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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Phil Potter

Doctor Wood

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New York 1977. Mishiko è il mio nome. All'epoca prese piede in me, colpa degli eventi, il bisogno di confessarmi perché ero una ventenne che andava semplicemente in una direzione di luce. Benché non credessi nella psicanalisi, l'urgenza di far chiarezza mi costrinse a seguire una rotta di ripiego. Non ero riuscita ad annoverare il soprannaturale tra le cose interessanti nonostante avessi preso in considerazione di vivere in modo divino. Possedevo una motocicletta, la bellissima Duda, turchese e oro; le sacche pendevano ai lati con frange multicolori e i miei capelli molto sottili, lunghi, serici e pulitissimi, correvano nel vento. L'abbigliamento che preferivo consisteva in shorts di pelle nera e canotta di cotone rosa. Occhialoni grandi e scuri da diva scontentata dal system, imbronciata; catenine metalliche al collo e bracciali di cuoio, perline, rame, ferro e oro. Anfibi neri lucidissimi, scorticati sulla punta e fascia bajadera per tener ferma la chioma sulla fronte. Io non andavo in moto. Fluttuavo nell'aria come se guidassi un airmobile trainato da mille anatroni, o da un solo liocorno. Si, avete capito bene: sono un personaggio mitologico, provengo da una fairyland di sogno. Com'è naturale però, a volte bisogna ricorrere allo sciamano. Parcheggiai la Duda in mezzo a due tronchetti smilzi di frassino. Respirai a fondo e srotolai un foglietto con appunti di mio pugno: il magico numero e l' indirizzo dello strizzacervelli.

Avrei dovuto recarmi non lontano dal mio bolide, ma prima chiamai quel sudato numero di telefono che stritolavo ancora tra le mani. Avrei voluto gettarlo, invece mi decisi a superare ogni riluttanza e parlai con la voce all'altro capo del filo: ok... ok...

Dietrofront sui tacchi e andai dritto giù per Royal Street, un elegante alley tra la V e la VI avenue, fino al civico 44. Sorpresa! La facciata del palazzetto era di un color fucsia con squarci gialli e pretese di anticazione romanica. L'eccesso espressionista riconduceva al solito assemblaggio americano di cattivo gusto, neoclassico e tamarro. Purtroppo per me, dovevo varcare la soglia del Finto Sublime e spingere quel portoncino nocciola, con foglie e altri motivi ornamentali, vegetali, verdi e marrone: uno sfintere di fantasia uguale al cool way delle femmine che indossano calze blu pervinca. Che schifezza! Le finestre rimandavano dal centro di tanta ridondanza, un senso di clausura degno di un convento che non ha chiostro. Finestre serrate, anzi dipinte, invalicabili. Le etichette del citofono si presentavano bianche; non riportavano alcuna dicitura, ma ben sette pulsanti laccati e vivaci facevano bella mostra per altrettanti campanelli, immaginai. Pigiai quello viola e subito dopo in un impeto di teppismo, con la mano ben aperta come se volessi schiacciare insetti e spalmarne il succo, suonai tutti i trombettini. Madri apprensive, checche isteriche, insieme a suore frantumate in seno dall'acidità, si sarebbero arrabbiate da iene di fronte a tale gesto di dispetto, invece plin plon l'uscio si spalancò con una musichetta rock all'American woman. Mah! Feci tra me e me mentre avanzavo nell'androne illuminato di azzurro indirizzandomi inevitabilmente ai gradini di un immenso scalone.

In cima vi notai una scimmia appollaiata. Sembrava che stesse per sputarmi addosso.

