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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Riccardo Lionello

Pic-nic a Fairmont Blue

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Chi in posizione supina ai piedi d'un albero, chi rannicchiato con le membra languide come zampe di tartaruga, tutti s'erano addormentati. La testa crespa di Barbara spuntava parzialmente da sotto il saccapelo, nonostante avessimo deciso neanche un' ora prima di discutere riguardo certi fatti coniugali. La sottile invisibile linea che delimita un rapporto raggiante da un rapporto sfasciato era stata scavalcata. Un vento caldo di fine estate, alzatosi poco dopo la mezzanotte, creava ombre guizzanti grazie al vivace gioco coi tizzoni del falò; solo una sagoma sembrava non voler partecipare, un grottesco, bidimensionale uomo nero: l'odiosa ombra nata dalla mia incapacità di trovare una posizione comoda si dimenava in una danza simbolica. Tutta quella casualità, come un ramo arcuato appena sopra la testa se non la linea che disegnava una zolla erbacea leggermente dissotterrata, mi rendevano inquieto. Troppo assuefatto al materasso e al cemento di un sicuro soffitto in cartongesso per poter apprezzare i segni incalcolabili della natura. Tutta quella gente che dopo aver passato 354 giorni a respirare carbonchio azotato persa nel traffico cittadino decide d'impiegare i rimanenti 2 in qualche caratteristica località bucolica mi fa pensare ad un complotto molto ben costruito: benvenuti nella follia collettiva del ferragosto, non c'è nessun limite di partecipanti quindi siete tutti invitati. Come può un figlio di supermariobros e dell'A-Team starsene tranquillo sopra un giaciglio di foglie secche? E i grilli? Se c'è una cosa che davvero mi spazientisce è il frinire dei grilli. Mi ricorda la sveglia che usava mia madre per alzarsi presto la mattina. Una sveglia tipo allarme da rifugio atomico. Niente soavi melodie di Gershwin ne campionamenti delle onde di Palma di Maiorca ma un –bip- dalla crudezza reiteratamente elettronica che sembrava far da sintomo alla giornata lavorativa che da lì a poco sarebbe cominciata. Quella notte c'erano sì e no tre milioni di grilli riuniti sul colle di Fairmont Blue e sembrava che il loro concerto per violino non dovesse terminare mai: zittirli non sarebbe stato facile come premere il bottone off di una sveglia. Del resto conoscevo bene i moventi di quel canto. I maschi l'usano in forma di corteggiamento. L'agonismo sessuale nato dalla difficoltà d'avvicinare la femmina si traduce in un continuo inseguirsi di note alte. Tra umani non è così diverso. Certo non avevo tolto il sonno a nessuno per conquistare Barbara; una bottiglia di vino e l'elenco delle mie attitudini creative, verosimili o meno che fossero, era stato sufficiente. Osservavo la sua pancia muoversi in sincrono con la lieve aritmia del cuore valutando l'intensità d'incazzatura che le avrei procurato se mi fossi deciso a svegliarla.

Come sempre ero stato accondiscendente, accettando d'accompagnarla al pic-nic sul colle di Fairmont Blue, un'abitudine con cadenza annuale dei suoi amici che l'aveva tanto entusiasmata durante l'intera, interminabile mattinata di preparativi; la sua euforia tipo bambino africano a cui vengono regalate delle scarpe nuove mi precludeva ogni tentativo di fuga. M'ero sorbito la fila al supermercato, il carrello pieno d'alcolici e carne cruda spinto alla velocità di 0,02 km orari, la noia cosmica che si dispiegava in enormi sbadigli sopra i capelli radi della vecchina davanti.

