RACCONTI
Will B.Beeter (*)
Paesaggio in India
Avevo deciso di fare un lungo viaggio in treno, muovendomi da Madras (o Chennai) a Dehli, ma passando per il sud, quindi risalendo il continente. Proprio a New Dehli, qualche giorno prima di prendere l'aereo per andare via, mi svagavo a camminare, in lunghe passeggiate non proprio comode, per il dissesto di molti marciapiedi.
Mi capitò di passare accanto a un casermone popolare, dai tratti edilizi funzionali, anni sessanta. Era tardo pomeriggio e la via, malgrado fosse abbastanza larga e trafficata, e vicina al centro della città, una rotonda che ricorda una scena del film Oliver!, era piuttosto silenziosa. Mentre andavo per i fatti miei, mi si avvicina un ragazzino, e, sorridendomi, in un inglese corretto mi dice: "Mi riconosce?"
Non frequentando nessuno, ma avendo incontrato spesso ragazzini che vendevano il tè, elemosinavano o semplicemente volevano chiacchierare e farsi fotografare dallo straniero, esitai. Comunque, dissi, per piccola prudenza: "Scusami, no".
"Mi guardi bene...", insisté lui, con uno scialbo sorriso. Cercai allora con maggiore lena qualcosa di famigliare in quel volto appiattito, di carnagione scura, e nel corpo minuto e tuttavia robusto, da piccolo lavoratore. Vistomi in difficoltà, mi aiutò, rivelandosi: "Sono Raju Lal!"
Rimasi interdetto. Quel nome dovevo conoscerlo? Eppure, lo dovevo aver sentito. Me lo ripetei mentalmente, e alla fine sbottai: "Ma certo! Il piccolo Budda!"
Com'è noto, nel film di Bertolucci lavorano una ragazzina e due bambini, uno americano, l'altro tibetano - Raju Lal, appunto. Che ora avrei dovuto avere dinanzi, e che si mostrava compiaciuto da questa mia prova di memoria, e dalla sua fama.
Gli feci dei complimenti di maniera, evitando domande che avrebbero potuto imbarazzarlo. Difatti, mi resi man mano conto che quel bambino e quello del film dovevano avere pressappoco la medesima età - come pure risultava dalla tessera scolastica, o cosa simile, che mi mostrò per certificarmi che effettivamente il suo nome era quello preteso. Ma il film era di qualche anno prima, quindi millantava: oppure non fingeva affatto, ma s'era convinto d'essere il piccolo attore - peraltro sfortunato del suo: preso come si dice dalla strada, sulla strada era finito di nuovo. Innestatasi la personalità fittizia su quella autentica, la prima aveva soffocato la seconda, posto che fosse davvero esistita. E che il ragazzino non avesse quella disposizione a interpretarla per supplire una mancanza d'identità.
Parole grosse. Ebbene: dopo una discreta conversazione, che aveva preso i modi in me e le maniere in lui dell'intervista, feci per andarmene, allungandogli una banconota da cinquanta rupie che prese, penso, per la delicatezza di non offendermi. Contracambiò rilasciandomi un foglietto di carta di quaderno sagomato nelle dimensioni di un biglietto da visita: il suo autografo, in grafìa hindi e romana, cioè occidentale. Ci stringemmo la mano, e , nel momento del contatto, avvertìi la sua grinzosa, indurita dai calli.
Giorni prima - era il capodanno del Duemila - mi trovavo a Bangalore, e stavo tornando alla pensione dove abitavo. Lungo la via, mi sembrò di scorgere una figura seduta all'angolo a pochi passi davanti a me, sotto l'unica lampada stradale accesa delle tre che avevo incontrato venendo. Avvicinandomi alla sagoma, decisi di non farci troppo caso: doveva essere un accattone, uno delle migliaia che si incontrano nella vita e si snobbano, finché il caso non decide di farti diventare uno di loro. Comunque. Ero affaticato e assetato, avevo sonno, e faceva anche abbastanza freddo: avevo anche un leggero mal di testa, perciò non vedevo l'ora di ficcarmi nel letto scomodo della mia stanza risicata ma economicissima.
Accelerai dunque, per sorpassarlo: fu in quell'attimo che il giovane mendicante voltò il capo verso di me - forse m'aveva sentito arrivare - e si rivelò alla luce incerta del fanale di strada.
