivo salvo. Ero
diventato grande, sapevo chi ero e cosa volevo in quel preciso momento: fare un goal
memorabile. Così, alla prima occasione buona, quasi allo scadere del tempo, intercettai un
passaggio diretto a un mio compagno e gli tolsi la palla. La fermai a terra tra i piedi,
esattamente a centro campo. In una manciata di secondi guardai i giocatori avversari
venirmi incontro, quelli della mia squadra fare appena pochi passi in avanti e poi fermarsi,
vedendomi immobile. Il cuore iniziò a battermi così forte da farmi pensare che stesse per
esplodere. Sorrisi. Iniziai a palleggiare: piede – testa – ginocchio – piede – spalla – testa –
ginocchio, consapevole di avere l'attenzione di tutti esclusivamente per me. Poi, tra gli
improperi dei compagni e del Mister, e lo sguardo interdetto degli avversari, rimisi la palla
a terra e mi voltai. Alcuni dei miei compagni cercarono di togliermi il pallone, ma li scartai
con facilità, come ero solito fare un tempo.
Mi misi a correre verso la mia area. Mentre prendevo sempre maggiore velocità, e gli
interventi dei compagni si facevano più violenti e aggressivi, pensavo ai miei genitori, alle
giornate trascorse con i ragazzini del giardino, alla mia felicità, alla lotta che stavo facendo
contro la mia squadra come a quella fatta con me stesso e la mia vita. E, quando ormai fui
al limite dell'area, solo davanti al portiere, chiusi gli occhi e tirai con tutta la forza che
avevo.
Quando li riaprì, feci in tempo a vedere la traiettoria incerta del pallone e quest'ultimo che
però, scivolando dalle braccia del portiere - che aveva intuito la mia intenzione solo
all'ultimo - ruzzolava oltre la linea bianca della porta. Mentre il resto della squadra si
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stringeva minaccioso intorno a me, e dal pubblico piovevano insulti irripetibili, l'arbitro
fischiò la fine ed io iniziai ad esultare. La partita si chiudeva sul pari: 1-1, così come io mi
sentivo in pari con la vita. Perché il mio non fu di certo un gran gesto, ma la
determinazione che ci misi, e il senso datogli da questa, per me, sì, fecero davvero la
differenza.




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