ATTUALITA'
Ettore Maggi
La grammatica della Geopolitica.
Dario Fabbri era un personaggio con una relativa notorietà, sia pure di nicchia, fino al febbraio 2022.
Principale colonna dell’allora unica rivista di Geopolitica fino ad allora, dopo ovviamente il fondatore e direttore Lucio Caracciolo, Limes.
Ci sono stati tempi in cui il termine Geopolitica era quasi sconosciuto, perlomeno al grande pubblico.
Limes si trovava solo in libreria e in poche edicole ed aveva un pubblico ridotto anche se fedele.
Il canale Youtube diffondeva vari video in cui Caracciolo e Fabbri, interrotti solo dalla proiezione delle immancabili cartine geografiche (appunto, si tratta di una crasi tra Geografia e Politica) discutevano di strategia e potenza. Diventato oggetto di culto e dotato di una notevole verve e uno straordinario aplomb, oltre che un originale senso dell’umorismo, si è creato un notevole (per l’ambiente) numero di fans.
Con felice intuizione, Dario Fabbri si è svincolato da Limes per mettersi in proprio, non soltanto attraverso video e podcast, ma dirigendo prima l’inserto settimanale del quotidiano Domani, Scenari, poi la rivista di geopolitica concorrente di Limes, Domino.
Infine, dopo il febbraio 2022, con l’attacco russo a Kiev, è diventato noto anche al grande pubblico grazie alla TV, diventando l’analista geopolitico del canale La7.
Il grande merito di Dario Fabbri e quindi di questo suo libro, è di chiarire una volta per tutte cos’è la Geopolitica, che spesso viene confusa con lo studio della Relazioni Internazionali e con la Politica Internazionale.
Disciplina nata in ambiente nordico, il nome fu creato dal geografo svedese Rudolph Kjellén e sviluppata, in ambito occidentale dall’antropologo e geografo tedesco Friederich Ratzel (esponente del “determinismo geografico”) e dal geografo inglese Mackinder e infine definitivamente elaborata dal tedesco Haushofer, non a caso un militare, che sviluppò il concetto di Lebensraum (spazio vitale), già coniato da Ratzel.
Di cosa si occupa la Geopolitica? Si occupa di “strutture”. Citando lo stesso Fabbri (pag. 10): “la geopolitica umana studia l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, poleis, comuni. Fino all’epoca corrente, domanata dagli Stati-nazione. Dagli imperi. Mai dai singoli individui. Tantomeno i leader”.
Nemica dell’individuo e dell’individualismo e in un certo senso anche del libero arbitrio, non a caso la Geopolitica è la displiplina preferita di Aleksandr Dugin.
Aggiunge Fabbri: ”La geopolitica umana respinde il metodo descritto come scientifico”. Innegabile, dato che per la geopolitica esiste solo la necessità ma non il caso. Fabbri sostiene che sia una disciplina profondamente storica perché ciò che è stato incide sul presente e quindi sul futuro. Ma al tempo stesso per noi ha un approccio antistorico e deterministico perché spesso tutto è già scritto nella geografia, nella demografia e nell’antropologia.
Tutto questo porta allo svilimento delle Scienze Politiche o perlomeno a considerarle molto meno importanti, perché, secondo questa disciplina, la politica è conseguenza delle cose (cioè delle strutture) e non la causa.
Molti storici hanno contestato all’approccio geopolitico di non considerare come si formi l’identità di un popolo, cioè con un processo che può avere sfumature e varie direzioni.
Ha indubbiamente ragione Fabbri quando dice che “i politici intercettano istanze già esistenti ma non le inventano”. Ma l’autore porta all’eccesso questa osservazione indubbiamente interessante, sostenendo che i leader politici non abbiano nessun ruolo sugli eventi.
Hitler, come Mussolini, indubbiamente seppero intercettare le tendenze del periodo. Ma, ritiene chi scrive, senza una serie di eventi il primo, senza il crollo della borsa di New York del 1929, sarebbe rimasto un reduce straniero (Hitler non aveva avuto la cittadinanza tedesca nonostante avesse combattuto nell’esercito guglielmino) frustrato con velleità artistiche, misogino e misantropo e il secondo, se Vittorio Emanuele III non avesse preso un clamoroso abbaglio (abbaglio che comunque gli fu utile per vent’anni) nell’ottobre 1922, un giornalista ambiziono con tentazioni rivoluzionarie e una condanna penale in più. Ricordiamo che il presidente del consiglio Facta aveva già pronto l’ordine di far intervenire l’esercito per disperdere, alle porte di Roma, quelli che oggi chiameremo scappati di casa.