La cosa che subito notai fu la bislacca forma e l'enormità di quella testa: un crapone vagamente ovale, con ciuffi di capelli lunghi, incolori, ornato da una bocca che si componeva nel sorriso più imbecille che avessi mai visto, anche a paragone di certi miei. E, sopra il naso caprino, un occhio.
No, non era orbo. Quello che, poco più grande del normale, occupava la metà della fronte, era l'unico occhio che aveva in dotazione, che mi guardava a tratti coprendosi d'una palpebra con un ciglio donnesco, giurerei cosparso di mascara o altro cosmetico civettuolo.
Subito mi bloccai per la sorpresa: quindi ripresi a camminare, superandolo con sciolta disinvoltura, vista la situazione. Alla rivendita di alcoolici che incontrai poche strade più oltre, presi del gin e, seduto a un tavolino a fianco di una televisione che trasmetteva ad altissimo volume un notiziario, me lo stracannai.
Mi venne allora da ricordare che avevo letto, anni fa, su una rivista di divulgazione scientifica, un articolo su una forma di teratomorfismo noto come ciclopìa: pare che un bimbo su dieci milioni nasca con un singolo strumento oculare, né più né meno del gigantesco deforme incontrato e gabbato da Nessuno.
Siccome alla difformità s'accompagna e un gravissimo ritardo mentale, e complicanze nella struttura dei vasi e degli organi interni - del cuore, soprattutto -, pochissimi di questi neonati sopravvivevano, e meno ancora giungevano a farsi adulti. Ma qualcuno sì: e, dato il rapporto uno a dieci milioni, sul miliardo e passa d'indiani, di tali casi dovevano essercene un centinaio. Posta una mortalità del novantacinque per cento, ne rimanevano almeno cinque. Ecco dunque il mio incontro, sortito dalle profondità del calcolo probabilistico, creato dai grandi numeri, generato da una fluttuazione nei decimali.
Ma forse ho visto male: magari era solo un inganno della scarsa luce, o anche una truccatura per impietosire gli ingenui o per atto sacrale di devozione a qualche dio. Oppure, semplicemente, in un luogo estraneo e inospitale, avevo sognato a occhi aperti, come i viaggiatori antichi, i quali proiettavano le loro ansie e paure materializzando nelle terre incognite sfingi, catoblepa, monòpodi, e nei mari di sirene, kraken, narvali, balene bianche. Paure e ansie che, proiettate sugli schermi, fanno invece la fortuna dei registi di thriller o dell'orrore ("The horror! The horror!")
(*)traduzione di Giovanni Sebastiano Del Rio
Mi capitò di passare accanto a un casermone popolare, dai tratti edilizi funzionali, anni sessanta. Era tardo pomeriggio e la via, malgrado fosse abbastanza larga e trafficata, e vicina al centro della città, una rotonda che ricorda una scena del film Oliver!, era piuttosto silenziosa. Mentre andavo per i fatti miei, mi si avvicina un ragazzino, e, sorridendomi, in un inglese corretto mi dice: "Mi riconosce?"
Non frequentando nessuno, ma avendo incontrato spesso ragazzini che vendevano il tè, elemosinavano o semplicemente volevano chiacchierare e farsi fotografare dallo straniero, esitai. Comunque, dissi, per piccola prudenza: "Scusami, no".
"Mi guardi bene...", insisté lui, con uno scialbo sorriso. Cercai allora con maggiore lena qualcosa di famigliare in quel volto appiattito, di carnagione scura, e nel corpo minuto e tuttavia robusto, da piccolo lavoratore. Vistomi in difficoltà, mi aiutò, rivelandosi: "Sono Raju Lal!"
Rimasi interdetto. Quel nome dovevo conoscerlo? Eppure, lo dovevo aver sentito. Me lo ripetei mentalmente, e alla fine sbottai: "Ma certo! Il piccolo Budda!"
Com'è noto, nel film di Bertolucci lavorano una ragazzina e due bambini, uno americano, l'altro tibetano - Raju Lal, appunto. Che ora avrei dovuto avere dinanzi, e che si mostrava compiaciuto da questa mia prova di memoria, e dalla sua fama.
Gli feci dei complimenti di maniera, evitando domande che avrebbero potuto imbarazzarlo. Difatti, mi resi man mano conto che quel bambino e quello del film dovevano avere pressappoco la medesima età - come pure risultava dalla tessera scolastica, o cosa simile, che mi mostrò per certificarmi che effettivamente il suo nome era quello preteso. Ma il film era di qualche anno prima, quindi millantava: oppure non fingeva affatto, ma s'era convinto d'essere il piccolo attore - peraltro sfortunato del suo: preso come si dice dalla strada, sulla strada era finito di nuovo. Innestatasi la personalità fittizia su quella autentica, la prima aveva soffocato la seconda, posto che fosse davvero esistita. E che il ragazzino non avesse quella disposizione a interpretarla per supplire una mancanza d'identità.
