RACCONTI
Marco Lanzòl
Homo sapiens
Via del Grespigno è un budello d'un centinaio di metri, pavimentato a sanpietrini. (1) Chiusa al traffico, termina con una scalinata e una fontana che non ha solo una canna per l' acqua da bere, ma tre, in forma di fauci d' animali dragoneschi: due sui lati opposti del cilindro di ghisa caldo di sole, l'ultima e principale dinanzi. Un secchio dell' immondizia sosta accanto al muro sul quale si legge su marmo un avviso settecentesco del Monsignore delle Strade - che vieta "di far monnezzàro" -, a fianco del manifesto con lo spazzino giulivo che raccomanda "Roma pulita dipende anche da te". Il secchio fa da palo alla porta improvvisata da alcuni ragazzini che giocano a pallone; il più grandicello ferma la palla, e chiede, compìto, al giornalista: "Ha da passa', che?"
Lui transita sulle pietre lisce, unte di linfa di verdure sfracagnate, e si spiccia per esagerazione di cortesia, ma quelli non lo curano più, ripigliando a giocare. Arriva al quattordici, un portone basso, esordio d'un ballatoio privo di luce: vi ristagna un tessuto d' odori vegetali - alimentari in genere. Li amalgama un sentore brodoso, tiepido, di formaggio alterato.
Sulla scala sdrucciolevole predominano gli effluvi del candeggio dei panni stesi, amarognolo, e quello, ammònico, dello scarico d'una lavatrice, forti in maggior misura presso un uscio aperto. Lui vi si affaccia, mormorando: "Si può?"
Niente.
"E' permesso?"
"Chi è? Chi è?", intima una voce seccata: "Sto male, sto malissimo, non voglio essere disturbato!"
"Sono quel giornalista... che ha telefonato ieri... e l'altro ieri... e prima. Non so se ricorda... per intervistarla... ricorda?".
I vetri sono chiusi, e serrati gli scuri, benché sia pomeriggio. L' unica luce arriva da una lampadina spoglia e infeltrita di polvere, che rischiara una camera in fondo al corridoio. Dalla stanza il timbro delle parole muta, ora più disponibile: "Beh, già che c'è... venga, entri... non chiuda la porta".
Nel letto, e avvolto in una coperta militare nonostante il caldo, c'è il poeta. Intorno, cataste di libri moderni e antichi, quadri alle pareti - ma più, appoggiati gli uni agli altri, sul pavimento, sul comò -, dischi nella foderina d'altri dischi, foderine di dischi, dischi senza foderine.
Accanto al giaciglio del vecchio leggero, un comodino ingombro di ogni possibile specialità medicinale, in ogni forma farmaceutica immaginabile: pastiglie, gocce, suppositori, fiale, sciroppi, amari medicinali, pillole confettate.
Dalla borsa del giornalista compare un registratore Castelli. L' uomo chiede: "Posso usarlo?", svagandosi a ammirare i due Sironi, il Pascali, il grande Purificato e il piccolo Donghi - e pure i disegni di Cocteau, le litografie di Daumier, alcuni linoleum e puntesecche di Maccari, i quadri di Enotrio, De Pisis, Sebastian Matta, Carrà, Lorenzo Viani, Paul Klee, Oskar Panizza - che circondano il padrone di casa. Riconosce, ai piedi del tavolo, dei disegni preparatori di Scipione, mentre il poeta concede: "Mah... veda un po'... almeno dovrà inventarsi meno cose", e accenna a una sedia, occultata da un monte di libri dalle legature fine secolo, tra i quali spiccano l'"editio princeps" delle Laudi dannunziane, "La crudeltà" di Bevilacqua, e un Guido Da Verona dalla copertina stanca. Il giornalista, per non saper che fare, trasloca la pila sul pavimento di linoleum colloso. E si accomoda, accendendo il magnetofono, che gira pigro. "Superpila" scariche. Augurandosi che durino fino alla fine, disinvolto pronuncia un ottimistico: "Tutto a posto. Se vuole, possiamo cominciare...".
"Sì, sì".
"Bene". Il timbro disincantato del vecchio lo disturba, e il puzzo languido che imbibisce la stanza lo soffoca: "Circa trent' anni fa, uscì Eccezioni e regole, e fu salutato dalla critica quale un capolavoro. Dopodiché, a parte qualche sporadica apparizione di sue liriche brevi in riviste, più nulla. E ora, da un mese, è comparsa una sua raccolta, Il sogno cieco. Cosa l' ha indotta a dare alle stampe le sue ultime fatiche?"
Il poeta respira e risponde: "Uno, se ha il mal di denti, che fa? Va dal dentista, no? E così... erano rimaste queste cose, qui a casa...".
La dizione incespica per la mancanza della dentiera, la voce è fioca: speriamo che s' incida sul nastro.
"E lei, s'è metaforicamente tolto il dolore".
"Mbe'...".
"Molti critici parlano di lei come del poeta puro, assoluto, nel senso di completamente avulso dal reale. E in effetti, leggendo queste sue poesie - o, se si vuole, non-poesie, data la loro forma informale -, e paragonandole con quelle precedenti, non s' incontra soluzione di continuità. Né a livello dei temi, né del lessico...".
"Ci sono le stesse cose perché non so parlare d' altro".
"Se non ricordo male, lei diceva questo in una poesia dove affermava che vi son sempre fanciulli nei suoi versi perché il resto è noia...".
Fa sì con la testa. Cerca di prendere un bicchiere d' acqua sul comodino. Lo coglie, vi dissolve una punta di cucchiaio di sciroppo d'amarena, lo porta alla bocca e inghiotte due sorsi.
"Ecco, ora io vorrei chiederle... molti critici hanno notato come in fin dei conti lei utilizzi frasi e parole appartenenti al lessico eterosessuale per parlare dell' amore per i fanciulli... si è addirittura arrivato a avvicinarla agli stilnovisti, a dire che i suoi fanciulli, in realtà, sono donne...".
La risposta tarda a arrivare, e il giornalista si distrae, per guardare una prova d' autore di Corrado Cagli, dritta sullo scaffale siccome appoggia a una pentola d' alluminio marca "Electro" - tardi anni Trenta, dunque.
"... le cose, hanno il dono di Tiresia".
Ritorna all' intervista: "Come dice, scusi?"
"Andiamo bene...", si sconforta: "Mi intervista, e poi mi fa parlare da solo come uno scemo?", ma il rabbuffo è amichevole: "Io poi fatico a parlare, come fatico a fare tutto. Ho il mal di cuore, da giovane ho avuto le fibrillazioni, me l'ha curate Giorgio Vigolo. Con le vitamine. Io curo tutto con le vitamine, soprattutto la bi-uno, che una volta, avevo la diplopia, sa quando uno vede doppio?... beh, ho preso la bi-uno e sono guarito. E poi la mattina appena mi alzo dico tre volte "come sto bene, come sto bene, come sto bene, la vita è bella, la vita è bella, la vita è bella"...lo dico lo stesso, anche se non ci credo. Non ci credo più, ormai... tutto mi annoia, tutto mi è diventato indifferente. Anche uscire... e poi chi esce più, è una penitenza, ci sono tanti ragazzi bellissimi, uno li vede e pensa sono vecchio, sono vecchio... se non prendessi i sonniferi... mah...".
