RACCONTI
Marco Beretti
Tonino l'ubriacone
“Ma cosa ne sanno loro” pensò Tonino barcollando per le strade del quartiere Rosso.
I ragazzi gli si facevano incontro. Il più sbruffone del gruppo lo canzonava.
«Tonino l’ubriacone, Tonino l’ubriacone» ripeteva a mo’ di filastrocca.
Lui lo scacciò a male parole: «[1]Ch’èt végna ’n asidênt».
Gli adulti lo squadravano con sospetto. Se alzava lo sguardo, gli sorridevano cordialmente; appena tornava ad abbassarlo, scuotevano la testa sogghignando.
«È già ubriaco a quest’ora» si levò una voce dal gruppo.
Ma cosa ne sapevano loro... delle pene che aveva passato, delle disgrazie, delle umiliazioni.
Facevano presto a parlare. Quella notte si sarebbero seduti attorno a una tavola imbandita, nelle loro accoglienti case, addobbate per il Natale. Poi, in comode macchine, avrebbero percorso la strada che portava alla chiesa, per assistere alla messa di mezzanotte.
“Quand’è stata l’ultima volta che ho varcato il sagrato?”
Ah sì, ora ricordava. Due anni or sono, al funerale di sua madre Adele. Da allora nemmeno lì era ben accetto: il Don gli aveva fatto capire che le donne del Paese non lo volevano.
«Se Tonino viene a messa, noi usciamo. Puzza troppo» si lamentavano con il monsignore.
Difficile lavarsi bene, senza acqua calda e luce elettrica. Dopo la morte di sua madre non lavorava più, gli avevano tagliato tutto. Rimasto solo al mondo, la vita gli scorreva attorno indifferente.
A dire il vero, un fratello di nome Bruno esisteva. Partito per il Belgio dopo la fine della seconda guerra mondiale, faceva ritorno al Paese solo per le vacanze estive.
La vita di Bruno era stata dura, forse più della sua. Durante il conflitto aveva partecipato alle campagne di Albania e Jugoslavia. Dopo l’armistizio, rifiutandosi di combattere per i nazisti, venne internato in un campo di detenzione. Rientrò a casa solo nella primavera del ‘46, quando oramai si temeva il peggio. Ma ripartì quasi subito, per andare a lavorare nelle miniere di carbone di Genk. Lì, per un caso fortuito, non fu assegnato al lavoro sotterraneo, salvandosi dalla silicosi.
Bruno gli chiese più volte di raggiungerlo, ma lui non ne voleva sapere. Il motivo portava il nome di una donna: Marta.
L’aveva conosciuta mentre sfollava con Adele nella zona libera di Montefiorino e si erano subito innamorati.
«Quando finirà, mi trovo un lavoro e ci sposiamo. I tuoi capiranno» gli ripeteva tra i suoi singhiozzi.
Tonino, il figlio di Emilio il mezzadro. Padre che non aveva mai conosciuto, perché morto quando era ancora piccolo. Scuro, tarchiato e socialista: proprio com’era lui.
Mori, qualcuno li chiamava in Paese, e non certo per fargli un complimento.
In cuor suo Tonino sapeva che non poteva sposare Marta. Bionda, esile e benestante. Lei veniva dalla città, era figlia di gente che aveva studiato. Ma trovò comunque il coraggio di chiedere la sua mano.
La famiglia di lei si oppose.
Si stabilirono nella [2]Bassa pochi anni dopo la conclusione della guerra. Non la rivide mai più.
Iniziò a bere.
Ma non era ancora tempo di arrendersi. Trovò lavoro come operaio metalmeccanico e andò a vivere con sua madre nel quartiere popolare. Adele faceva la sarta in casa, lui contribuiva alle spese con una parte dello stipendio. Il resto lo dissipava nei bar, tra partite di ramino e bicchieri di amaro. Oppure lo spendeva nelle balere, in compagnia del suo amico Fausto.
Quanto gli mancava Fausto.
Lo aveva conosciuto in fabbrica, faceva il rappresentante sindacale e lo convinse subito a prendere la tessera. Furono anni intensi. Le lotte, gli scioperi e la grande manifestazione a Roma.
Ancora se la ricordava.
Ma col tempo il bere divenne un problema. La mattina dopo colazione faceva sosta al bar per il primo frizzante. Nell’armadietto nascose una bottiglia di grappa, con cui allungare i caffè. Le mani gli tremavano sempre più intensamente e iniziò ad arrivare in ritardo al lavoro. Non era mai successo.
Fausto provò ad aiutarlo.
Per un breve periodo Tonino riuscì anche a smettere. Quando era sobrio però, la sua mente andava a Marta, il dolore per quell’amore negato era quasi insopportabile.
L’unica medicina che conosceva per attenuare quella sofferenza, si versava in un bicchiere.