Parole grosse. Ebbene: dopo una discreta conversazione, che aveva preso i modi in me e le maniere in lui dell'intervista, feci per andarmene, allungandogli una banconota da cinquanta rupie che prese, penso, per la delicatezza di non offendermi. Contracambiò rilasciandomi un foglietto di carta di quaderno sagomato nelle dimensioni di un biglietto da visita: il suo autografo, in grafìa hindi e romana, cioè occidentale. Ci stringemmo la mano, e , nel momento del contatto, avvertìi la sua grinzosa, indurita dai calli.
Giorni prima - era il capodanno del Duemila - mi trovavo a Bangalore, e stavo tornando alla pensione dove abitavo. Lungo la via, mi sembrò di scorgere una figura seduta all'angolo a pochi passi davanti a me, sotto l'unica lampada stradale accesa delle tre che avevo incontrato venendo. Avvicinandomi alla sagoma, decisi di non farci troppo caso: doveva essere un accattone, uno delle migliaia che si incontrano nella vita e si snobbano, finché il caso non decide di farti diventare uno di loro. Comunque. Ero affaticato e assetato, avevo sonno, e faceva anche abbastanza freddo: avevo anche un leggero mal di testa, perciò non vedevo l'ora di ficcarmi nel letto scomodo della mia stanza risicata ma economicissima.
Accelerai dunque, per sorpassarlo: fu in quell'attimo che il giovane mendicante voltò il capo verso di me - forse m'aveva sentito arrivare - e si rivelò alla luce incerta del fanale di strada.
La cosa che subito notai fu la bislacca forma e l'enormità di quella testa: un crapone vagamente ovale, con ciuffi di capelli lunghi, incolori, ornato da una bocca che si componeva nel sorriso più imbecille che avessi mai visto, anche a paragone di certi miei. E, sopra il naso caprino, un occhio.
No, non era orbo. Quello che, poco più grande del normale, occupava la metà della fronte, era l'unico occhio che aveva in dotazione, che mi guardava a tratti coprendosi d'una palpebra con un ciglio donnesco, giurerei cosparso di mascara o altro cosmetico civettuolo.
Subito mi bloccai per la sorpresa: quindi ripresi a camminare, superandolo con sciolta disinvoltura, vista la situazione. Alla rivendita di alcoolici che incontrai poche strade più oltre, presi del gin e, seduto a un tavolino a fianco di una televisione che trasmetteva ad altissimo volume un notiziario, me lo stracannai.
Mi venne allora da ricordare che avevo letto, anni fa, su una rivista di divulgazione scientifica, un articolo su una forma di teratomorfismo noto come ciclopìa: pare che un bimbo su dieci milioni nasca con un singolo strumento oculare, né più né meno del gigantesco deforme incontrato e gabbato da Nessuno.
Siccome alla difformità s'accompagna e un gravissimo ritardo mentale, e complicanze nella struttura dei vasi e degli organi interni - del cuore, soprattutto -, pochissimi di questi neonati sopravvivevano, e meno ancora giungevano a farsi adulti. Ma qualcuno sì: e, dato il rapporto uno a dieci milioni, sul miliardo e passa d'indiani, di tali casi dovevano essercene un centinaio. Posta una mortalità del novantacinque per cento, ne rimanevano almeno cinque. Ecco dunque il mio incontro, sortito dalle profondità del calcolo probabilistico, creato dai grandi numeri, generato da una fluttuazione nei decimali.
Ma forse ho visto male: magari era solo un inganno della scarsa luce, o anche una truccatura per impietosire gli ingenui o per atto sacrale di devozione a qualche dio. Oppure, semplicemente, in un luogo estraneo e inospitale, avevo sognato a occhi aperti, come i viaggiatori antichi, i quali proiettavano le loro ansie e paure materializzando nelle terre incognite sfingi, catoblepa, monòpodi, e nei mari di sirene, kraken, narvali, balene bianche. Paure e ansie che, proiettate sugli schermi, fanno invece la fortuna dei registi di thriller o dell'orrore ("The horror! The horror!")
(*)traduzione di Giovanni Sebastiano Del Rio
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