RECENSIONI
Aldo Villagrossi Crotti
La zia Quintilla
Gattogrigio Editore, Pag. 117 Euro 14,56
Aldo Villagrossi Crotti è un affabulatore formidabile, forse riprende anche in questo una tradizione orale degli ebrei, da sempre narratori di storie. Da sempre sempre, intendo, cioè da tradizione biblica. Ma nel suo ultimo romanzo non dimostra solo questo, è capace di tenere e reggere la tensione del racconto dalla prima all’ultima pagina con quello che è il modo più difficile di condurre una storia, l’ironia che spesso si trasforma in una risata esplosiva. Eppure Zia Quintilla è un romanzo storico, parla di storia e delle vicende di una famiglia misto ebraica (così è definita) del mantovano che si scontra e vive, e soffre, la Storia con la esse maiuscola. Vicende e Storia appunto sono i due piani narrativi seguiti dall’autore, un tempo della narrazione che copre gli anni giovanili dell’autore, dal 1972 al 1985 a Marmirolo, e un tempo del racconto dove davanti a una tavola imbandita, (come nell’Odissea) si evocano le vicende del paese di Marmirolo (dove vive) e della storia famigliare dall’unità d’Italia alla fine della Seconda guerra mondiale. Scopriamo così i Lampioni de gas voluti dal sindaco tra ottocento e novecento, lo zio garibaldino, la macchietta del paese, il masarìn (norcino), lo zio musicista in America e tante altre storie esilaranti in quello che è a tutti gli effetti un Amarcord di felliniana riuscita. Tutto portato avanti con maestria da Villagrossi Crotti che riesce in questo romanzo ad andare oltre quello che solitamente è un limite dei narratori ‘orali’ cioè il bozzettismo, il breve fiato di una novella e di non sapere poi costruire un romanzo (era un problema anche di Pasolini) il quale necessita di una maggiore architettura. Ci riesce mantenendo un tipico stile informale dove spesso esce dalla narrazione per rivolgersi direttamente all’uditore/lettore e con il filo che unisce i vari episodi, che è appunto Zia Quintilla, misteriosa figura familiare, unica deportata ad Auschwitz, e misteriosamente sopravvissuta.
Più della indomabile zia Ada, memoria storica della famiglia, faconda e piena di iniziativa, è appunto questa figura dimessa, tornata tanto traumatizzata da rispondere solo a monosillabi e lamenti, alle domande che le vengono rivolte, a tenere unita la famiglia con la sua sola presenza, l’unica testimone della Shoah.
Tante cose veniamo a sapere da questo romanzo, per niente scontate. Prima di ogni altra cosa, come effettivamente questa famiglia di ebrei sia scampata alle deportazioni. Lo stesso Zio Angelo, il garibaldino che morirà centenario, se lo chiede nel tipico grammelot che si usa ancora nel mantovano, tra dialetto e italiano: “Ma, se i tudesch hanno chiuso il ghetto e nessuno può uscire, perché nualter sèm ché liberi come i nidrì?” e si viene a sapere, ed è un fatto vero, che i marmirolesi, benché per la maggior parte fascisti, avevano sì visto con un certo favore le leggi razziali del ’38 che liberavano molti posti di lavoro in paese, ma non potevano mandar giù la faccenda della deportazione. E che quindi si organizzarono per creare documenti falsi e coprire quando necessario i giudei loro concittadini.
Veniamo a sapere che gli ebrei italiani godettero di settantasette anni di uguaglianza con i non ebrei (dal 1861 al 1938) e che il fatto che Mussolini fosse (o fosse stato) un socialista non aiutava certo la sua simpatia per la questione ebraica, che molti ebrei italiani avevano avuto ruoli importanti all’interno del regime, che molti diedero la vita durante il Risorgimento per la causa dell’Italia unita (basti pensare ai fratelli Bandiera), e tante altri fatti che spesso non si ricordano nei libri scolastici.
Soprattutto, quello che personalmente mi ha colpito, e che Aldo Villagrossi Crotti riesce a rendere molto bene, è che a parte qualche tradizione familiare e culinaria (come la peverada senza midollo di bue e senza burro) un ebreo è assolutamente indistinguibile da un non ebreo. Sembra una questione da poco questa e dettata anche dalla ragione, è ovviamente così, ma a conti fatti non lo è. Un non ebreo non sa niente degli ebrei, se non quello che la narrazione corrente dice. Tipi strani, con mille fisime, strani riti, una strana lingua, con buffi copricapi e barbe lunghe; brava gente che ha subito una violenza spaventosa per mano del nazismo, attaccata al denaro e spesso molto ricca, sicuramente amante della cultura, ma che non ama integrarsi con i gentili. Questa è l’immagine che passa per la maggiore dei mass media, libri, film e luoghi comuni. Nel romanzo di Aldo scopriamo la verità: gli ebrei italiani parlano dialetto, si ritrovano davanti al lesso, bevono lambrusco, litigano, amano raccontare i fatti del passato, ridono, piangono – come tutti. Una normalità che non dovrebbe destare sorpresa, se non fosse che questa normalità l’abbiamo mandata ad Auschwitz.