L'interiezione rimette il discorso sul binario gradito dal cronista: "...dicevo... dicevo Tiresia. Tiresia. L' indovino che da uomo diventò femmina, e ancora maschio. La poesia, la poesia è un sogno confuso, indistinto. Le parole, cercano di dare forma, di regolare, di mettere limiti. Ma cosa vuoi regolare? E' tutto lì... maschi, femmine, che c'entrano? Le parole", il poeta parla fluente, con un' inflessione chiara e sicura: "Le parole limitano, e sono boriose e vanesie, perché ti costringono a parlare solo di loro, solo con loro... tu sei lì come un farlocco e ti credi di parlare delle pinete, degli operai, dei cavalli, del ragazzino che c'hai fatto l' amore, e invece no, parli di loro".
Si toglie la coperta di dosso, e resta con il maglione a collo alto che lo somiglia a un esploratore polare anni Trenta: "Oh, insomma. Quante fregnacce mi fa dire. Poi le pubblicano sul giornale, e la gente mi prende per un vecchio sporcaccione. O per un matto. E io non sono matto, io sono malato, capito, malatissimo. E ho bisogno di pace. E invece mi perseguitano con l'arte, la letteratura, la cultura. In Italia tutti fanno cultura, pure i preti adesso so' diventati culturali. Invece nel medio evo per loro l'ignoranza era santa... ma ogni tanto cambiano idea, come con la messa che non la dicono più in latino... allora la gente la capisce, e dice beh non è poi 'sto granché... e si lamentano se c'hanno le chiese vuote... la religione è un mistero, un mistero dentro un mistero.... coso, Albertazzi, è uno di questi che fa cultura in televisione. L'avevo visto quando faceva l'"Idiota", era bellissimo, con un gran testone di capelli color paglia, ma belli, proprio belli. Lì era bravo. Adesso fa Cechov. Ma Cechov è semplice, parla in semplice linguaggio umano, l'ha pure scritto da qualche parte, o forse me lo sto inventando adesso, chissà... invece l'attore italiano quando recita sembra sempre che fa l'antico romano. E poi Cechov... quando non sanno che fare, fanno sempre Cechov. Ma mica solo in teatro, sa? Anche dal panettiere, dalla zia monaca, sull'autobus. Fanno Cechov... l'unico che non fa Cechov è Paolo Poli, che è bravo e simpatico e poi piglia in giro la gente, peggio di Mozart, rifa tutte queste canzoncine con il doppiosenso, con l'ambiguità... Vieni, pesciolino mio diletto vieni, che faremo un discorsetto vieni... oh madonna che voce da cappone, peggio di Giulietta Simionato, con tutti quegli strilli per casa che il marito ingrullisce... o dei castrati della Sistina... una volta ho sentito un disco con la voce di uno di questi, l'ultimo rimasto, e sarà che era vecchio, sarà che era malato, sarà che era appena vivo, peggio di me, insomma, un disastro, una cosa che pareva una gallina che la stavano strozzando... un altro bravo è De Filippo, Eduardo, non Peppino, che fa le cose napoletane... però dopo un po' stufa, ti viene voglia di dirgli e cambia un po'... si può vedere anche Brecht, anche se è tutta politica, che però non ammazza il teatro, insomma, non sempre... vedi che strano... perché è tutta una forza di nervi, e alla fine è anche elegante... però sempre lì con la storia della storia, i drammi storici... anche le donne fanno la storia adesso, anzi per farla meglio fanno la Storia, con la maiuscola, sono tutte maiuscole: come Elsa, come la Dacia, come la Fallaci, che Bill, l'amico americano di Elsa, chiamava Fallacy, per dire che non valeva niente. Fanno la cultura pure tutte 'ste donne, che sceme. E quando non fanno cultura, fanno la poesia. La poesia, la poesia, sempre 'sta poesia in mezzo. E' una vita che lotto con la poesia. Per questo sto in fin di nostra vita. Perché la poesia ti massacra".
Da una scatola sul comodino, prende una pillola bianca schiacciando il blister, e la deglutisce senza bere.
"La poesia. Ma poi gli uomini non chiedono più niente ai poeti. Chiedono ai maghi e agli scienziati, che sono maghi pure loro, come Newton, e non lo sanno...". Intercetta lo sguardo non convinto dell'ascoltatore, e precisa, con stizza: "Newton, sì, che ha preso la cosa, la cosa della gravitazione da Giambattista Della Porta, la simpatia e l'antipatia dei corpi... anch'io ero mago, facevo i numeri, poi li vendevo alle donnette davanti all'esattoria...", digressa, ma riprende, come per non dire i fatti suoi: "Per questo i poeti d' adesso, per farsi pigliare sul serio, s' attaccano alle fòrmole, alla matematica, alla filosofia. E finisce che per capi' una poesia, bisogna sape' la fisica atomica e la biologia e la storia antica. Meno non ci vuole! E mi mandano 'sti libri, co' 'ste poesie dove dicono che c'hanno un orologio che all'inizio è verde, poi diventa rosso, alla fine bordò, e mi chiedono un parere. Ma io sto male, so' quasi 'na salma, e mica posso piglia' tre lauree per capi' a loro, permette?"
Inghiotte una capsula morbida, stavolta bevendo da un bicchiere semivuoto che ha sul comodino: "Io le medicine non le sopporto, è per questo che ne devo prendere tante. Meno si sopportano, più si devono prendere, perché il corpo si fortifica. E' l'allopatìa, la concordia degli opposti, no? Altra cosa degli stregoni che è passata agli scienziati pàra pàra. E camminare. Camminare molto. Ma adesso è diventato difficile anche camminare... il mondo è cambiato, poeti non ne nascono più perché tutti vójono ave' ragione, perciò la gente è cattiva. I ragazzini una volta ti gridavano "a frocio!", ma non c'era cattiveria, e poi coi froci ci andavano... per la pizza o i quattro soldi, ma era una scusa, un po' erano curiosi e un po' per lo sfogo del problema sessuale... andavano dal Ciriola, nei pidocchietti (2)... il Due Allori, l'Induno, il Borgia, era tutto un movimento... sono morte le lucciole, ha ragione Pasolini... e le api, e il cielo, il mare, che una volta profumava di fica... il sole no perché non lo possono toccare, ma vedrai che prima o poi vanno a far danni anche lì...".
Rimane in silenzio, contemplando una stufa elettrica che pende, appesa al soffitto, a mezz'aria. Il giornalista approfitta della pausa per intervenire: "Vorrei parlare ora di questo suo ultimo libro, che ha suscitato un dibattito anche piuttosto acceso, che ha dunque una notevole massa critica. In esergo alla raccolta ci sono questi versi", li legge da una copia del volume che tira fuori dalla borsa color scarafone: "L' amore ti sta come un idioma / ermafrodito: tu fanciullo lo sai e te ne vai / e il mio cuore non t' ha avuto...".