L’anno precedente a Sarzana, di fronte alla richiesta di 600 fascisti guidati dal futuro assassino di Matteotti di liberare un loro compagno incarcerato, bastarono due ufficiali risoluti e una quindicina tra carabinieri e poliziotti per disperdere ben 600 individui sicuramente inclini alla violenza, armati e in gran parte reduci di guerra.
Non a caso Mussolini cambiò tattica e comunque, il 22 ottobre, mentre i suoi fedelissimi marciavano su Roma, lui si tenne prudentemente a Milano nei pressi della stazione pronto a prendere il primo treno per la Svizzera, se le cose fossero andate male.
L'anno successivo Hitler tentò di replicare la Marcia su Roma con il putsch di Monaco. Ma l’esercito intervenne e lo stesso Hitler fu arrestato e condannato. A quel punto capì che la Germania non era l’Italia ed era necessaria un’altra strada.
Tuttavia, ancora nel 1928 il partito nazista aveva scarsissimo successo elettorale.
Furono due fattori a permettergli la conquista del potere: la crisi economica spaventosa che colpì la Germania dopo il crollo della borsa americana del 1929 e i conflitti tra gli altri partiti. I comunisti, su direttiva di Mosca, che pensava che una Germania socialdemocratica fosse troppo stabile (e aveva ragione) e gli altri partiti (per motivi differenti dai comunisti) furono di fatti i veri artefici della conquista del potere da parte di Hitler.
Un altro esempio: nel 1940 l’Inghilterra era l’unica nazione a opporsi a Hitler. La Francia era collassata, gli USA non avevano nessuna intenzione di entrare in guerra (a parte Roosvelt, contrastato però dalla componente filocomunista dei suo staff), l’URSS era di fatto un alleato della Germania nazista, a cui forniva petrolio in cambio di tecnologia e aiuti militari e con cui si era spartita la Polonia, con tacito assenso sull’annessione dei paesi baltici e il tentativo di annessione della Finlandia.
La popolazione era stremata dai bombardamenti tedeschi.
A Hitler non interessava la conquista delle isole britanniche. I tedeschi proposero un accordo di pace (Hitler prevedeva già di rovesciare l’alleanza con i russi, dopotutto già nel Mein Kampf l’ex soldato austriaco prospettava l’espansione verso est).
Quasi tutti i politici inglesi erano favorevoli a una pace con i tedeschi.
Gli inglesi avrebbero mantenuto il dominio sulle loro colonie in mezzo mondo.
Solo un uomo si oppose, Winston Churchill, che nel suo famoso discorso al parlamento e trasmesso alla radio ribadì che avrebbero combattuto sulle spiagge, sulle colline, sulle strade, ovunque e che non si sarebbero mai arresi.
Proseguendo: Dario Fabbri distigue tra nazioni e imperi. I primi seguono l’economia, i secondi la volontà di potenza. I primi affrontano l’immigrazione attraverso l’assimilazione, i secondi attraverso l’integrazione.
Esempi tipico di questi due aspetti, gli USA e la Germania.
Altro fattore determinante è l’età. Gli imperi, per rimanere tali, devono avere una popolazione giovane, per poter combattere, per affrontare sacrifici, per sacrificare il benessere con la volontà di gloria.
teori interessante e per centri versi indiscutibile, con qualche eccezione: l’Italia, il paese più vecchio del mondo, non integra né assimila gli immigrati mentre la Russia, per Fabbri (e anche per chi scrive) geneticamente predisposta alle velleità imperiali da quando Ivan IV si proclamò per primo Zar, cioè Cesare, continua a invecchiare nonostante l’aspettativa di vita decisamente bassa.
Per Fabbri gli imperi sono e restano cinque: gli USA (quello nato in tempi più recenti), la Russia, la Cina, l’Iran e la Turchia.
UK, Spagna, Portogallo, Francia, sono stati grandi imperi ma sono implosi o sono stati constretti dalle sconfitte militari a rinunciare al ruolo.