«Tonino, io mi trasferisco a Reggio» gli disse un giorno Fausto.
Anche lui avrebbe lasciato l’Appennino, come tanti in quegli anni. Da residente divenne un villeggiante, proprio come suo fratello Bruno.
Gli era rimasta solo sua madre, nascosta sotto a un mucchio di stracci da rammendare.
Si attaccò alla bottiglia, con più accanimento di prima.
Per tutti divenne Tonino l’ubriacone.
Si era fatto buio, il bar della Ca’ chiudeva i battenti. Non restava che tornarsene a casa. Il freddo era pungente e la strada ghiacciata. Sentì mancare il terreno sotto i piedi e cadde pesantemente nel fossato. Rimase disteso per un tempo indefinito, senza pensare a nulla.
La luce del lampione illuminava la condensa del suo respiro affannoso. Era troppo stanco per alzarsi. Inutile sperare in un aiuto: non sarebbe passato nessuno prima dell’alba. Doveva solo riposarsi un po’ e ritrovare le forze.
E se fosse morto in quel fosso, a chi sarebbe importato?
Per Bruno sarebbe stato solo un fastidio fare ritorno al Paese per la sepoltura. Si vergognava di lui, non poteva biasimarlo per questo.
Fausto gli aveva promesso che a Natale si sarebbero rincontrati. Era dall’estate passata che non si faceva vedere, dal concerto di suo nipote Luca. Se lo ricordava bene quel giorno. Da tempo agognava una doccia calda, una camicia nuova e un paio di pantaloni puliti. Fausto si era adoperato per accontentare questi suoi modesti desideri. Poi si erano diretti verso un circolo appena fuori dal centro, dove suonavano quella musica che piaceva tanto ai giovani. Tutti quei ragazzi con i capelli lunghi, vestiti di nero e con gli abiti strappati. Lui, quando in passato ballava il liscio in balera, si metteva il vestito buono e non gli indumenti da lavoro. Ma i tempi erano cambiati e non avevano avuto bisogno del suo permesso per farlo. E poi in mezzo a loro si era sentito accolto, quei ragazzi gentili facevano a gara per offrirgli un bicchiere di Lambrusco. Si era divertito in quel locale, come non accadeva da tanto tempo.
Qualcosa di gelido cadde sulle sue labbra. Poi lo colpì agli occhi. Prese a nevicare.
Sul volto di Tonino si disegnò un triste sorriso.
“Ma cosa ne sanno loro.”
I ragazzi gli si facevano incontro. Il più sbruffone del gruppo lo canzonava.
«Tonino l’ubriacone, Tonino l’ubriacone» ripeteva a mo’ di filastrocca.
Lui lo scacciò a male parole: «[1]Ch’èt végna ’n asidênt».
Gli adulti lo squadravano con sospetto. Se alzava lo sguardo, gli sorridevano cordialmente; appena tornava ad abbassarlo, scuotevano la testa sogghignando.
«È già ubriaco a quest’ora» si levò una voce dal gruppo.
Ma cosa ne sapevano loro... delle pene che aveva passato, delle disgrazie, delle umiliazioni.
Facevano presto a parlare. Quella notte si sarebbero seduti attorno a una tavola imbandita, nelle loro accoglienti case, addobbate per il Natale. Poi, in comode macchine, avrebbero percorso la strada che portava alla chiesa, per assistere alla messa di mezzanotte.
“Quand’è stata l’ultima volta che ho varcato il sagrato?”
Ah sì, ora ricordava. Due anni or sono, al funerale di sua madre Adele. Da allora nemmeno lì era ben accetto: il Don gli aveva fatto capire che le donne del Paese non lo volevano.
«Se Tonino viene a messa, noi usciamo. Puzza troppo» si lamentavano con il monsignore.
Difficile lavarsi bene, senza acqua calda e luce elettrica. Dopo la morte di sua madre non lavorava più, gli avevano tagliato tutto. Rimasto solo al mondo, la vita gli scorreva attorno indifferente.
A dire il vero, un fratello di nome Bruno esisteva. Partito per il Belgio dopo la fine della seconda guerra mondiale, faceva ritorno al Paese solo per le vacanze estive.
La vita di Bruno era stata dura, forse più della sua. Durante il conflitto aveva partecipato alle campagne di Albania e Jugoslavia. Dopo l’armistizio, rifiutandosi di combattere per i nazisti, venne internato in un campo di detenzione. Rientrò a casa solo nella primavera del ‘46, quando oramai si temeva il peggio. Ma ripartì quasi subito, per andare a lavorare nelle miniere di carbone di Genk. Lì, per un caso fortuito, non fu assegnato al lavoro sotterraneo, salvandosi dalla silicosi.