"Sì. E' una poesia greca. Un po' greca".
"Mi pare di capire che lei con questi versi intenda dire...".
"I miei versi non intendono proprio niente", sentenzia, con furia ironica e senile: "Le poesie non dicono, né mentono, semplicemente mostrano. E anche quell' altro, lì, coso...".
"Chi?"
"Coso, quello del giornale. Coso! Insomma, anche lui, ha detto che sono un legislatore mitico. Mah! Forse", l' ira si cheta, e diventa un sarcasmo venato di benevolo malumore: "Avrà voluto dire che io non sbaglio mai. Che vuole che le dica? Io le poesie nemmeno le scrivo... la prima, la più bella, me la sono ritrovata su una récchia di giornale, (3) svegliandomi dopo che m' ero addormentato in spiaggia, sulla sdraio. Si figuri cosa ne so io, della poesia".
"Forse Galante Bellone, il critico al quale credo lei si riferisca, avrà voluto dire proprio questo, parafrasando Shelley. Che lei in quanto poeta dà leggi al confuso, all' indistinto, al mitico, con il suo intervento di creatore, di poeta appunto...".
"Sarà sarà sarà ma non ci credo...", canticchia, sull' aria di una canzone priva di fortuna commerciale. E rammenta, con un improvviso guizzo di malignità manierata: "Ma lei è venuto qua solo? Chissà cosa penseranno!"
Sorride sdentato, e consola il suo ospite: "Su, non si disperi. Tanto lo sanno tutti, ma proprio tutti, che a me piacciono tra gli otto e i sedici, come ai poeti della "Palatina" e a Schubert... lei è troppo vecchio per me...".
Il sorriso si allarga in risata, e finisce in tosse. L' ospite si schiarisce la voce, e borbotta: "Fa caldo qua dentro...", quindi riporta: "A proposito di questo. Grifonetto Lampugnani, il noto critico letterario del Quotidiano del Norditalia, in un articolo intitolato "Il lupo perde il pelo...", le imputa, cito a memoria, di farsi portavoce e cantore di laide e oscene pratiche, accusandola inoltre di fornire un alibi culturale ai corruttori, e, tra le righe, ma il tono dell' articolo è chiaro, d' essere lei stesso un corruttore. C'è stato poi il pesantissimo attacco nei suoi confronti di Baldo Lometto, su Babele, la nota rivista omosessuale. Nel quale l'autore dice che la sua considerazione per lei è scesa quando ha saputo che andava con ragazzi nei gabinetti dei cinema, pagandoli cinquecento lire. E che ha dato dei ragazzini una rappresentazione completamente falsa, dimenticandone e non vedendone il dolore e la sofferenza".
"E ti credo che lo dice!", ammette il poeta, esilarato: "Se no non poteva andare più in televisione a fare la fatìna delle checche! Prima, quando credeva di beccarsi gli applausi, starnazzava che non era niente farsi i ragazzetti. Quando ha visto che non era il caso, s'è messo la coda tra le gambe". Imperturbabile nella sua dolce causticità, la voce chioccia palesa: "E Lampugnani... Lampugnani lo conosco da mezzo secolo. Non capiva nulla cinquant' anni fa, e non capisce niente adesso. Solo che adesso gli dànno retta, e cinquant'anni fa no. Colpa anche di questo fatto che adesso bisogna parlare di tutto, dire tutto... fare questi giornalini liberati, co' su le rivendicazioni della rivoluzione, che la gente si spaventa... ma forse è meglio
così, nascondersi non è bello. Anche a lui piacciono i ragazzini... le ragazzine, per essere precisi. Ne ha pure sposata una, per modo di dire, quand' era in Africa Orientale come cronista, durante la seconda guerra...".
"Come!? Possibile?"
Il gesto della mano del poeta equivale a uno schietto glissons: "Il fatto è che non si vuol scoprire, magari fa le traduzioni degli erotici... del greco Luciano, come diceva Croce a proposito di Settembrini... delle lesbiche inglesi del diciottesimo secolo... e poi viene a rompere 'oglioni a me... e io sono vecchio, e sto per morire, e quello mi fa la predica". Ripensa, borbotta: "La sofferenza, la sofferenza... e che si dovevano soffrire? Se soffrivano, andavano a ruba', no a fa' le marchette. Bah!"
Assente, fissa la parete dove, sopra una mensola surcarica, c'è un pitale, colmo d'urina color azzurro Savoja, non a causa di porfirìa bensì per i metaboliti dei farmaci. Lo zipèppe (3) in precario equilibrio minaccia di rotolare a valle, lungo una pista di panni sporchi e tele a colori "nature" di Pasolini. Che forniscono un' ottima contingenza per cambiare discorso: "Lei ebbe un lungo rapporto con il poeta di Casarsa, un altro bersaglio polemico dello scritto di Lometto...".
"Pasolini non era di Casarsa, era bolognese. Sa che c'era un libro di filosofia che cominciava così: Aristotele, detto lo Stagirita, nacque a Atene... è vero che c'è tutta una strategia, tutta una commedia degli errori, per cui certi scrittori... adesso mi viene in mente solo Malerba, ma ce ne saranno altri... pure Pasolini in Teorema dice una cosa del genere... ma non me la ricordo, io sono vecchio, sto per morire e non mi ricordo niente, anche se prendo il Betotal, come i bambini... ma si sa, vecchi e bambini... e i selvaggi...".
Estraneo, tace, per il tempo d'inseguire un ricordo. Dunque, accenna: "Di che parlavo?"
"Degli errori, mi pare", suggerisce il giornalista, intontonìto.
"Ah, sì, beh... certi scrittori fanno apposta degli sbagli, per cercare il dialogo con i lettori, vedere se questi se ne accorgono... sì, figurati, facciamo la Settimana della Sfinge... oppure anche per ragioni più serie, perché per esempio un personaggio si crede infallibile o crede di avere una vita perfetta, e allora l'autore tramite magari degli anacronismi o delle false percezioni avverte il lettore, gli fa presagire, che quella vita non è poi così perfetta... Hemingway lo faceva, anche, con Nick... comunque!", sospira fermamente: "Pasolini, mi dice? E cosa vuol sapere? Lui era un santo, e io quando gli ansiolitici il tegretòl o il calciobronàt mi cambiavano l' umore, gli telefonavo alle tre di notte, e gli strillavo "Malocchio! Malocchio! Malocchio!" , e poi riattaccavo. Lui sapeva che ero io, e quando m' incontrava mi diceva: "Non saresti tu, se non facessi queste cose. Ti perdono perché sei tu". Ma lui perdonava tutti, era un santo. E quasi un genio. Ripigliava vecchi discorsi, e li aggiornava. Aveva fatto una poesia sul realismo, la lesse a un premio letterario, era molto impegnato su certe cose, tutta la storia del genocidio, dell' omologazione. Voleva abolire la scuola e la televisione, e aveva ragione, poverino, vedi 'sti ragazzini che vanno a scuola e escono d'una scemenza... perché li rimbambiscono... ma Cassola, Moravia e Bevilacqua, tutti questi che se non ci fossero le scuole e le serve farebbero la fame, si sono indignati... io no, non voglio abolire... o magari sì, però non me ne frega niente".