A proposito della Turchia: per Fabbri “le prolifiche masse anatoliche si sono affrancate dal complesso di inferiorità nei confronti delle élite di Istanbul perché pretendono di dominare Levante, Balcani e Mediterraneo orientale, com’è stato per secoli. Non perché Erdogan è asceso al potere. Non vi fosse attitudine tra la popolazione il rais non esisterebbe”.
Anche qui non siamo del tutto d’accordo. Indubbiamente Erdogan, come tutti gli autocrati, sa cosa vuole la massa (ed è vero che nessun regime autoritario riesce a stare in sella senza il consenso di una significativa parte della popolazione - tranne forse per l’Iran) ma l’abilità straordinaria del Sultano è stata ed è tuttora la capacità di aver riunito nazionalismo anti universalista (i kemalisti avevano distrutto l’impero multietcnico per creare una repubblica con una sola lingua) con l’islamismo antinazionalista. Oltre a destreggiarsi tra UE, BRICS, NATO, Russia, USA, Cina.
In ogni caso, il giudizio che diamo su questo libro è che rappresenta perfettamente la disciplina che tratta: uno strumento utile per dare uno sguardo alternativo (e anche un po’ retrò, visto che si tratta di una disciplina saldamente ancorata al pensiero del periodo tra la fine dell’ Ottocento e i primi del Novecento, con i suoi pregi e i suoi difetti) ma di cui bisogna tenere conto dei limiti. Un esempio: quando Fabbri e la geopolitica dicono che le nazioni-imperi che vivono di potenza o ambiscono a viverci, non agiscono sotto la spinta degli interessi economici ma anzi spesso compiono azioni anti-economiche. L’attacco degli USA in Iraq, che qualcuno crede ancora attuato per impadronirsi del petrolio di Saddam o l’invasione russa dell’Ucraina, ne sono due chiari esempi. Leggere tutta la politica internazionale in chiave marxista materialista è un errore. Chiaramente però poi la geopolitica tende essa stessa a leggere ogni azione in un’ottica chiusa di pura strategia.
La realtà e le logiche del potere sono molto più sfumate e caotiche. Il mondo è nato dal caos e vive di forze centrifughe e centripete, e l’evoluzione è frutto non solo di necessità ma anche di caso.
Dario Fabbri
Geopolitica umana. Capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne
(Gribaudo)
Principale colonna dell’allora unica rivista di Geopolitica fino ad allora, dopo ovviamente il fondatore e direttore Lucio Caracciolo, Limes.
Ci sono stati tempi in cui il termine Geopolitica era quasi sconosciuto, perlomeno al grande pubblico.
Limes si trovava solo in libreria e in poche edicole ed aveva un pubblico ridotto anche se fedele.
Il canale Youtube diffondeva vari video in cui Caracciolo e Fabbri, interrotti solo dalla proiezione delle immancabili cartine geografiche (appunto, si tratta di una crasi tra Geografia e Politica) discutevano di strategia e potenza. Diventato oggetto di culto e dotato di una notevole verve e uno straordinario aplomb, oltre che un originale senso dell’umorismo, si è creato un notevole (per l’ambiente) numero di fans.
Con felice intuizione, Dario Fabbri si è svincolato da Limes per mettersi in proprio, non soltanto attraverso video e podcast, ma dirigendo prima l’inserto settimanale del quotidiano Domani, Scenari, poi la rivista di geopolitica concorrente di Limes, Domino.
Infine, dopo il febbraio 2022, con l’attacco russo a Kiev, è diventato noto anche al grande pubblico grazie alla TV, diventando l’analista geopolitico del canale La7.
Il grande merito di Dario Fabbri e quindi di questo suo libro, è di chiarire una volta per tutte cos’è la Geopolitica, che spesso viene confusa con lo studio della Relazioni Internazionali e con la Politica Internazionale.
Disciplina nata in ambiente nordico, il nome fu creato dal geografo svedese Rudolph Kjellén e sviluppata, in ambito occidentale dall’antropologo e geografo tedesco Friederich Ratzel (esponente del “determinismo geografico”) e dal geografo inglese Mackinder e infine definitivamente elaborata dal tedesco Haushofer, non a caso un militare, che sviluppò il concetto di Lebensraum (spazio vitale), già coniato da Ratzel.
