RECENSIONI
Dario Morgante
Propaganda. Sovvertire l'editoria.
Microlit, Pag. 16 Euro 2,00
Quando pensiamo al libro possiamo pensare a un bell'oggetto da possedere a casa. È un oggetto che somiglia alla pipa, e al bicchiere per il brandy. Anche a una cravatta. Un libro si indossa, e fa tanta distinzione. Certo, anche per via delle parole che contiene che, è risaputo, migliorano l'uomo meglio di uno di quei corsi per rafforzare la stima in se stessi, e diventare dei grandi bastardi disposti a tutto. Nella sauvage fantasia liberista della vita come lotta nella giungla, avere più informazioni serve a sconfiggere il nemico. Coi libri si diventa migliori, più ricchi e potenti. Il libro è un oggetto di classe: sociale.
Messa così la cosa, si capisce perché uno come Francesco da Assisi, che era un grande lettore di romanzi cavallereschi e liriche d'amore; che si riteneva un giullare (un poeta); che per il resto era di indole abbastanza mite, volesse bruciare tutti i libri: possedere denaro o libri è lo stesso: produce sfruttamento e barbarie.
E si capisce anche Dario Morgante, allora, che nel suo Propaganda propone la stessa soluzione. Anzi la rafforza, perché la nostra generazione ha conosciuto un salto legittimo nella storia della percezione del libro: oggi sappiamo che, distinzione per distinzione, il brandy è meglio di un libro; e che avere più informazioni, ora che la fantasia della giungla si è trasformata nella realtà della barbarie, non serve, perché per diventare più ricchi basta essere più ricchi. "Ho fatto le scuole di borgata, " scrive Morgante, " il liceo in un Istituto Tecnico Industriale. Io avevo i libri a casa, i miei compagni no. Io leggevo, loro no. Sono migliore di loro ora? No. Più ricco? Neppure". E ancora: " La società conosce il potere intrinseco dei libri, e per questo fa in modo che solo i figli dei ricchi possano accedervi. Per gli altri, tutti gli altri, i libri saranno ora e per sempre la storia di una coppia di deficienti in Lombardia in un periodo storico ignoto. Le cui vicende sono appassionanti quanto il campionato di calcio della Salernitana".
E allora, fatta questa considerazione, chi ama i libri, chi legge con passione le avventure che raccontano (quelle cavalleresche, o, suggerisce Morgante, quelle fantascientifiche di Urania, o, ancora, gli orrori di Bret Easton Ellis), ha ora in mano questa spassionata opportunità: bruciarli tutti. Propaganda è un piccolo saggio provocatorio, una lettera d'amore scritta con odio, e con l'animo nero di un Papini; ma con questa provocazione Morgante vuole aprire un discorso proficuo sulla crisi della nostra civiltà, e sul ruolo che la letteratura, e l'editoria, gioca in questa crisi. E le sue sono parole da meditare, che ci invitano ad azzerare lo statuto (sociale) in cui abbiamo relegato il libro, e a riscrivere il senso del suo commercio e godimento.
Un godimento schietto, diretto e vitale, parrebbe quello a cui ci invita l'autore, in cui riecheggia forse la convinzione di Benjamin, secondo la quale un'opera letteraria non serve a chi la legge, e nemmeno a chi la scrive: serve a se stessa. Sarebbe come pensare che un uomo, o un gatto, o una mucca, nascono per servire qualcuno. Con un libro, come con una persona, può succedere di divertirci o arrabbiarci o intristirci per quello che fa e dice. Si può diventare anarchici sentendo parlare Dante dell'impero; impaurirsi e ridere grazie alla facezie mistiche di Kafka; passare una bella giornata di gala con la Morante; godere a sentire stupidaggini e ritrovarsi a ponzare sulla morte insieme a Campanile. Potremo anche uscire da ognuno di questi incontri diversi, magari più vivi, ma nessuna di queste letture, nessuna di queste persone, migliorerà la nostra vita, ci renderà più buoni, né ci sarà utile a nulla.