"Per lei allora impegno e poesia non vanno d' accordo...".
"Ridànghe co' la poesia...", si duole, in comica posa. Misura qualche goccia in un cucchiaio, e avido si ciuccia il medicàle: "La poesia è contro la realtà. Non è reale, è autentica. Tutte le cose contro sono più autentiche di quelle a favore. Difatti, appena qualcuno le piglia e le fa diventare a favore... di uno stato, di una religione... diventano finte... allora forse una poesia si può riconoscere come un diamante... un gioielliere basta che guarda i diamanti, e dice questo è falso, questo è autentico...".
"Credo si possa dire che i suoi ragazzi siano un po' il simbolo di quest' autenticità che lei dice. I loro sudori, le loro minzioni...".
"Meno male che le ha menzionate, le minzioni...", lo burla: "Spero siano minzioni d' onore".
Lo compiace, sorridendo un po', ma proprio poco: "Dicevo, i suoi versi sono duri, petrosi a volte. Vi si parla di orinatoi, di ehm merda, di sputi... questo per sottolineare l' animalità dei suoi giovani animali, la loro selvatichezza gioiosa, la loro creaturalità auerbachiana, infine la loro essenza comune ai fenomeni come il vento, il sole, il mare....".
"E che ne so? Può darsi pure. Magari le poesie sono cose dell' atmosfera, come i lampi e i tuoni. A Napoli così chiamano i tagliolini coi ceci, lo sapeva? Mi piacciono tanto ma mi fanno male, anzi malissimo. Come tutto, ormai... a parte i dolcetti, i succhi di frutta e le polpette al pomodoro... quelle le faceva pure Linuccia Saba, e lui le chiamava fugazzette, alla triestina... Ernesto è l'unico libro da anni che sono riuscito a leggere intero... capirai, è di Saba... Ernesto è lui, Saba, altro che un ragazzo triestino della fine del secolo... però Ernesto sono un po' anch'io, perché lui lavora da un ebreo - Saba aveva la nutrice ebrea - un ebreo mezzo ungherese e mezzo tedesco, e quando io stavo a Trieste lavoravo appunto con un ebreo, gli facevo le fatture... perché io lavoravo da lui come ragioniere... perché io ho studiato, anche se tutti dicono che ho fatto studi irregolari, chissà, forse gli pare più poetico... se sono scemi!... e difatti... certo, m'ha dato una gioia quel libro... ma anche tristezza... non per la giovinezza perduta, e 'ste cose qua, la poetica del fanciullino, addio giovinezza... ma per Saba, che mi voleva bene... non come Pasolini, nessuno m'ha voluto bene come lui, ma mi voleva bene...".
"Capisco cosa prova...", consente l'intervistatore, riportandosi al suo interesse: "Un suo famoso verso recita "ma dietro le colonne della legge ridendo si masturba ogni fanciullo". Anche l'erotismo, in specie quando si oppone alla legge, alle parole, è una forza della natura?"
"E di che altro, sennò?", e ride un poco, un poco ride per giuoco: "C'era uno scrittore, non mi ricordo chi, che ha detto questo: io nei miei libri ci metto sempre qualche scena di sesso. Perché così mi eccito, e posso usare quest'energia per dare più vita a tutto il resto delle cose che scrivo, più chiarezza a quello che penso. Vede quant'è fondamentale il sesso, per il pensiero e per la poesia - sempre con la p maiuscola, mi raccomando, come usa il Baldus Lomettus!"
Starnuta, mordendosi la lingua. Starnuta ancora, e ancora, sputacchiando saliva e sangue pìsto. Trae di tasca un fazzoletto di pérofil, guarnito da una greca celestina: si pulisce e lo ripone. Apre il cassetto del comodino, ne prende una sciarpa di lana bianca con lunghe frange, se la avvolge attorno al collo, smania: "E poi gliel' ho detto: io non so parlare d' altro, e non ho che queste cose che mi parlano. Le cose vengono, io sono messo incinto dalle cose. Come quella volta che sono stato incinto di un lupo...".
Quest'è troppo: "Un lupo?"
"Un cane lupo... che poi incontrai Amelia Rosselli, che stavo con questo lupo... e io ad un certo momento l'ho baciato in bocca, e lei ha detto "ma che schifo!", poi s'è messa a ridere, m'ha dato un bacetto sulle labbra e è scappata via. Che scema! La Maraini dice che non la mettono nelle antologie perché non è un uomo, ma che c'entra... vede come sono? Dario invece sostiene che è brava... io non ho letto niente, non sono capace di leggere, mi distraggo, dopo tre secondi mi viene in mente qualcosa e penso a 'sta cosa, seguo l'immagine... e poi mi stufo, un po' come quando ancora sentivo la musica... Bach non ci riuscivo, mi annoiava... invece Mozart... Mozart pare semplice, invece è complicato, non so come dire... e anche Wagner, ma se ti piace Wagner dicono che sei nazista... capisce che mondo scemo? I nazisti ammazzavano gli ebrei, che allora li chiamavano giudei, e nessuno però diceva niente, anzi, facevano le leggi apposta per ammazzarli e nessuno protestava... adesso tutti dicono che era un crimine orrendo... ma non si preoccupi, lo diranno fino a quando non trovano qualcuno per fargli e dirgli le stesse cose... e non protesterà nessuno, come non hanno protestato quanti sono? ... quarant'anni fa... però se l'ha detto Dario che è brava, dev'essere vero, malalingua com'è, che sparla di tutti, e sa sempre tutto di tutti, ma come fa. Invece Lorenzo Giusso non sparlava, si faceva i fatti suoi, però gli stavano all'anima tutti quanti, peggio di me, che almeno ho la scusa che sto male, e prendo i sonniferi e il neurobiòl, e quelli ti fanno diventare cattivo... ".
Pietoso, il congegno del magnetofono si blocca. Il giornalista lo scuote, preme in successione i pulsanti: nulla, il macchinismo si rifiuta di riprendersi. L' intervistatore s' arrende, e soffia: "Sono finite le pile".
"Bene!", esulta il poeta, ridistendendosi sul letto: "M' ero proprio stufato di tutta 'sta cosa qui dell' intervista. Ma almeno, me la pagate? A me non mi pagano mai. Se avessero dovuto pagarmi per ogni intervista... vengono, vengono, dicono l' intervista, l' intervista, e soldi nisba. E poi a me che me ne fregherà, sono moribondo, sto per morire, anzi sono già morto". Con un gesto da turbante, si fascia nella coperta, rendendosi indisponibile, remoto.
All' intervistatore, testimone della cheta follìa di quell' uomo senza storia e senza padroni, non rimane che andarsene. Dal corridoio, ormai dalla soglia, vede la coperta muoversi pian piano, e scuotersi. Ne proviene un suono, una risata, che se fosse più acuta sarebbe stridula, se meno alta, truce e triviale. Il riso è intervallato dalla frase "legislatore mitico", ripetuta irregolarmente, e fatta navigare sulle risa finché non si spengono, e il poeta rimane inerte, e sembra che dorma.