La zia Ada, verso l’inizio del libro l’aveva detto: “D’altro canto è la storia che insegna a vivere, non certo la vita che insegna la storia.” e noi rimaniamo pensierosi davanti a quello che sembrava un ilare romanzo di cronache familiari e nulla più.
E zia Quintilla? Beh, zia Quintilla tace, il suo mistero viene svelato nelle ultime pagine. Non posso dirvelo, dovete leggerlo, è un colpo di teatro clamoroso, apparentemente grottesco e quindi alla fine plausibile, perché il mondo è tutto fuorché logico, ma è indubbiamente reale.
di Leonardo Tonini
Più della indomabile zia Ada, memoria storica della famiglia, faconda e piena di iniziativa, è appunto questa figura dimessa, tornata tanto traumatizzata da rispondere solo a monosillabi e lamenti, alle domande che le vengono rivolte, a tenere unita la famiglia con la sua sola presenza, l’unica testimone della Shoah.
Tante cose veniamo a sapere da questo romanzo, per niente scontate. Prima di ogni altra cosa, come effettivamente questa famiglia di ebrei sia scampata alle deportazioni. Lo stesso Zio Angelo, il garibaldino che morirà centenario, se lo chiede nel tipico grammelot che si usa ancora nel mantovano, tra dialetto e italiano: “Ma, se i tudesch hanno chiuso il ghetto e nessuno può uscire, perché nualter sèm ché liberi come i nidrì?” e si viene a sapere, ed è un fatto vero, che i marmirolesi, benché per la maggior parte fascisti, avevano sì visto con un certo favore le leggi razziali del ’38 che liberavano molti posti di lavoro in paese, ma non potevano mandar giù la faccenda della deportazione. E che quindi si organizzarono per creare documenti falsi e coprire quando necessario i giudei loro concittadini.
Veniamo a sapere che gli ebrei italiani godettero di settantasette anni di uguaglianza con i non ebrei (dal 1861 al 1938) e che il fatto che Mussolini fosse (o fosse stato) un socialista non aiutava certo la sua simpatia per la questione ebraica, che molti ebrei italiani avevano avuto ruoli importanti all’interno del regime, che molti diedero la vita durante il Risorgimento per la causa dell’Italia unita (basti pensare ai fratelli Bandiera), e tante altri fatti che spesso non si ricordano nei libri scolastici.
Soprattutto, quello che personalmente mi ha colpito, e che Aldo Villagrossi Crotti riesce a rendere molto bene, è che a parte qualche tradizione familiare e culinaria (come la peverada senza midollo di bue e senza burro) un ebreo è assolutamente indistinguibile da un non ebreo. Sembra una questione da poco questa e dettata anche dalla ragione, è ovviamente così, ma a conti fatti non lo è. Un non ebreo non sa niente degli ebrei, se non quello che la narrazione corrente dice. Tipi strani, con mille fisime, strani riti, una strana lingua, con buffi copricapi e barbe lunghe; brava gente che ha subito una violenza spaventosa per mano del nazismo, attaccata al denaro e spesso molto ricca, sicuramente amante della cultura, ma che non ama integrarsi con i gentili. Questa è l’immagine che passa per la maggiore dei mass media, libri, film e luoghi comuni. Nel romanzo di Aldo scopriamo la verità: gli ebrei italiani parlano dialetto, si ritrovano davanti al lesso, bevono lambrusco, litigano, amano raccontare i fatti del passato, ridono, piangono – come tutti. Una normalità che non dovrebbe destare sorpresa, se non fosse che questa normalità l’abbiamo mandata ad Auschwitz.
La zia Ada, verso l’inizio del libro l’aveva detto: “D’altro canto è la storia che insegna a vivere, non certo la vita che insegna la storia.” e noi rimaniamo pensierosi davanti a quello che sembrava un ilare romanzo di cronache familiari e nulla più.
E zia Quintilla? Beh, zia Quintilla tace, il suo mistero viene svelato nelle ultime pagine. Non posso dirvelo, dovete leggerlo, è un colpo di teatro clamoroso, apparentemente grottesco e quindi alla fine plausibile, perché il mondo è tutto fuorché logico, ma è indubbiamente reale.
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