Bruno gli chiese più volte di raggiungerlo, ma lui non ne voleva sapere. Il motivo portava il nome di una donna: Marta.
L’aveva conosciuta mentre sfollava con Adele nella zona libera di Montefiorino e si erano subito innamorati.
«Quando finirà, mi trovo un lavoro e ci sposiamo. I tuoi capiranno» gli ripeteva tra i suoi singhiozzi.
Tonino, il figlio di Emilio il mezzadro. Padre che non aveva mai conosciuto, perché morto quando era ancora piccolo. Scuro, tarchiato e socialista: proprio com’era lui.
Mori, qualcuno li chiamava in Paese, e non certo per fargli un complimento.
In cuor suo Tonino sapeva che non poteva sposare Marta. Bionda, esile e benestante. Lei veniva dalla città, era figlia di gente che aveva studiato. Ma trovò comunque il coraggio di chiedere la sua mano.
La famiglia di lei si oppose.
Si stabilirono nella [2]Bassa pochi anni dopo la conclusione della guerra. Non la rivide mai più.
Iniziò a bere.
Ma non era ancora tempo di arrendersi. Trovò lavoro come operaio metalmeccanico e andò a vivere con sua madre nel quartiere popolare. Adele faceva la sarta in casa, lui contribuiva alle spese con una parte dello stipendio. Il resto lo dissipava nei bar, tra partite di ramino e bicchieri di amaro. Oppure lo spendeva nelle balere, in compagnia del suo amico Fausto.
Quanto gli mancava Fausto.
Lo aveva conosciuto in fabbrica, faceva il rappresentante sindacale e lo convinse subito a prendere la tessera. Furono anni intensi. Le lotte, gli scioperi e la grande manifestazione a Roma.
Ancora se la ricordava.
Ma col tempo il bere divenne un problema. La mattina dopo colazione faceva sosta al bar per il primo frizzante. Nell’armadietto nascose una bottiglia di grappa, con cui allungare i caffè. Le mani gli tremavano sempre più intensamente e iniziò ad arrivare in ritardo al lavoro. Non era mai successo.
Fausto provò ad aiutarlo.
Per un breve periodo Tonino riuscì anche a smettere. Quando era sobrio però, la sua mente andava a Marta, il dolore per quell’amore negato era quasi insopportabile.
L’unica medicina che conosceva per attenuare quella sofferenza, si versava in un bicchiere.
«Tonino, io mi trasferisco a Reggio» gli disse un giorno Fausto.
Anche lui avrebbe lasciato l’Appennino, come tanti in quegli anni. Da residente divenne un villeggiante, proprio come suo fratello Bruno.
Gli era rimasta solo sua madre, nascosta sotto a un mucchio di stracci da rammendare.
Si attaccò alla bottiglia, con più accanimento di prima.
Per tutti divenne Tonino l’ubriacone.
Si era fatto buio, il bar della Ca’ chiudeva i battenti. Non restava che tornarsene a casa. Il freddo era pungente e la strada ghiacciata. Sentì mancare il terreno sotto i piedi e cadde pesantemente nel fossato. Rimase disteso per un tempo indefinito, senza pensare a nulla.
La luce del lampione illuminava la condensa del suo respiro affannoso. Era troppo stanco per alzarsi. Inutile sperare in un aiuto: non sarebbe passato nessuno prima dell’alba. Doveva solo riposarsi un po’ e ritrovare le forze.
E se fosse morto in quel fosso, a chi sarebbe importato?
Per Bruno sarebbe stato solo un fastidio fare ritorno al Paese per la sepoltura. Si vergognava di lui, non poteva biasimarlo per questo.
Fausto gli aveva promesso che a Natale si sarebbero rincontrati. Era dall’estate passata che non si faceva vedere, dal concerto di suo nipote Luca. Se lo ricordava bene quel giorno. Da tempo agognava una doccia calda, una camicia nuova e un paio di pantaloni puliti. Fausto si era adoperato per accontentare questi suoi modesti desideri. Poi si erano diretti verso un circolo appena fuori dal centro, dove suonavano quella musica che piaceva tanto ai giovani. Tutti quei ragazzi con i capelli lunghi, vestiti di nero e con gli abiti strappati. Lui, quando in passato ballava il liscio in balera, si metteva il vestito buono e non gli indumenti da lavoro. Ma i tempi erano cambiati e non avevano avuto bisogno del suo permesso per farlo. E poi in mezzo a loro si era sentito accolto, quei ragazzi gentili facevano a gara per offrirgli un bicchiere di Lambrusco. Si era divertito in quel locale, come non accadeva da tanto tempo.
Qualcosa di gelido cadde sulle sue labbra. Poi lo colpì agli occhi. Prese a nevicare.
Sul volto di Tonino si disegnò un triste sorriso.
“Ma cosa ne sanno loro.”
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