Lesta col nervosismo accumulato e come mi succede di consueto in simili ucronie, sibilai, o ululai, non ricordo; di sicuro feci: ehi, tu, non ci provare ché ti scianco, t'apro come una buatta e ti suco i fegatelli!! Per amor di fauna, volevo solo spaventarla. La piccola squittì esibendo il deretano pallido e molliccio. Patetico. Gli odori erano numerosi da decodificare; per la maggior parte sapevano di muffe e di ormoni, una cosa da voltastomaco, si capisce, spruzzata per colpire. Chi aveva progettato la messinscena si magnificava di una farsa nella farsa, di un'invenzione di pura cacca esoterica. Qualcuno ascoltava la radio sintonizzata su frequenze d'oltreoceano. Sentivo distintamente parole come "Roma... indiani metropolitani delle pianure a Villa Ada ... inseguono per gioco quegli altri di montagna..."; benché non mi meravigliassi, mi chiedevo chi stesse udendo, incuriosito, cose del genere così distanti dalla nostra Libertà. Già allora parlavo spagnolo e mi dilettavo con l'italiano e con pizzichi di giapponese tototò sushitè che ancor oggi diverte i miei amici di Kyoto. All'improvviso i suoni e le parole divennero muggiti grevi, marconiani e sperimentali: s'era persa l'onda e il campo era stato invaso da un pulsare di rumori ovattati provenienti dalla strada.

Ero capitata davanti a sette porte sul ballatoio in cima allo scalone. Fine delle trasmissioni su un brano di Chaikowsky accompagnato da un lurido e strozzato gemito di onanista. C'era da farsi venire l'ansia: rumori organici innestati all'atmosfera sintetica dai ticchettii ripetitivi: stille ossessive: metafore bipmatiche e techno di concetti definiti strunz da più parti.

Sostavo nel nowhere delle sette porte oltre le quali, gli adulti si autogovernavano: ognuno nella propria sexy cabina. Che mondo di sguatteri dal sesso prima grinzo e poi gonfio di monnezza porcara! Cosa avrei potuto sostenere con uno strizzacervelli che viveva in quella specie di maniero di Barbablu? Per un giorno avevo lasciato i capelloni della Holy Plants Family e invece di divertirmi, attendevo un adulto, uno del sistema! Certo Jerry e Betsy mi avevano delusa: scappare per sposarsi e formare un nucleo di americani veri... Matthias era partito per il Cile senza salutare; infine Leyla si era messa a inseguire un campione di tennis e il nostro sogno, l'art center senza frontiere, la casa in mezzo al verde ma non lontano dalla statua con la fiaccolona liberale, terminavano la corsa nel vuoto. Vuote seggiole, vuoto frigo, vuoto viale, vuota dimora dove nessuno vuole più venire a cercare, a trovare, a fare, a baciare. Tanta creatività sparsa e concreta sui mobili, negli angoli, nell'aria, nei dipinti, nelle foto e sulle suppellettili... Ero rimasta orfana. Qualcuno avrebbe potuto avvertirmi. Qualcuno non dico che avrebbe dovuto preoccuparsi, ma insomma... Avevo capito tutto. La legge dell'abbandono conficcò le unghie nella carne e non m'aggrappai al telefono, né ai santi. Ero sconvolta dal disordine, dalla desolazione. Pensai di partire subito. Ristetti. Non avevo voglia di lasciare New York da sola. Mi avvolsi nel plaid patchwork che Linda e Clark mi avevano regalato l'anno prima. Dov'erano finiti? Scomparsi nel nulla a fare figli e giri in barchetta intorno al mondo, senza uno straccio di relazione col mondo. Dispersi. Solo Terry passò a trovarmi, tuttavia per puro caso. Mi circondò il collo col braccio per confortarmi. Era più anziana di me di molti anni e seppe cogliere il trauma ribadendomi che non dovevo disperare e che intanto lei tornava a casa sua dal cane e dal figlio. Aveva fretta perché iniziava l'era dell'averci sempre da fare e lei si sentiva a posto, collocata in un luogo al sole, miserabile e grazioso, da cui sporgersi senza chiedere: vuoi fermarti qui per un break? Oggi lavora come una matta in età pensionabile. No al lavoro! Che bella 'sta frase detta dal personaggio beat di Quadrophenia, messa in mezzo tra un ottuso rocker e un agitato mod. Cantai piano piano, sommessamente, per ore. Poi passai dal negozio di dischi a fare un saluto a quella gente. Non ero stata meglio in altre vite, ma non mi bastarono le canzoni, evidentemente, se poi me ne andai a zonzo e conclusi una settimana di vagabondaggio davanti a sette cazzutissime porte in perfetto stile disneyano. Che fregatura immensa! Sette porte dopo aver salito 147 gradini, multiplo di sette, che si mescolava col ventuno delle sinfonie citate da ogni uscio come pausa, intesa in qualità di rapporto tra 147 e 21 = 7. Capito? Pausa stava per cambio, cioè 7/1,2,3 -7/1,2,3 – 7/1,2,3 ecc.. fino ad ottenere 21 in guisa di inizio di un nuovo prodotto 7x3 e così via ad libitum. Calata nell'universo dei numeri, demotivata e al contempo curiosa, varcai la soglia della porta numero 4 secondo la regola occulta per cui dopo il tre, viene sempre il 4 almeno come condizione per proseguire il conteggio, ovvero: 1,2,3 – pausa, che include 4, 5, 6; laddove il 4 è il cardine – la porta girevole di Giano che ruota su tutti i punti di riferimento Nord-Est-Sud-Ovest -; il 5 è la stella – il cuore del sinedrio pentacolare, o del Pentagono USA, per intenderci con un simbolo noto a tutti -; il 6 è il riempimento, cioè la perfezione del trascorrere fino al sette, che diviene fine e principio in sequenze cromatiche, facili e accessibili, dodecafoniche. La scoperta della chiave del ritmo avrebbe dovuto rappresentare un apice ed esaltarmi; invece non diedi in escandescenze in alcun modo, anzi, la circostanza risultava sconsolante e la identificai con la battuta di sarcasmo che affiora sulle labbra di un moribondo. L'orchestrazione concepita per impressionarmi svanì nella consapevolezza di un rito d'iniziazione. Percorsi il corridoio di un rosa cobalto terribile, con quadri di parrucconi deficienti e immortali, appesi alle pareti altissime. Raggiunsi il lumino che avevo intravisto e non era molto più grande di quanto apparisse in lontananza. Mi trovavo in un uno studiolo di sorcio: minuscolo tavolo, minuscola lampada, minuscoli oggetti e un omino che mi fissava sorridente all'altezza del naso. Mi grattai più volte la punta del naso e il tizio continuava a fissare la pallina di carne pruriginosa. Oh, basta! Pensai. E il prurito si dissolse e i due occhietti spuntarono dalle lenti, lucenti e trasparenti come vetri verdi di bottiglia. Osservazioni: il lampadario era costituito da sette bracci; 7 sedie attorniavano un tavolino da spiritisti, piccolo, tondo e traballante; 7 muse presenziavano in silenzio in un cantuccio.

