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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Marco Vichi

Corpo mondo

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Si guardò in giro a testa bassa, tremando dal freddo. Era notte fonda. Doveva fare presto. Prese il cadavere per i piedi, e lo trascinò dentro un magazzino sventrato da un colpo di carro armato. Pesava molto. Sistemò il corpo dietro a un cumulo di macerie e tirò fuori una torcia tascabile. Prima di accenderla tornò fuori, dette un'ultima occhiata intorno, scrutando ogni angolo. Tese le orecchie trattenendo il fiato, il viale era deserto e buio, l'elettricità mancava da molte settimane. In lontananza si sentiva il rumore regolare delle granate. Nelle strade non c'era un'anima, tutto deserto, a parte le sagome scure di qualche morto. Un cane scheletrico annusava quei corpi immobili con diffidenza, e passava oltre. Lui tornò dentro e accese la torcia. Ansimando ancora per la fatica esaminò il morto. Chiunque fosse stato non aveva più faccia, non era più nessuno. Le schegge gli avevano maciullato anche la pancia, e quasi staccato il braccio destro. E che braccio. Un bel braccio. Era proprio così che lo cercava. Sollevò quel magnifico braccio da terra prendendolo per la mano intatta, puntò un piede contro l'ascella e tirò. Uno, due strattoni, e il braccio si sfilò docilmente dalla manica, come un osso di pollo. Un bellissimo braccio. Trovò un giornale vecchio e ce lo avvolse dentro. Ringraziò mentalmente il morto, poi corse via col fagotto sotto la giacca, passando per cortili e vicoli abbandonati, appena illuminati dalla luna. Nonostante tutto la luna era sempre lì, alta e impassibile nel cielo nero. Ci fu una pausa nei bombardamenti, e in lontananza si sentì un bambino che piangeva. C'era ancora vita nel quartiere. Strinse ancora di più il braccio contro il petto e aumentò l'andatura. Arrivò a casa poco dopo. Non era una vera casa, ma a lui piaceva. Non aveva mai avuto una casa tutta sua, e nemmeno un laboratorio tutto suo. Ora aveva centinaia di letti a disposizione, e almeno dieci sale operatorie. L'ospedale era deserto, a parte qualche gatto. Lui dormiva al terzo piano, in una camera lunga lunga, piena di letti di ferro. Dormiva su un materasso appoggiato in terra accanto alla porta. Ma ora non era tempo di dormire. Salì fino al quinto piano, ansimando su per gli scalini. Prima di aprire la porta della sala operatoria si fermò un attimo. Si passò una mano sulla faccia, quasi piangendo, si fece il segno della croce ed entrò. Nella penombra lunare si avvicinò al tavolo operatorio. Appoggiò il braccio da una parte, e carezzò con la punta delle dita la testa che aveva sistemato sul cuscino, l'unica cosa che aveva ritrovato di suo figlio dopo l'esplosione di giovedì, al mercato. Avvicinò il viso per guardare meglio, mentre sfiorava la pelle essiccata e grigia di quei lineamenti. Baciò la fronte di suo figlio e bisbigliò qualcosa, e sugli occhi gli passò una luce quasi gioiosa. Bene, ora poteva cominciare. Prese il braccio e lo posò sul tavolo operatorio, lo sistemò là sopra come se fosse un pezzo di suo figlio. Si fece ancora il segno della croce e ripartì nella notte. Doveva trovare ancora molti pezzi. Non fu difficile. C'erano molti corpi abbandonati nelle strade. All'orizzonte lumeggiavano i mortai, ogni tanto passava altissimo nel cielo un aereo, con un rombo tranquillo. In un fossato trovò un morto con un bel braccio sinistro quasi intatto, lo raccolse e tornò all'ospedale. Si accorse che alla mano mancava il pollice, ma era un bel braccio lo stesso. Uscì di nuovo per cercare il resto. Prese un pollice sinistro da una bella mano, forte e massiccia. Poi trovò le due gambe, a una mancava il piede, ma da un altro corpo ne prese uno che sembrava perfetto. Era una notte fredda, ma fortunata. Riuscì senza fatica a trovare un busto mutilato, anche se di una donna. Ma non importava. Ora aveva tutto quello che serviva. Tornò all'ospedale, riunì tutto sul tavolo operatorio e cominciò a cucire insieme i pezzi. Non era proprio come cucire la stoffa, ci voleva più impegno. Finito il lavoro si concesse una sigaretta, fatta coi mozziconi che aveva trovato in giro e arrotolata nella carta di giornale. Gli si disfece tra le dita dopo qualche tiro, ma non importava, la gettò in terra e la spense sotto la scarpa. Guardò ancora la sua creatura. Gli sembrò bellissima. Ogni pezzo andava d'accordo con l'altro, era l'immagine dell'armonia. Bene, molto bene. Da una sedia prese dei vecchi abiti di suo figlio e lo vestì. Gli annodò al collo una cravatta e lo pettinò. Gli mise anche un orologio al polso, perché non facesse tardi agli gli appuntamenti. Ecco, era tutto pronto. Suo figlio era di nuovo intero, poteva alzarsi e camminare, respirare, parlare, ridere, osservare il mondo. Bastava aspettare che Dio guardasse da quella parte e decidesse di farlo vivere ancora. Non c'erano più scuse. Una testa da sola non può alzarsi, siamo d'accordo, ma un corpo intero sì. Un corpo intero può tutto. Si fece il segno della croce e pregò, camminando nella stanza. Bisbigliò tutte le preghiere che conosceva. Finite quelle ne inventò di nuove, fatte con parole che gli uscivano dalla gola ancora calde di emozione. Finì le parole e continuò a pregare con la mente, con gli occhi. Poi rimase muto, svuotato. Aveva fatto tutto quello che doveva fare, non restava che aspettare. Appoggiò la fronte al vetro della finestra, guardava l'orizzonte, la cresta nera delle colline lontane, il chiarore tremolante delle bombe. Non aveva mai capito la guerra, era come se il suo cervello non fosse adatto a quell'idea. Si era sempre immaginato che tutto potesse essere risolto parlando, ragionando con calma, magari seduti a un tavolo con un bicchiere in mezzo. Vino rosso e discorsi, tutto qua. Non serviva altro. Dopo qualche ora si stancò e andò a prendere una sedia. Si sistemò accanto al tavolo operatorio e prese nella sua la mano di suo figlio, una bella mano, grande e forte. Si addormentò con la bocca aperta, russando e biascicando parole. Mentre lui dormiva, Dio si stropicciò gli occhi e finalmente guardò da quella parte, guardò proprio lì, in quella stanza buia, guardò il bel viso di suo figlio, il suo corpo nuovo. Poi fece un cenno e il ragazzo alzò le palpebre, dilatò gli occhi, alzò appena il capo e tossì forte, sputò di lato, sollevò le braccia e si guardò le mani, sorrise, puntò i gomiti sul tavolo e si drizzò sul busto, la bocca gli si aprì dalla gioia e buttò le gambe giù dal letto, poggiò i piedi a terra e per un po' giocò a strusciare le scarpe sul pavimento, come se fosse una bella cosa. Poi si alzò, barcollò appena ma si riprese subito, si guardò intorno, si stirò, fece uno sbadiglio, si sistemò i vestiti addosso e uscì dalla stanza ravviandosi i capelli con le mani. Era bello suo figlio, anche così era bello, anzi più bello, con un braccio cristiano e uno musulmano, un pollice greco, una gamba ebrea, l'altra magrebina, il busto di una bella bosniaca violentata, il piede destro di un ragazzo albanese che da grande voleva diventare campione di basket.



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