_______________________________
1) la tipica pietra del selciato romano;
2) cinema di infima categoria;
3) lett. un' orecchia, un lembo di pagina;
4) orinale.
L'ispirazione e i dati vengono da: Enzo Giannelli, L' uomo che sognava i cavalli, Quetzal, Roma 1984.
Lui transita sulle pietre lisce, unte di linfa di verdure sfracagnate, e si spiccia per esagerazione di cortesia, ma quelli non lo curano più, ripigliando a giocare. Arriva al quattordici, un portone basso, esordio d'un ballatoio privo di luce: vi ristagna un tessuto d' odori vegetali - alimentari in genere. Li amalgama un sentore brodoso, tiepido, di formaggio alterato.
Sulla scala sdrucciolevole predominano gli effluvi del candeggio dei panni stesi, amarognolo, e quello, ammònico, dello scarico d'una lavatrice, forti in maggior misura presso un uscio aperto. Lui vi si affaccia, mormorando: "Si può?"
Niente.
"E' permesso?"
"Chi è? Chi è?", intima una voce seccata: "Sto male, sto malissimo, non voglio essere disturbato!"
"Sono quel giornalista... che ha telefonato ieri... e l'altro ieri... e prima. Non so se ricorda... per intervistarla... ricorda?".
I vetri sono chiusi, e serrati gli scuri, benché sia pomeriggio. L' unica luce arriva da una lampadina spoglia e infeltrita di polvere, che rischiara una camera in fondo al corridoio. Dalla stanza il timbro delle parole muta, ora più disponibile: "Beh, già che c'è... venga, entri... non chiuda la porta".
Nel letto, e avvolto in una coperta militare nonostante il caldo, c'è il poeta. Intorno, cataste di libri moderni e antichi, quadri alle pareti - ma più, appoggiati gli uni agli altri, sul pavimento, sul comò -, dischi nella foderina d'altri dischi, foderine di dischi, dischi senza foderine.
Accanto al giaciglio del vecchio leggero, un comodino ingombro di ogni possibile specialità medicinale, in ogni forma farmaceutica immaginabile: pastiglie, gocce, suppositori, fiale, sciroppi, amari medicinali, pillole confettate.
Dalla borsa del giornalista compare un registratore Castelli. L' uomo chiede: "Posso usarlo?", svagandosi a ammirare i due Sironi, il Pascali, il grande Purificato e il piccolo Donghi - e pure i disegni di Cocteau, le litografie di Daumier, alcuni linoleum e puntesecche di Maccari, i quadri di Enotrio, De Pisis, Sebastian Matta, Carrà, Lorenzo Viani, Paul Klee, Oskar Panizza - che circondano il padrone di casa. Riconosce, ai piedi del tavolo, dei disegni preparatori di Scipione, mentre il poeta concede: "Mah... veda un po'... almeno dovrà inventarsi meno cose", e accenna a una sedia, occultata da un monte di libri dalle legature fine secolo, tra i quali spiccano l'"editio princeps" delle Laudi dannunziane, "La crudeltà" di Bevilacqua, e un Guido Da Verona dalla copertina stanca. Il giornalista, per non saper che fare, trasloca la pila sul pavimento di linoleum colloso. E si accomoda, accendendo il magnetofono, che gira pigro. "Superpila" scariche. Augurandosi che durino fino alla fine, disinvolto pronuncia un ottimistico: "Tutto a posto. Se vuole, possiamo cominciare...".
"Sì, sì".
"Bene". Il timbro disincantato del vecchio lo disturba, e il puzzo languido che imbibisce la stanza lo soffoca: "Circa trent' anni fa, uscì Eccezioni e regole, e fu salutato dalla critica quale un capolavoro. Dopodiché, a parte qualche sporadica apparizione di sue liriche brevi in riviste, più nulla. E ora, da un mese, è comparsa una sua raccolta, Il sogno cieco. Cosa l' ha indotta a dare alle stampe le sue ultime fatiche?"
Il poeta respira e risponde: "Uno, se ha il mal di denti, che fa? Va dal dentista, no? E così... erano rimaste queste cose, qui a casa...".
La dizione incespica per la mancanza della dentiera, la voce è fioca: speriamo che s' incida sul nastro.
"E lei, s'è metaforicamente tolto il dolore".
"Mbe'...".
"Molti critici parlano di lei come del poeta puro, assoluto, nel senso di completamente avulso dal reale. E in effetti, leggendo queste sue poesie - o, se si vuole, non-poesie, data la loro forma informale -, e paragonandole con quelle precedenti, non s' incontra soluzione di continuità. Né a livello dei temi, né del lessico...".
"Ci sono le stesse cose perché non so parlare d' altro".
"Se non ricordo male, lei diceva questo in una poesia dove affermava che vi son sempre fanciulli nei suoi versi perché il resto è noia...".
Fa sì con la testa. Cerca di prendere un bicchiere d' acqua sul comodino. Lo coglie, vi dissolve una punta di cucchiaio di sciroppo d'amarena, lo porta alla bocca e inghiotte due sorsi.
"Ecco, ora io vorrei chiederle... molti critici hanno notato come in fin dei conti lei utilizzi frasi e parole appartenenti al lessico eterosessuale per parlare dell' amore per i fanciulli... si è addirittura arrivato a avvicinarla agli stilnovisti, a dire che i suoi fanciulli, in realtà, sono donne...".
La risposta tarda a arrivare, e il giornalista si distrae, per guardare una prova d' autore di Corrado Cagli, dritta sullo scaffale siccome appoggia a una pentola d' alluminio marca "Electro" - tardi anni Trenta, dunque.
"... le cose, hanno il dono di Tiresia".
Ritorna all' intervista: "Come dice, scusi?"
"Andiamo bene...", si sconforta: "Mi intervista, e poi mi fa parlare da solo come uno scemo?", ma il rabbuffo è amichevole: "Io poi fatico a parlare, come fatico a fare tutto. Ho il mal di cuore, da giovane ho avuto le fibrillazioni, me l'ha curate Giorgio Vigolo. Con le vitamine. Io curo tutto con le vitamine, soprattutto la bi-uno, che una volta, avevo la diplopia, sa quando uno vede doppio?... beh, ho preso la bi-uno e sono guarito. E poi la mattina appena mi alzo dico tre volte "come sto bene, come sto bene, come sto bene, la vita è bella, la vita è bella, la vita è bella"...lo dico lo stesso, anche se non ci credo. Non ci credo più, ormai... tutto mi annoia, tutto mi è diventato indifferente. Anche uscire... e poi chi esce più, è una penitenza, ci sono tanti ragazzi bellissimi, uno li vede e pensa sono vecchio, sono vecchio... se non prendessi i sonniferi... mah...".