Ristetti. Doctor Wood articolò senza alcuna inflessione, privo davvero di esitazione, correttamente come speravo da ogni sconosciuto, il mio difficilissimo cognome. Pronunciò: Diaryacapagulos, come se fosse normale trattare con le lingue straniere e gli accenti. Ero affetta da mutismo da molte ore. Stavo impalata col sudorino che mi scendeva tra le scapole per via di un caldo umido, asfissiante. L'uomo mi porse un vassoietto con sette tarallucci ingiuleppati secondo la tradizione ebraica della diaspora e un bicchierino di vermouth. Ubbidii continuando a tacere e finalmente sprofondai nel velluto grigio di una poltrona, mentre Wood imperterrito conduceva l'interrogatorio e io leccavo lo zucchero dei biscotti, guardando obliquamente l'intervistatore. Mi parve buffo, coi baffetti limati e gli occhi a spillo verde smeraldo. Era un dicitore accorto e premiante: il classico adulto che si occupa di giovani. Di problematiche adolescenziali. Un buon cadavere parlante. Cercava di regalarmi una chance e non avevo un cent per pagarlo. Si soffermò sulla parola crisi in modo duro; spiegò che non necessariamente esperienza significhi varietà, o libertà. A volte è solo ripetizione di un modulo, che dona illusioni di opportunità. Manifestai il crollo con sette tonfi: sette pugni che picchiai sul bracciolo, dannazione, ragionando sul fatto non difficile da comprendere: ero uscita da uno schema e stavo affrontando il suo, nella stessa maniera in cui però, avevo lasciato il mio, in sette mosse, in sette giorni. Accidenti! Wood mi fece: - Bene, niente da raccontarmi? – Vagai con lo sguardo sulle tinte dell'iride di sette matite appuntite con cura, disposte ad arco sulla scrivania.

