RACCONTI
Jacopo Lubich
La pizza di Mario
Si spazientì perché il gancio era infilato male. Qualcuno l'aveva infilato dalla bocca, facendo uscire il lato appuntito dalla guancia. Il peso lo stava portando in giù, strappando quel lembo di carne. Sarebbe caduto a terra rotolando sulle olive in barattolo, rovesciando la salamoia su tutto il pavimento di piastrelle bianche. Allora lo staccò sollevandolo dalle gambe, se lo adagiò addosso. Poteva sentire il freddo di quelle carni contro il suo collo avvampato dalla rabbia. Con un braccio tratteneva l'enorme mole mentre con l'altro spingeva la testa dell'altro all'indietro. Fece forza sulla gambe, come fosse uno squot di novanta chili e lo sollevò in alto. Velocemente prese il gancio e lo infilò a forza sotto al mento. La pelle si lacerò come fosse lattice di qualità scadente e il gancio si ancorò alla mascella. Poteva guardare la punta uscire dalla bocca congestionata e violacea. Lo lasciò oscillare per un momento per vedere se fosse caduto una volta lasciato. Dondolava ma reggeva. Con sguardo soddisfatto ma ancora irritato fece scorrere il corpo lungo la barra di acciaio fissata sul soffitto. La luce ghiacciata del neon dava vigore al sangue all'altezza dello stomaco, là dove c'era lo squarcio causato da un coltello per carni. Il fendente aveva reciso la parete addominale e bucato lo stomaco, dopodiché era affondato lacerando l'intestino e il retto, creando una sorte di croce di sangue. Uscì dalla cella frigorifera e tornò in cucina, sbattendo il portellone di ferro. Tornò alla sua pizza, posata sulla lastra di marmo infarinata. Si ricordò che mancava il sugo e bestemmiò tra sé e sé. Prese un punteruolo cavo e riandò nella cella frigorifera. Fece scorrere le carcasse fino ad arrivare alla più fresca. Era una donna sui quaranta, aveva ancora le labbra rosee e lo sguardo ubriaco. Infilò il punteruolo nello stomaco con violenza, il corpo traballò per la spinta facendo scricchiolare la mascella sotto il grave peso. Il sangue si riversò nella cavità dell'attrezzo. Quando fu riempito, respinse il corpo e tornò in cucina. Il sangue era ancora abbastanza liquido quando calò sulla pizza. Poi prese un cucchiaio e con meticolosa attenzione lo sparpagliò su tutta la superficie, badando bene di arrivare fino ai bordi leggermente rialzati per non fare uscire il sugo durante la cottura. Si asciugò le mani sul canovaccio legato alla vita e prese il foglietto dell'ordinazione strizzando gli occhi. Era piccolo e a quadretti. Sopra c'era scritto margherita con wurstel. Lo lasciò sul tavolo di marmo e prese la mannaia dal cassetto di sotto. Una volta entrato nella cella frigorifera scelse con dovuta cautela il corpo migliore. Scelse quello di un ragazzo di vent'anni. Aveva le braccia riempite di buchi di siringhe, tanto che le vene intorno erano esplose in un collasso di eroina. Probabilmente suonava il pianoforte, aveva dita affusolate e ben curate, nonostante fosse un drogato. Gli strinse la mano e disse: «Complimenti, hai vinto tu!». Dopodiché alzò il braccio e tenendo con una mano la sua sollevata, con l'altro vibrò la sua mannaia troncando di netto la mano destra del cadavere. Un timido fiotto di sangue gli bagnò la camicia da cuoco. Lui non ci fece caso, poggiò la mano su un banco vicino e prese la mira. Il freddo gli sollevava una nuvola di fumo dalla bocca che si levava fino agli occhi. Allora trattenne il fiato e cominciò a lavorarsi la mano staccata. Un pezzo alla volta, colpi netti e potenti. Uscì con cinque dita tagliate a metà, in pratica dieci pezzi di wurstel. Li sparse sulla pizza e la infornò. Allora il suo nervosismo trovò la quiete. Si accese una sigaretta e aspettò davanti al forno. «Chissà se piacerà ancora la mia pizza. Non ci stanno più le carni di una volta, quando c'era la guerra» si lamentò teneramente.
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