RECENSIONI
Shuan Tan
L'approdo
Elliot, Collana Scatti, Pag. 128 Euro 22,00
In Un dramma borghese Guido Morselli, camuffando una seduta di mescalina da accesso febbrile, si permette alcune considerazioni riguardo l'influenza del cinema (quale spettacolo di massa) sul delirio (quale piacere privato): certi fenomeni di squisita macroscopia, per dire, sarebbero, secondo l'insuperato scrittore, ricalcati sullo zoom.
Ma sarebbe piuttosto vero il contrario: è possibile concepire uno zoom solo grazie a generazioni di assuefatti alla mescalina; una dissolvenza incrociata per il duro lavorio di tanti intossicati dall'etere. E via dicendo.
La storia è perfino spinosa. Infatti, a volere essere chiari fino alla sfacciataggine, potremmo meglio dire che il cinema nasce, nella sua ideologia, durante la Controriforma, quando la cultura cattolica, per non perdere posizioni egemoniche contro quella protestante, presta a farsi borghese ed orangista, si spalma sulle posizioni dell'avversario: da qui la grande abiura dell'ideale rinascimentale, neoplatonico, bruniano e immaginale in favore di quell'approccio alla conoscenza e alla vita di stampo razionale, efficiente, più che pulito e mirmidonissimo, che è alla base della stupenda sperimentazione di capitalismo liberale o di Stato che ci stiamo allegramente vivendo.
Dopo avere elaborato o permesso, dal quietismo in su, qualsiasi forma di libertà immaginativa, la Chiesa, infatti, decide, nella persona di Ignazio di Loyola, di utilizzare l'esuberante tecnica di immaginazione attiva dell'esicasmo (finalizzata a liberare il dio in se stessi) per creare una metodica di controllo della fantasia (finalizzata a far rigare dritti le buone masse): i famosi esercizi spirituali, fondamento dell'arte cinetelevisiva.
E, allora, non è forse L'approdo un libro importantissimo?
L'approdo, infatti, è prima di tutto un risarcimento danni e un ritorno a casa (non casualmente si parla di un approdo, di un lungo viaggio che vede riunita una famiglia smembrata): un libro in cui si racconta una storia del tutto priva di connotati narrativi, sequenziali, cronologici (libera dalla superstizione del tempo); una storia che, è questo è fondamentale, come nelle migliori utopie rinascimentali, è raccontata solo ed esclusivamente per immagini.
Immagini. Immagini di una densità morbosa e febbrile: vera mescalina ed etere; e quello stupore, felice e terrorizzato insieme, dell'assenzio.
Ed è qui che l'autore, Shaun Tan, con profonda giustizia (la vera giustizia, quella venerea della bellezza) decide di trarre le immagini di questo sogno allucinato desumendole capillarmente da varia cinematografia (ma non solo: a corollario abbiamo molto fumetto, molto giornalismo, e molta fotografia), ricomponendole in un, a prima vista imbarazzante, ibrido di story board e graphic novel.
Una restituzione: riprendiamoci i piani alternati; i montaggi patetici di Sergej Ejzentejn e di Hollywood; il dolby surround e, invece, di emozionarci a comando, di convertirci secondo moda detta e comprare a misura dei bisogni altrui, godiamocela.
Godiamo di smarrirci in questo nostro sogno, che con vago incantamento parla di un'emigrazione, dell'approdo in una terra irta di pericoli e simboli, in cui tutto è grande e misterioso (metà della bellezza di essere bambini è che tutto è costruito a misura degli adulti: una terra di giganti!), in cui un affollamento di immagini, così vicine ad essere idee pure da levare il fiato, ci attornia, aggira, sfianca, e in cui ritroviamo, platonicamente, la nostra famiglia, noi stessi, alla fine del duro percorso di apprendistato (imparare a mangiare il cibo del luogo; imparare le storie del luogo; imparare a lavorare: incarnarsi).