Per la nostra mentalità utilitaristica questo invito a godere senza filtri del libro, può sembrare deludente e sconclusionato. Un provocazione e basta. Ma ben venga, se è capace di salvarci dalla noia di leggere perché lo dicono a scuola; o è buona educazione farlo; o dobbiamo indossare un libro in società, come una cravatta, che è sempre troppo stretta.
di Pier Paolo Di Mino
Messa così la cosa, si capisce perché uno come Francesco da Assisi, che era un grande lettore di romanzi cavallereschi e liriche d'amore; che si riteneva un giullare (un poeta); che per il resto era di indole abbastanza mite, volesse bruciare tutti i libri: possedere denaro o libri è lo stesso: produce sfruttamento e barbarie.
E si capisce anche Dario Morgante, allora, che nel suo Propaganda propone la stessa soluzione. Anzi la rafforza, perché la nostra generazione ha conosciuto un salto legittimo nella storia della percezione del libro: oggi sappiamo che, distinzione per distinzione, il brandy è meglio di un libro; e che avere più informazioni, ora che la fantasia della giungla si è trasformata nella realtà della barbarie, non serve, perché per diventare più ricchi basta essere più ricchi. "Ho fatto le scuole di borgata, " scrive Morgante, " il liceo in un Istituto Tecnico Industriale. Io avevo i libri a casa, i miei compagni no. Io leggevo, loro no. Sono migliore di loro ora? No. Più ricco? Neppure". E ancora: " La società conosce il potere intrinseco dei libri, e per questo fa in modo che solo i figli dei ricchi possano accedervi. Per gli altri, tutti gli altri, i libri saranno ora e per sempre la storia di una coppia di deficienti in Lombardia in un periodo storico ignoto. Le cui vicende sono appassionanti quanto il campionato di calcio della Salernitana".
E allora, fatta questa considerazione, chi ama i libri, chi legge con passione le avventure che raccontano (quelle cavalleresche, o, suggerisce Morgante, quelle fantascientifiche di Urania, o, ancora, gli orrori di Bret Easton Ellis), ha ora in mano questa spassionata opportunità: bruciarli tutti. Propaganda è un piccolo saggio provocatorio, una lettera d'amore scritta con odio, e con l'animo nero di un Papini; ma con questa provocazione Morgante vuole aprire un discorso proficuo sulla crisi della nostra civiltà, e sul ruolo che la letteratura, e l'editoria, gioca in questa crisi. E le sue sono parole da meditare, che ci invitano ad azzerare lo statuto (sociale) in cui abbiamo relegato il libro, e a riscrivere il senso del suo commercio e godimento.
Un godimento schietto, diretto e vitale, parrebbe quello a cui ci invita l'autore, in cui riecheggia forse la convinzione di Benjamin, secondo la quale un'opera letteraria non serve a chi la legge, e nemmeno a chi la scrive: serve a se stessa. Sarebbe come pensare che un uomo, o un gatto, o una mucca, nascono per servire qualcuno. Con un libro, come con una persona, può succedere di divertirci o arrabbiarci o intristirci per quello che fa e dice. Si può diventare anarchici sentendo parlare Dante dell'impero; impaurirsi e ridere grazie alla facezie mistiche di Kafka; passare una bella giornata di gala con la Morante; godere a sentire stupidaggini e ritrovarsi a ponzare sulla morte insieme a Campanile. Potremo anche uscire da ognuno di questi incontri diversi, magari più vivi, ma nessuna di queste letture, nessuna di queste persone, migliorerà la nostra vita, ci renderà più buoni, né ci sarà utile a nulla.
Per la nostra mentalità utilitaristica questo invito a godere senza filtri del libro, può sembrare deludente e sconclusionato. Un provocazione e basta. Ma ben venga, se è capace di salvarci dalla noia di leggere perché lo dicono a scuola; o è buona educazione farlo; o dobbiamo indossare un libro in società, come una cravatta, che è sempre troppo stretta.
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