Di cosa si occupa la Geopolitica? Si occupa di “strutture”. Citando lo stesso Fabbri (pag. 10): “la geopolitica umana studia l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui. Oggetto della sua analisi sono le aggregazioni umane, in ogni realizzazione storica. Tribù, poleis, comuni. Fino all’epoca corrente, domanata dagli Stati-nazione. Dagli imperi. Mai dai singoli individui. Tantomeno i leader”.
Nemica dell’individuo e dell’individualismo e in un certo senso anche del libero arbitrio, non a caso la Geopolitica è la displiplina preferita di Aleksandr Dugin.
Aggiunge Fabbri: ”La geopolitica umana respinde il metodo descritto come scientifico”. Innegabile, dato che per la geopolitica esiste solo la necessità ma non il caso. Fabbri sostiene che sia una disciplina profondamente storica perché ciò che è stato incide sul presente e quindi sul futuro. Ma al tempo stesso per noi ha un approccio antistorico e deterministico perché spesso tutto è già scritto nella geografia, nella demografia e nell’antropologia.
Tutto questo porta allo svilimento delle Scienze Politiche o perlomeno a considerarle molto meno importanti, perché, secondo questa disciplina, la politica è conseguenza delle cose (cioè delle strutture) e non la causa.
Molti storici hanno contestato all’approccio geopolitico di non considerare come si formi l’identità di un popolo, cioè con un processo che può avere sfumature e varie direzioni.
Ha indubbiamente ragione Fabbri quando dice che “i politici intercettano istanze già esistenti ma non le inventano”. Ma l’autore porta all’eccesso questa osservazione indubbiamente interessante, sostenendo che i leader politici non abbiano nessun ruolo sugli eventi.
Hitler, come Mussolini, indubbiamente seppero intercettare le tendenze del periodo. Ma, ritiene chi scrive, senza una serie di eventi il primo, senza il crollo della borsa di New York del 1929, sarebbe rimasto un reduce straniero (Hitler non aveva avuto la cittadinanza tedesca nonostante avesse combattuto nell’esercito guglielmino) frustrato con velleità artistiche, misogino e misantropo e il secondo, se Vittorio Emanuele III non avesse preso un clamoroso abbaglio (abbaglio che comunque gli fu utile per vent’anni) nell’ottobre 1922, un giornalista ambiziono con tentazioni rivoluzionarie e una condanna penale in più. Ricordiamo che il presidente del consiglio Facta aveva già pronto l’ordine di far intervenire l’esercito per disperdere, alle porte di Roma, quelli che oggi chiameremo scappati di casa.
L’anno precedente a Sarzana, di fronte alla richiesta di 600 fascisti guidati dal futuro assassino di Matteotti di liberare un loro compagno incarcerato, bastarono due ufficiali risoluti e una quindicina tra carabinieri e poliziotti per disperdere ben 600 individui sicuramente inclini alla violenza, armati e in gran parte reduci di guerra.
Non a caso Mussolini cambiò tattica e comunque, il 22 ottobre, mentre i suoi fedelissimi marciavano su Roma, lui si tenne prudentemente a Milano nei pressi della stazione pronto a prendere il primo treno per la Svizzera, se le cose fossero andate male.
L'anno successivo Hitler tentò di replicare la Marcia su Roma con il putsch di Monaco. Ma l’esercito intervenne e lo stesso Hitler fu arrestato e condannato. A quel punto capì che la Germania non era l’Italia ed era necessaria un’altra strada.
Tuttavia, ancora nel 1928 il partito nazista aveva scarsissimo successo elettorale.
Furono due fattori a permettergli la conquista del potere: la crisi economica spaventosa che colpì la Germania dopo il crollo della borsa americana del 1929 e i conflitti tra gli altri partiti. I comunisti, su direttiva di Mosca, che pensava che una Germania socialdemocratica fosse troppo stabile (e aveva ragione) e gli altri partiti (per motivi differenti dai comunisti) furono di fatti i veri artefici della conquista del potere da parte di Hitler.
Un altro esempio: nel 1940 l’Inghilterra era l’unica nazione a opporsi a Hitler. La Francia era collassata, gli USA non avevano nessuna intenzione di entrare in guerra (a parte Roosvelt, contrastato però dalla componente filocomunista dei suo staff), l’URSS era di fatto un alleato della Germania nazista, a cui forniva petrolio in cambio di tecnologia e aiuti militari e con cui si era spartita la Polonia, con tacito assenso sull’annessione dei paesi baltici e il tentativo di annessione della Finlandia.