Distolsi la vista dalla teoria dei legnetti e puntai la cassaforte per memorizzare, manco a farla apposta, 7x3x21. Wood si alzò con fare civettuolo. Indossava kilt e calzettoni. Il ricchione, il classico ricchione platoniano, tolse un libro dallo scaffale, orgoglioso in casa sua, di sfornare la causa del miglioramento delle sorti umane, per mezzo di una parola azzeccata. Non riusciva a ferire il mio orgoglio. Ero radicata nella parola e intuivo le sue mosse. Ero stanca di quello scandire, di quel filtraggio vulcanico e sornione, poco affettuoso. Ero stanca della parola ben concatenata con le sorelle, in sintonia con le convenzioni del filosofare nell'abbinamento tra verbo e persona, tra discorso e paziente. Ma io non ero malata, né tantomeno matta!

Fu allora che Wood aprì la pagina 111 di un testo magico e così colsi l'occasione per fargli notare che si trattava di un 777 diviso 7. Il grande psicanalista, un trottolino rapido, calciò con la punta della scarpina il tomo e mi fece: - Dimmi, che cosa sei venuta a portarmi? –

Replicai con una domanda: - Perché il sette? –

- Tu che ne pensi, Mishiko ? –

- L'hamenorrah ha sette bracci... -

- Ne conosci il significato? –

- Sette bracci significano un bel niente! E' iniziato con sette la prima volta, per puro caso e si è stabilito che fosse una regola data dal rapporto 7 a 1 e mai viceversa, per non cadere nella trappola delle infinite possibilità della matematica potenziale, relativa, dividua, o negativa, che dir si voglia. E' una stupida questione di logica, ferrea, ma assolutamente banale! –

- Bene, cara! Uno stereotipo ti stava uccidendo nonostante fossi a parte del Segreto! –

- La verità è che sono nella stanza dei bottoni di uno strizzacervelli e quando sarò fuori di qui, sarò semplicemente là, dove mi troverò e tutto questo finirà in un racconto, o nel dimenticatoio...-

- Lo so, ragazza! Lo so: movimento e vacuità sono la stessa cosa, ma come coglierne l'essenza? –

- Vuoi saperlo da me? L'uno sarà l'essenza dell'altro e viceversa e per sette notti sognerai le sette signore dei sette signori... E quando comprenderai, ti ammalerai di un tormento infinito e nostalgico che per sette volte, ti farà volteggiare e per sette volte cadrai... 777 meno uno, quanto fa? Usa la cifra per ottenere il significante e lascia stare il contenuto; otterrai... -

- Ma certo: 666 ... - Il suo minuscolo torace di sorcio si gonfiò di enfasi e il suo corpo si arrossò e mutò: si trasformò in diavolone, cornuto ed eccitato.





Non si accorse che stavo uscendo chiudendolo a chiave in una stanza d'appartamento. Una gabbia geometrica dall'aspetto un po' kitsch.

Lo sentivo gioire: - Hai scoperto il segreto ed io sono felice, ma che cos'è di preciso il 666? –

Non ci fu bisogno di un'altra risposta, uno, uno, uno, binario o ternario che sia... Non sono l'unica depositaria della verità: la serie apparentemente interminabile dei numeri collima con l'insondabile finitezza dell'essere: è solo una questione di grandezze e non tutto ciò che è superiore è buono; pertanto, accontentiamoci dell'immaginazione, della matematica, e impariamo a comporre secondo i criteri degli spiritualissimi haiku della materia: Scorre come l'acqua, /è torbido, / il pensiero di un gatto; oppure: Si tura il naso/ effluvi di carpa / mentre mangio ciliegie.

Le sequenze haiku si descrivono sempre con il rapporto 1-4-7 / 666 con le ovvie inclusioni multiple 2 e 3, praticamente infinite, nella rotazione delle 5 punte di Sion, intesa come l'inizio di un mistero. L'attendibilità non si discute: ciò che non esiste è inconsistente per la matematica.





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