L'interiezione rimette il discorso sul binario gradito dal cronista: "...dicevo... dicevo Tiresia. Tiresia. L' indovino che da uomo diventò femmina, e ancora maschio. La poesia, la poesia è un sogno confuso, indistinto. Le parole, cercano di dare forma, di regolare, di mettere limiti. Ma cosa vuoi regolare? E' tutto lì... maschi, femmine, che c'entrano? Le parole", il poeta parla fluente, con un' inflessione chiara e sicura: "Le parole limitano, e sono boriose e vanesie, perché ti costringono a parlare solo di loro, solo con loro... tu sei lì come un farlocco e ti credi di parlare delle pinete, degli operai, dei cavalli, del ragazzino che c'hai fatto l' amore, e invece no, parli di loro".
Si toglie la coperta di dosso, e resta con il maglione a collo alto che lo somiglia a un esploratore polare anni Trenta: "Oh, insomma. Quante fregnacce mi fa dire. Poi le pubblicano sul giornale, e la gente mi prende per un vecchio sporcaccione. O per un matto. E io non sono matto, io sono malato, capito, malatissimo. E ho bisogno di pace. E invece mi perseguitano con l'arte, la letteratura, la cultura. In Italia tutti fanno cultura, pure i preti adesso so' diventati culturali. Invece nel medio evo per loro l'ignoranza era santa... ma ogni tanto cambiano idea, come con la messa che non la dicono più in latino... allora la gente la capisce, e dice beh non è poi 'sto granché... e si lamentano se c'hanno le chiese vuote... la religione è un mistero, un mistero dentro un mistero.... coso, Albertazzi, è uno di questi che fa cultura in televisione. L'avevo visto quando faceva l'"Idiota", era bellissimo, con un gran testone di capelli color paglia, ma belli, proprio belli. Lì era bravo. Adesso fa Cechov. Ma Cechov è semplice, parla in semplice linguaggio umano, l'ha pure scritto da qualche parte, o forse me lo sto inventando adesso, chissà... invece l'attore italiano quando recita sembra sempre che fa l'antico romano. E poi Cechov... quando non sanno che fare, fanno sempre Cechov. Ma mica solo in teatro, sa? Anche dal panettiere, dalla zia monaca, sull'autobus. Fanno Cechov... l'unico che non fa Cechov è Paolo Poli, che è bravo e simpatico e poi piglia in giro la gente, peggio di Mozart, rifa tutte queste canzoncine con il doppiosenso, con l'ambiguità... Vieni, pesciolino mio diletto vieni, che faremo un discorsetto vieni... oh madonna che voce da cappone, peggio di Giulietta Simionato, con tutti quegli strilli per casa che il marito ingrullisce... o dei castrati della Sistina... una volta ho sentito un disco con la voce di uno di questi, l'ultimo rimasto, e sarà che era vecchio, sarà che era malato, sarà che era appena vivo, peggio di me, insomma, un disastro, una cosa che pareva una gallina che la stavano strozzando... un altro bravo è De Filippo, Eduardo, non Peppino, che fa le cose napoletane... però dopo un po' stufa, ti viene voglia di dirgli e cambia un po'... si può vedere anche Brecht, anche se è tutta politica, che però non ammazza il teatro, insomma, non sempre... vedi che strano... perché è tutta una forza di nervi, e alla fine è anche elegante... però sempre lì con la storia della storia, i drammi storici... anche le donne fanno la storia adesso, anzi per farla meglio fanno la Storia, con la maiuscola, sono tutte maiuscole: come Elsa, come la Dacia, come la Fallaci, che Bill, l'amico americano di Elsa, chiamava Fallacy, per dire che non valeva niente. Fanno la cultura pure tutte 'ste donne, che sceme. E quando non fanno cultura, fanno la poesia. La poesia, la poesia, sempre 'sta poesia in mezzo. E' una vita che lotto con la poesia. Per questo sto in fin di nostra vita. Perché la poesia ti massacra".
Da una scatola sul comodino, prende una pillola bianca schiacciando il blister, e la deglutisce senza bere.
"La poesia. Ma poi gli uomini non chiedono più niente ai poeti. Chiedono ai maghi e agli scienziati, che sono maghi pure loro, come Newton, e non lo sanno...". Intercetta lo sguardo non convinto dell'ascoltatore, e precisa, con stizza: "Newton, sì, che ha preso la cosa, la cosa della gravitazione da Giambattista Della Porta, la simpatia e l'antipatia dei corpi... anch'io ero mago, facevo i numeri, poi li vendevo alle donnette davanti all'esattoria...", digressa, ma riprende, come per non dire i fatti suoi: "Per questo i poeti d' adesso, per farsi pigliare sul serio, s' attaccano alle fòrmole, alla matematica, alla filosofia. E finisce che per capi' una poesia, bisogna sape' la fisica atomica e la biologia e la storia antica. Meno non ci vuole! E mi mandano 'sti libri, co' 'ste poesie dove dicono che c'hanno un orologio che all'inizio è verde, poi diventa rosso, alla fine bordò, e mi chiedono un parere. Ma io sto male, so' quasi 'na salma, e mica posso piglia' tre lauree per capi' a loro, permette?"
Inghiotte una capsula morbida, stavolta bevendo da un bicchiere semivuoto che ha sul comodino: "Io le medicine non le sopporto, è per questo che ne devo prendere tante. Meno si sopportano, più si devono prendere, perché il corpo si fortifica. E' l'allopatìa, la concordia degli opposti, no? Altra cosa degli stregoni che è passata agli scienziati pàra pàra. E camminare. Camminare molto. Ma adesso è diventato difficile anche camminare... il mondo è cambiato, poeti non ne nascono più perché tutti vójono ave' ragione, perciò la gente è cattiva. I ragazzini una volta ti gridavano "a frocio!", ma non c'era cattiveria, e poi coi froci ci andavano... per la pizza o i quattro soldi, ma era una scusa, un po' erano curiosi e un po' per lo sfogo del problema sessuale... andavano dal Ciriola, nei pidocchietti (2)... il Due Allori, l'Induno, il Borgia, era tutto un movimento... sono morte le lucciole, ha ragione Pasolini... e le api, e il cielo, il mare, che una volta profumava di fica... il sole no perché non lo possono toccare, ma vedrai che prima o poi vanno a far danni anche lì...".
Rimane in silenzio, contemplando una stufa elettrica che pende, appesa al soffitto, a mezz'aria. Il giornalista approfitta della pausa per intervenire: "Vorrei parlare ora di questo suo ultimo libro, che ha suscitato un dibattito anche piuttosto acceso, che ha dunque una notevole massa critica. In esergo alla raccolta ci sono questi versi", li legge da una copia del volume che tira fuori dalla borsa color scarafone: "L' amore ti sta come un idioma / ermafrodito: tu fanciullo lo sai e te ne vai / e il mio cuore non t' ha avuto...".
"Sì. E' una poesia greca. Un po' greca".
"Mi pare di capire che lei con questi versi intenda dire...".
"I miei versi non intendono proprio niente", sentenzia, con furia ironica e senile: "Le poesie non dicono, né mentono, semplicemente mostrano. E anche quell' altro, lì, coso...".
"Chi?"