Era tanto, e con tanta generosità, con tanto senso della restituzione e del dono, che qualcuno non ci parlava, vera letteratura, della nostra condizione di viaggiatori incantati, di trasognati migratori: del nostro destino di approdo.
L'Approdo di Shaun Tan: prossimamente presso i migliori spacciatori.
di Pier Paolo Di Mino
Ma sarebbe piuttosto vero il contrario: è possibile concepire uno zoom solo grazie a generazioni di assuefatti alla mescalina; una dissolvenza incrociata per il duro lavorio di tanti intossicati dall'etere. E via dicendo.
La storia è perfino spinosa. Infatti, a volere essere chiari fino alla sfacciataggine, potremmo meglio dire che il cinema nasce, nella sua ideologia, durante la Controriforma, quando la cultura cattolica, per non perdere posizioni egemoniche contro quella protestante, presta a farsi borghese ed orangista, si spalma sulle posizioni dell'avversario: da qui la grande abiura dell'ideale rinascimentale, neoplatonico, bruniano e immaginale in favore di quell'approccio alla conoscenza e alla vita di stampo razionale, efficiente, più che pulito e mirmidonissimo, che è alla base della stupenda sperimentazione di capitalismo liberale o di Stato che ci stiamo allegramente vivendo.
Dopo avere elaborato o permesso, dal quietismo in su, qualsiasi forma di libertà immaginativa, la Chiesa, infatti, decide, nella persona di Ignazio di Loyola, di utilizzare l'esuberante tecnica di immaginazione attiva dell'esicasmo (finalizzata a liberare il dio in se stessi) per creare una metodica di controllo della fantasia (finalizzata a far rigare dritti le buone masse): i famosi esercizi spirituali, fondamento dell'arte cinetelevisiva.
E, allora, non è forse L'approdo un libro importantissimo?
L'approdo, infatti, è prima di tutto un risarcimento danni e un ritorno a casa (non casualmente si parla di un approdo, di un lungo viaggio che vede riunita una famiglia smembrata): un libro in cui si racconta una storia del tutto priva di connotati narrativi, sequenziali, cronologici (libera dalla superstizione del tempo); una storia che, è questo è fondamentale, come nelle migliori utopie rinascimentali, è raccontata solo ed esclusivamente per immagini.
Immagini. Immagini di una densità morbosa e febbrile: vera mescalina ed etere; e quello stupore, felice e terrorizzato insieme, dell'assenzio.
Ed è qui che l'autore, Shaun Tan, con profonda giustizia (la vera giustizia, quella venerea della bellezza) decide di trarre le immagini di questo sogno allucinato desumendole capillarmente da varia cinematografia (ma non solo: a corollario abbiamo molto fumetto, molto giornalismo, e molta fotografia), ricomponendole in un, a prima vista imbarazzante, ibrido di story board e graphic novel.
Una restituzione: riprendiamoci i piani alternati; i montaggi patetici di Sergej Ejzentejn e di Hollywood; il dolby surround e, invece, di emozionarci a comando, di convertirci secondo moda detta e comprare a misura dei bisogni altrui, godiamocela.
Godiamo di smarrirci in questo nostro sogno, che con vago incantamento parla di un'emigrazione, dell'approdo in una terra irta di pericoli e simboli, in cui tutto è grande e misterioso (metà della bellezza di essere bambini è che tutto è costruito a misura degli adulti: una terra di giganti!), in cui un affollamento di immagini, così vicine ad essere idee pure da levare il fiato, ci attornia, aggira, sfianca, e in cui ritroviamo, platonicamente, la nostra famiglia, noi stessi, alla fine del duro percorso di apprendistato (imparare a mangiare il cibo del luogo; imparare le storie del luogo; imparare a lavorare: incarnarsi).
Era tanto, e con tanta generosità, con tanto senso della restituzione e del dono, che qualcuno non ci parlava, vera letteratura, della nostra condizione di viaggiatori incantati, di trasognati migratori: del nostro destino di approdo.
L'Approdo di Shaun Tan: prossimamente presso i migliori spacciatori.
di Pier Paolo Di Mino
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