diceva, protestavo io. Protesta tanto paracula quanto innocua perché alla fine mi ci sono ritrovato dentro, a quel dannato pic-nic e ho dovuto pure camuffare un broncio che da lì a poco avrebbe rovinato la giornata a tutti. Il connubio gelato-cinema aveva fatto il suo tempo. Era la prima volta che uscivo insieme agli amici di Barbara, una masnada d'artistoidi snob e arroganti di cui spesso m'aveva parlato come la cosa più importante della sua vita. Il tragitto grazie a dio non durò molto. Tre automobili per dieci cervelli, in corsa verso la desolazione. Ci siamo persi un paio di volte per colpa delle intuitive scorciatoie dell'autista subito dopo lo svincolo autostradale. Fairmont Blue è una località bucolica ma comunque non abbastanza da venir considerata un eremo. Si vedevano le gru abbandonate vicino a qualche palazzo in costruzione leggermente sfumate dalla distanza, chiaro messaggio di quanto la nostra fosse solo una libertà condizionata. Arrivati a un piccolo spiazzo a ridosso di un boschetto posammo la roba per terra e montammo sedie e tavolini senza alcun incidente mortale. Peccato. Ho riso alle battute dei suoi amici, ho mangiato la carne e bevuto birra scadente; infine da bravo alunno ho prestato un maglione di cui sono geloso alla freddolosa Marzia, l'amica gallerista di Barbara che tanto mi sta sulle palle. Durante una partita di calcetto alla quale m'hanno chiesto di giocare più per mancanza d'un portiere che per spirito di unanimità, m'è arrivato un calcio dal centravanti della squadra avversaria sullo stinco destro cosicché ho passato il resto della giornata sotto un pino. Barbara dopo le sommarie medicazioni del caso, s'è licenziata con un: che praticamente era come dare il via libera ai miei scazzi. Alla partita aveva partecipato anche Marzia che per adempiere alle responsabilità di calciatore dilettantesco aveva usato il mio maglione come palo. Questo, in genere, è sufficiente a farmi chiedere perché, quel fatidico giorno, Dio decise di creare l'uomo. La contusione aveva comunque un suo pro: almeno potevo starmene alla larga dagli schiamazzi.

Ho guardato i tizzoni morire lentamente. Mi sono avvolto nel saccoapelo come l'arabo con il turbante, inutilmente; il saccoapelo era troppo corto o ero io ad essere troppo lungo. Intanto tutto quel russare lì intorno mi scherniva, tacciava la mia insonnia come un caso clinico. Infreddolito ho appoggiato la testa sulla superficie resinosa dell'albero cercando sigarette e accendino nella tasca dei pantaloni. Fumare al buio è terribile, senza vedere le nuvolette che fai uscire dalla bocca sembra d'avere le percezioni dimezzate. L'ho spenta quasi subito sulla resina e mi sono sdraiato di nuovo. Il cielo non era più tanto nero e i grilli frinivano con meno intensità. Presto sarebbe arrivata l'alba.

Le palpebre s'abbassarono una volta poi un'altra ancora, sempre più pesanti. E' stato allora che ho sentito, distante, una sorta di lamento. Un lamento soffocato e intraducibile, come una parola in lingua straniera. Ho premuto sull'accendino a kerosene, come per scacciare un fantasma. La scena intorno sembrava invariata. Dormivano tutti come sassi. Ho tenuto la fiamma accesa per qualche minuto trattenendo il respiro, finché non mi sono bruciato il pollice. Con l'oscurità è arrivato un altro lamento. Avevo la sensazione che fosse più vicino del primo, ma il vento continuava a soffiare, quindi non sapevo a cosa imputarne il motivo. Ho teso le orecchie in attesa ed ecco un nuovo grido. Ero già in piedi quando sentii il quarto. Riuscivo a percepirne ogni sfumatura, terrorizzato dal fatto che non fosse identificabile come grido umano. C'era infatti qualcosa di bestiale, di smorzato. Dimenticando la piccola scottatura ho acceso l'accendino spostandolo di qua e di la, ho provato ad aguzzare la vista al di là degli alberi con le mani che mi tremavano. Barbara e i suoi amici continuavano a dormire, ignari di tutto: ero l'unico partecipe a quel che stava succedendo. A un certo punto la fiamma s'è spenta, forse per via del kerosene che stava esaurendosi. Sono rimasto al buio incapace di muovere anche il più piccolo muscolo. ho urlato. Le parole mi si soffocavano tra i denti. E' passato qualche minuto prima che riuscissi anche solo a sbattere gli occhi, preso da quel genere d'impotenza tale da farti sentire più piccolo di una pulce. pensai. Doveva essere nella borsa e non ero nemmeno sicuro d'averla portata. Feci quattro, forse cinque passi quando inciampai su qualcosa e caddi a terra sbattendo la fronte addosso qualcosa di duro, di molto duro.