"Coso, quello del giornale. Coso! Insomma, anche lui, ha detto che sono un legislatore mitico. Mah! Forse", l' ira si cheta, e diventa un sarcasmo venato di benevolo malumore: "Avrà voluto dire che io non sbaglio mai. Che vuole che le dica? Io le poesie nemmeno le scrivo... la prima, la più bella, me la sono ritrovata su una récchia di giornale, (3) svegliandomi dopo che m' ero addormentato in spiaggia, sulla sdraio. Si figuri cosa ne so io, della poesia".
"Forse Galante Bellone, il critico al quale credo lei si riferisca, avrà voluto dire proprio questo, parafrasando Shelley. Che lei in quanto poeta dà leggi al confuso, all' indistinto, al mitico, con il suo intervento di creatore, di poeta appunto...".
"Sarà sarà sarà ma non ci credo...", canticchia, sull' aria di una canzone priva di fortuna commerciale. E rammenta, con un improvviso guizzo di malignità manierata: "Ma lei è venuto qua solo? Chissà cosa penseranno!"
Sorride sdentato, e consola il suo ospite: "Su, non si disperi. Tanto lo sanno tutti, ma proprio tutti, che a me piacciono tra gli otto e i sedici, come ai poeti della "Palatina" e a Schubert... lei è troppo vecchio per me...".
Il sorriso si allarga in risata, e finisce in tosse. L' ospite si schiarisce la voce, e borbotta: "Fa caldo qua dentro...", quindi riporta: "A proposito di questo. Grifonetto Lampugnani, il noto critico letterario del Quotidiano del Norditalia, in un articolo intitolato "Il lupo perde il pelo...", le imputa, cito a memoria, di farsi portavoce e cantore di laide e oscene pratiche, accusandola inoltre di fornire un alibi culturale ai corruttori, e, tra le righe, ma il tono dell' articolo è chiaro, d' essere lei stesso un corruttore. C'è stato poi il pesantissimo attacco nei suoi confronti di Baldo Lometto, su Babele, la nota rivista omosessuale. Nel quale l'autore dice che la sua considerazione per lei è scesa quando ha saputo che andava con ragazzi nei gabinetti dei cinema, pagandoli cinquecento lire. E che ha dato dei ragazzini una rappresentazione completamente falsa, dimenticandone e non vedendone il dolore e la sofferenza".
"E ti credo che lo dice!", ammette il poeta, esilarato: "Se no non poteva andare più in televisione a fare la fatìna delle checche! Prima, quando credeva di beccarsi gli applausi, starnazzava che non era niente farsi i ragazzetti. Quando ha visto che non era il caso, s'è messo la coda tra le gambe". Imperturbabile nella sua dolce causticità, la voce chioccia palesa: "E Lampugnani... Lampugnani lo conosco da mezzo secolo. Non capiva nulla cinquant' anni fa, e non capisce niente adesso. Solo che adesso gli dànno retta, e cinquant'anni fa no. Colpa anche di questo fatto che adesso bisogna parlare di tutto, dire tutto... fare questi giornalini liberati, co' su le rivendicazioni della rivoluzione, che la gente si spaventa... ma forse è meglio
così, nascondersi non è bello. Anche a lui piacciono i ragazzini... le ragazzine, per essere precisi. Ne ha pure sposata una, per modo di dire, quand' era in Africa Orientale come cronista, durante la seconda guerra...".
"Come!? Possibile?"
Il gesto della mano del poeta equivale a uno schietto glissons: "Il fatto è che non si vuol scoprire, magari fa le traduzioni degli erotici... del greco Luciano, come diceva Croce a proposito di Settembrini... delle lesbiche inglesi del diciottesimo secolo... e poi viene a rompere 'oglioni a me... e io sono vecchio, e sto per morire, e quello mi fa la predica". Ripensa, borbotta: "La sofferenza, la sofferenza... e che si dovevano soffrire? Se soffrivano, andavano a ruba', no a fa' le marchette. Bah!"
Assente, fissa la parete dove, sopra una mensola surcarica, c'è un pitale, colmo d'urina color azzurro Savoja, non a causa di porfirìa bensì per i metaboliti dei farmaci. Lo zipèppe (3) in precario equilibrio minaccia di rotolare a valle, lungo una pista di panni sporchi e tele a colori "nature" di Pasolini. Che forniscono un' ottima contingenza per cambiare discorso: "Lei ebbe un lungo rapporto con il poeta di Casarsa, un altro bersaglio polemico dello scritto di Lometto...".
"Pasolini non era di Casarsa, era bolognese. Sa che c'era un libro di filosofia che cominciava così: Aristotele, detto lo Stagirita, nacque a Atene... è vero che c'è tutta una strategia, tutta una commedia degli errori, per cui certi scrittori... adesso mi viene in mente solo Malerba, ma ce ne saranno altri... pure Pasolini in Teorema dice una cosa del genere... ma non me la ricordo, io sono vecchio, sto per morire e non mi ricordo niente, anche se prendo il Betotal, come i bambini... ma si sa, vecchi e bambini... e i selvaggi...".
Estraneo, tace, per il tempo d'inseguire un ricordo. Dunque, accenna: "Di che parlavo?"
"Degli errori, mi pare", suggerisce il giornalista, intontonìto.
"Ah, sì, beh... certi scrittori fanno apposta degli sbagli, per cercare il dialogo con i lettori, vedere se questi se ne accorgono... sì, figurati, facciamo la Settimana della Sfinge... oppure anche per ragioni più serie, perché per esempio un personaggio si crede infallibile o crede di avere una vita perfetta, e allora l'autore tramite magari degli anacronismi o delle false percezioni avverte il lettore, gli fa presagire, che quella vita non è poi così perfetta... Hemingway lo faceva, anche, con Nick... comunque!", sospira fermamente: "Pasolini, mi dice? E cosa vuol sapere? Lui era un santo, e io quando gli ansiolitici il tegretòl o il calciobronàt mi cambiavano l' umore, gli telefonavo alle tre di notte, e gli strillavo "Malocchio! Malocchio! Malocchio!" , e poi riattaccavo. Lui sapeva che ero io, e quando m' incontrava mi diceva: "Non saresti tu, se non facessi queste cose. Ti perdono perché sei tu". Ma lui perdonava tutti, era un santo. E quasi un genio. Ripigliava vecchi discorsi, e li aggiornava. Aveva fatto una poesia sul realismo, la lesse a un premio letterario, era molto impegnato su certe cose, tutta la storia del genocidio, dell' omologazione. Voleva abolire la scuola e la televisione, e aveva ragione, poverino, vedi 'sti ragazzini che vanno a scuola e escono d'una scemenza... perché li rimbambiscono... ma Cassola, Moravia e Bevilacqua, tutti questi che se non ci fossero le scuole e le serve farebbero la fame, si sono indignati... io no, non voglio abolire... o magari sì, però non me ne frega niente".
"Per lei allora impegno e poesia non vanno d' accordo...".
