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Il Paradiso degli Orchi
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RECENSIONI

Daniele Garbuglia

Musica leggera

Casagrande, Pag. 125 Euro 15,00
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Alla mia domanda su cosa pensasse dell'incredibile tesi di Antonio Scurati a proposito della narrativa contemporanea che non sarebbe tale perché priva della tenaglia della drammaturgia e delle esperienze di guerra, Garbuglia aveva risposto molto intelligentemente: Cosa c'è di bellico in un tipo che una mattina si sveglia e si ritrova scarafaggio? O ancora: è così importante la cornice bellica in un racconto come Una questione privata di Fenoglio? O ancora più paradossale: come spieghiamo l'opera di uno scrittore come Robert Walser? Non so... Qui c'è poi l'idea centrale della fine dell'inesperienza che, da scrittore, mi lascia perplesso e, detta da un altro scrittore, mi sorprende. Per dirla con il fotografo Luigi Ghirri, se non crediamo che "nulla di antico sia sotto il sole", com'è pensabile soltanto mettersi a tavolino e scrivere storie? Eppure questo continuiamo a fare, perché è l'esperienza che facciamo del mondo che ci obbliga a proseguire. Di che tipo sia l'esperienza che facciamo, come si traduce in parole, è la sostanza del nostro scrivere.

Ma un'altra considerazione mi aveva convinto della validità dello scrittore di Recanati (ricordiamo ai più distratti che noi Orchi avevamo indicato il suo precedente romanzo Home come uno dei più belli di tutto il 2006), e cioè che avesse indicato come padri putativi della sua arte, lui che negli anni ottanta avrebbe potuto subire l'influenza di Tondelli, Antonio Delfini e Silvio D'Arzo.

Qui il cerchio si chiude davvero, perché credo che Tondelli sia stato uno dei responsabili del declino dell'attuale letteratura, letteratura che abbisogna ora di una rinascita culturale in un contesto che disdegna la cultura a favore di un continuo ed insopportabile sproloquio merceologico.

Bando alle ciance e alle polemiche: Musica leggera è un c a p o l a v o r o (e lo scrivo con le lettere distanziate in modo da farlo risaltare ancora di più). E voi che ci seguite, sapete quanto siamo avari di complimenti e di giudizi entusiastici! Eppure questo è un libro che ha davvero colto nel segno e che resterà ai posteri come una delle storie più commoventi e strazianti degli ultimi anni.

Sarei tentato di non dire nulla sulla trama (poco più di 125 pagine che scorrono aggraziate e che andrebbero prese di sana pianta e lette in qualsiasi corso di scarabocchi creativi per far capire ai più come si scrive e soprattutto cosa non si deve scrivere) perché in questo caso diventa vita per una strana sorta di osmosi tra lettore, autore e protagonisti del libro. Vita che per fortuna non è spiccia sociologia o ancor peggio, giornalismo fatto passare per indagine dell'anima: purtroppo il romanzo contemporaneo si divide (tranne nei deliri di Scurati) tra chi insegue il sogno in un'invasività pynchiana che vorrebbe inglobare tutto in un marasma contemporaneo incomprensibile, e chi invece prosegue il discorso di un'indagine conoscitiva – sociologica appunto - del mondo come se, anche quando non si scrive di noir (che è il flagello dei nostri tempi), si percepisse la necessità di un bisogno conchiuso delle cose (per quieto vivere ignoro la terza via alla letteratura, quella appunto post-tondelliana che ha ridotto la realtà ad un triste e sconsolante feticismo consumistico).

Garbuglia ha scritto un capolavoro perché s'è tenuto a distanza da simili impostazioni, perché mantiene saldo il legame con la tradizione (anche con la tradizione meno sbandierata nelle pagine culturali dei quotidiani) e perché ha capito che fotografare il mondo non è solo ritrarlo, ma decomporlo.

Vado oltre e mi espongo come mai ho fatto prima: credo che insieme a Le voci del fiume di Jaime Cabré, questo sia un libro da indicare come punto di riferimento del decennio, da portare su un'isola deserta o da regalarlo a tutte le persone a cui si vuole bene.

La vicenda del ragazzo (ma sì, qualcosa della trama bisogna pur dirla!) che ha perso il padre che è stato investito da un camion mentre tornava a casa e che tenta disperatamente di riallacciare le sorti della sua esistenza attraverso le tracce di quella tragedia (mio dio: quel guardare in continuazione il proprio cellulare nella speranza di un messaggio che mai arriverà è uno strazio che il personaggio inconsciamente vive, ma il tocco magistrale di uno scrittore segnato dalla beatitudine) è più di una semplice storia. E' la Storia, quella che senza orpelli o sovrastrutture o infingimenti ci regala l'essenza stessa del nostro vivere.

Una lezione. Da qualunque parte la prendiate e da qualunque parte vogliate interpretarla.

Se non fossi ateo direi finalmente un segno divino, in questa terra dei cachi.







di Alfredo Ronci


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