La popolazione era stremata dai bombardamenti tedeschi.
A Hitler non interessava la conquista delle isole britanniche. I tedeschi proposero un accordo di pace (Hitler prevedeva già di rovesciare l’alleanza con i russi, dopotutto già nel Mein Kampf l’ex soldato austriaco prospettava l’espansione verso est).
Quasi tutti i politici inglesi erano favorevoli a una pace con i tedeschi.
Gli inglesi avrebbero mantenuto il dominio sulle loro colonie in mezzo mondo.
Solo un uomo si oppose, Winston Churchill, che nel suo famoso discorso al parlamento e trasmesso alla radio ribadì che avrebbero combattuto sulle spiagge, sulle colline, sulle strade, ovunque e che non si sarebbero mai arresi.
Proseguendo: Dario Fabbri distigue tra nazioni e imperi. I primi seguono l’economia, i secondi la volontà di potenza. I primi affrontano l’immigrazione attraverso l’assimilazione, i secondi attraverso l’integrazione.
Esempi tipico di questi due aspetti, gli USA e la Germania.
Altro fattore determinante è l’età. Gli imperi, per rimanere tali, devono avere una popolazione giovane, per poter combattere, per affrontare sacrifici, per sacrificare il benessere con la volontà di gloria.
teori interessante e per centri versi indiscutibile, con qualche eccezione: l’Italia, il paese più vecchio del mondo, non integra né assimila gli immigrati mentre la Russia, per Fabbri (e anche per chi scrive) geneticamente predisposta alle velleità imperiali da quando Ivan IV si proclamò per primo Zar, cioè Cesare, continua a invecchiare nonostante l’aspettativa di vita decisamente bassa.
Per Fabbri gli imperi sono e restano cinque: gli USA (quello nato in tempi più recenti), la Russia, la Cina, l’Iran e la Turchia.
UK, Spagna, Portogallo, Francia, sono stati grandi imperi ma sono implosi o sono stati constretti dalle sconfitte militari a rinunciare al ruolo.
A proposito della Turchia: per Fabbri “le prolifiche masse anatoliche si sono affrancate dal complesso di inferiorità nei confronti delle élite di Istanbul perché pretendono di dominare Levante, Balcani e Mediterraneo orientale, com’è stato per secoli. Non perché Erdogan è asceso al potere. Non vi fosse attitudine tra la popolazione il rais non esisterebbe”.
Anche qui non siamo del tutto d’accordo. Indubbiamente Erdogan, come tutti gli autocrati, sa cosa vuole la massa (ed è vero che nessun regime autoritario riesce a stare in sella senza il consenso di una significativa parte della popolazione - tranne forse per l’Iran) ma l’abilità straordinaria del Sultano è stata ed è tuttora la capacità di aver riunito nazionalismo anti universalista (i kemalisti avevano distrutto l’impero multietcnico per creare una repubblica con una sola lingua) con l’islamismo antinazionalista. Oltre a destreggiarsi tra UE, BRICS, NATO, Russia, USA, Cina.
In ogni caso, il giudizio che diamo su questo libro è che rappresenta perfettamente la disciplina che tratta: uno strumento utile per dare uno sguardo alternativo (e anche un po’ retrò, visto che si tratta di una disciplina saldamente ancorata al pensiero del periodo tra la fine dell’ Ottocento e i primi del Novecento, con i suoi pregi e i suoi difetti) ma di cui bisogna tenere conto dei limiti. Un esempio: quando Fabbri e la geopolitica dicono che le nazioni-imperi che vivono di potenza o ambiscono a viverci, non agiscono sotto la spinta degli interessi economici ma anzi spesso compiono azioni anti-economiche. L’attacco degli USA in Iraq, che qualcuno crede ancora attuato per impadronirsi del petrolio di Saddam o l’invasione russa dell’Ucraina, ne sono due chiari esempi. Leggere tutta la politica internazionale in chiave marxista materialista è un errore. Chiaramente però poi la geopolitica tende essa stessa a leggere ogni azione in un’ottica chiusa di pura strategia.
La realtà e le logiche del potere sono molto più sfumate e caotiche. Il mondo è nato dal caos e vive di forze centrifughe e centripete, e l’evoluzione è frutto non solo di necessità ma anche di caso.
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