"Ridànghe co' la poesia...", si duole, in comica posa. Misura qualche goccia in un cucchiaio, e avido si ciuccia il medicàle: "La poesia è contro la realtà. Non è reale, è autentica. Tutte le cose contro sono più autentiche di quelle a favore. Difatti, appena qualcuno le piglia e le fa diventare a favore... di uno stato, di una religione... diventano finte... allora forse una poesia si può riconoscere come un diamante... un gioielliere basta che guarda i diamanti, e dice questo è falso, questo è autentico...".
"Credo si possa dire che i suoi ragazzi siano un po' il simbolo di quest' autenticità che lei dice. I loro sudori, le loro minzioni...".
"Meno male che le ha menzionate, le minzioni...", lo burla: "Spero siano minzioni d' onore".
Lo compiace, sorridendo un po', ma proprio poco: "Dicevo, i suoi versi sono duri, petrosi a volte. Vi si parla di orinatoi, di ehm merda, di sputi... questo per sottolineare l' animalità dei suoi giovani animali, la loro selvatichezza gioiosa, la loro creaturalità auerbachiana, infine la loro essenza comune ai fenomeni come il vento, il sole, il mare....".
"E che ne so? Può darsi pure. Magari le poesie sono cose dell' atmosfera, come i lampi e i tuoni. A Napoli così chiamano i tagliolini coi ceci, lo sapeva? Mi piacciono tanto ma mi fanno male, anzi malissimo. Come tutto, ormai... a parte i dolcetti, i succhi di frutta e le polpette al pomodoro... quelle le faceva pure Linuccia Saba, e lui le chiamava fugazzette, alla triestina... Ernesto è l'unico libro da anni che sono riuscito a leggere intero... capirai, è di Saba... Ernesto è lui, Saba, altro che un ragazzo triestino della fine del secolo... però Ernesto sono un po' anch'io, perché lui lavora da un ebreo - Saba aveva la nutrice ebrea - un ebreo mezzo ungherese e mezzo tedesco, e quando io stavo a Trieste lavoravo appunto con un ebreo, gli facevo le fatture... perché io lavoravo da lui come ragioniere... perché io ho studiato, anche se tutti dicono che ho fatto studi irregolari, chissà, forse gli pare più poetico... se sono scemi!... e difatti... certo, m'ha dato una gioia quel libro... ma anche tristezza... non per la giovinezza perduta, e 'ste cose qua, la poetica del fanciullino, addio giovinezza... ma per Saba, che mi voleva bene... non come Pasolini, nessuno m'ha voluto bene come lui, ma mi voleva bene...".
"Capisco cosa prova...", consente l'intervistatore, riportandosi al suo interesse: "Un suo famoso verso recita "ma dietro le colonne della legge ridendo si masturba ogni fanciullo". Anche l'erotismo, in specie quando si oppone alla legge, alle parole, è una forza della natura?"
"E di che altro, sennò?", e ride un poco, un poco ride per giuoco: "C'era uno scrittore, non mi ricordo chi, che ha detto questo: io nei miei libri ci metto sempre qualche scena di sesso. Perché così mi eccito, e posso usare quest'energia per dare più vita a tutto il resto delle cose che scrivo, più chiarezza a quello che penso. Vede quant'è fondamentale il sesso, per il pensiero e per la poesia - sempre con la p maiuscola, mi raccomando, come usa il Baldus Lomettus!"
Starnuta, mordendosi la lingua. Starnuta ancora, e ancora, sputacchiando saliva e sangue pìsto. Trae di tasca un fazzoletto di pérofil, guarnito da una greca celestina: si pulisce e lo ripone. Apre il cassetto del comodino, ne prende una sciarpa di lana bianca con lunghe frange, se la avvolge attorno al collo, smania: "E poi gliel' ho detto: io non so parlare d' altro, e non ho che queste cose che mi parlano. Le cose vengono, io sono messo incinto dalle cose. Come quella volta che sono stato incinto di un lupo...".
Quest'è troppo: "Un lupo?"
"Un cane lupo... che poi incontrai Amelia Rosselli, che stavo con questo lupo... e io ad un certo momento l'ho baciato in bocca, e lei ha detto "ma che schifo!", poi s'è messa a ridere, m'ha dato un bacetto sulle labbra e è scappata via. Che scema! La Maraini dice che non la mettono nelle antologie perché non è un uomo, ma che c'entra... vede come sono? Dario invece sostiene che è brava... io non ho letto niente, non sono capace di leggere, mi distraggo, dopo tre secondi mi viene in mente qualcosa e penso a 'sta cosa, seguo l'immagine... e poi mi stufo, un po' come quando ancora sentivo la musica... Bach non ci riuscivo, mi annoiava... invece Mozart... Mozart pare semplice, invece è complicato, non so come dire... e anche Wagner, ma se ti piace Wagner dicono che sei nazista... capisce che mondo scemo? I nazisti ammazzavano gli ebrei, che allora li chiamavano giudei, e nessuno però diceva niente, anzi, facevano le leggi apposta per ammazzarli e nessuno protestava... adesso tutti dicono che era un crimine orrendo... ma non si preoccupi, lo diranno fino a quando non trovano qualcuno per fargli e dirgli le stesse cose... e non protesterà nessuno, come non hanno protestato quanti sono? ... quarant'anni fa... però se l'ha detto Dario che è brava, dev'essere vero, malalingua com'è, che sparla di tutti, e sa sempre tutto di tutti, ma come fa. Invece Lorenzo Giusso non sparlava, si faceva i fatti suoi, però gli stavano all'anima tutti quanti, peggio di me, che almeno ho la scusa che sto male, e prendo i sonniferi e il neurobiòl, e quelli ti fanno diventare cattivo... ".
Pietoso, il congegno del magnetofono si blocca. Il giornalista lo scuote, preme in successione i pulsanti: nulla, il macchinismo si rifiuta di riprendersi. L' intervistatore s' arrende, e soffia: "Sono finite le pile".
"Bene!", esulta il poeta, ridistendendosi sul letto: "M' ero proprio stufato di tutta 'sta cosa qui dell' intervista. Ma almeno, me la pagate? A me non mi pagano mai. Se avessero dovuto pagarmi per ogni intervista... vengono, vengono, dicono l' intervista, l' intervista, e soldi nisba. E poi a me che me ne fregherà, sono moribondo, sto per morire, anzi sono già morto". Con un gesto da turbante, si fascia nella coperta, rendendosi indisponibile, remoto.
All' intervistatore, testimone della cheta follìa di quell' uomo senza storia e senza padroni, non rimane che andarsene. Dal corridoio, ormai dalla soglia, vede la coperta muoversi pian piano, e scuotersi. Ne proviene un suono, una risata, che se fosse più acuta sarebbe stridula, se meno alta, truce e triviale. Il riso è intervallato dalla frase "legislatore mitico", ripetuta irregolarmente, e fatta navigare sulle risa finché non si spengono, e il poeta rimane inerte, e sembra che dorma.
_______________________________
1) la tipica pietra del selciato romano;
2) cinema di infima categoria;
3) lett. un' orecchia, un lembo di pagina;
4) orinale.
L'ispirazione e i dati vengono da: Enzo Giannelli, L' uomo che sognava i cavalli, Quetzal, Roma 1984.
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