Quando mi sono ripreso, le mani a coppa sulla testa dolorante, sentivo la cosa annusarmi sulla pancia, poi sulle gambe, emettendo quei suoni raccapriccianti. Distinguevo la sagoma, un enorme chiazza grigia troppo ravvicinata per fare supposizioni. Non so perché lo feci, guidato dall'istinto o per semplice paura. Cercai con la mano sul suolo finché non trovai un sasso abbastanza grosso. Colpii forte, più volte, con una forza di cui non credevo essere capace. La cosa fece un gran fracasso lamentoso e cadde a terra. Si accesero più accendini e anche una torcia. Vidi i loro sguardi stupiti e insonnoliti , poi la cosa, accasciata come un sacco vuoto, con delle enormi corna che spuntavano. Avevo tracce di sangue dappertutto; lasciai cadere il sasso, esausto. , dicevano attoniti, , , , ,
, , , , , , ,, , .

ho detto risoluto Ho fatto rotolare il cervo sotto il mio saccoapelo senza dire una parola. Provavo a trascinarlo ma nonostante fosse un esemplare giovane e non troppo pesante non mi riusciva di smuoverlo. Il tizio che m'aveva colpito durante la partita di calcio s'è fatto avanti forse per un senso di rimorso. In due non era più così faticoso, così trascinammo il cervo fino al fiume mentre il sole iniziava a sorgere. Ci fermammo sulla ghiaia, arrotolammo i pantaloni per non bagnarli e facemmo rotolare il cervo piano sull'acqua fino a che non ne fu completamente ricoperto. Ebbi l'impressione di scorgere un ultimo rantolo di vita, il grosso corpo scosso da un tremito, ma il sole stava per sorgere quindi mi convinsi fosse un riflesso di luce. fece il ragazzo mentre tornavamo indietro.

In macchina, mentre viaggiavamo verso casa nel silenzio più totale, ho tenuto cautamente la testa girata verso il finestrino. Barbara verso quello opposto.

"Assassino"

Dopo circa ventiquattro ore di silenzio passate per lo più a guardarmi la punta dei piedi ho deciso che non avrei sopportato oltre quella situazione così l'ho chiamata. Del cervo non se ne parlò, m'accennò agli amici, con cui sarebbe uscita ancora; in ogni modo non avrebbero più tollerato la mia presenza. Come lavarsi le mani con lo sgrassatore industriale. La mattina dopo ho preso un pullman alla stazione semideserta in direzione Fairmont Blue. Sono sceso giù al fiume, solo, cercando con ansia, ma del cervo non c'era traccia. Non troppo lontano il saccoapelo, ancora sporco di sangue, giaceva tra i cespugli con un nugolo di mosche affaccendate. L'ho appallottolato e l'ho gettato nel fiume. Camminavo nella direzione in cui scorreva l'acqua trovando nient'altro che copertoni d'auto e sacchetti dell'immondizia. Ci ho messo un po' prima di radunare le forze per tornare alla fermata del pullman. La notte, al sicuro nella mia stanza, ho sognato d'alberi e di statuari e nobili cervi dai vividi occhi umani. Avvolti da una luce azzurrina giravano in tondo sferrando di tanto in tanto i loro sguardi pieni d'accusa; al centro del cerchio giaceva il loro simile deturpato, il giovane cervo che avevo ucciso. Come assassino sono davvero pessimo.





Riccardo Lionello



Nato a padova nel 24/07/1981 mi sono da subito dedicato a giochi di fantasia.

Campione nazionale di lego, ho poi sviluppato una formidabile tecnica

interpretativa presso tornei di tris. Nei fantastici anni '90 ho frequentato vari corsi di teatro, che sono poi sfociati in diploma accademico nel 2002.

Nello stesso periodo ho portato a termine brillantemente gli studi presso l'università di padova laureandomi in lettere. Deluso dalla vita scarsamente remunerativa dell'attor guitto, ho abbandonato prematuramente la carriera per dedicarmi alla declamazione insensata nella pubblica piazza. Trasferitomi nella capitale (nella capitale d'Italia) ho preso a lavorare con designer e fumettisti schizofrenici come addetto ai testi e al caffè (vd. a proposito

"fumettidellagleba.it") e presso radio locale come disinfestatore e ideatore di programmi (senza risultato alcuno). Oggi faccio le stesse cose di ieri. La vita non è altro che una abitudine alla (in)sofferenza. Vivo alle spalle di una donna, fumo un sacco di caffè e scrivo racconti per giovani vecchi.

Cordialmente, Riccardo Lionello in arte Riccardo Lionello