RACCONTI
Leonello Ruberto
Allo Zoo di Berlino
Dopo due anni di lavoro continuato finalmente stavamo per partire per una breve vacanza. Che ci era stata regalata per fortuna, noi non ci avevamo pensato a fermarci, neanche per un paio di giorni, andare da qualche parte, vedere qualcosa. Ma come cazzo avevamo fatto?
Atterrammo a Berlino, e subito entrammo nel fiume calmo della città, subito ci prendemmo la nostra quotidianità, come se dovessimo viverci per sempre.
Ci dimenticammo di tutto, tenemmo solo a ricordarci che era la nostra vacanza, i nostri giorni di assoluta libertà, e così dovevamo essere e sentirci. Liberi di essere profondi, ma liberi anche di essere leggeri, liberi dalle nostre fissazioni, ma saldi con le nostre convinzioni.
E in giro dalla mattina alla sera. Berlino ha strade larghe, è grande, ma Berlino va camminata anche. E addirittura contro tutte le mie abitudini mangiavo un Käse Brezel camminando, io che detesto andare di fretta e mangiucchiare al volo, ma lì il mio passo non era frenetico, e i miei morsi erano morbidi. E me ne fottevo del muco che colava dal naso quando in piedi vicino a un Imbiss mi schiaffavo un bel Currywurst mit Brötchen con mezzo litro di birra. Di sera il ristorante tedesco con il boccale di Berliner Kindl davanti era il posto più piacevole del mondo.
Non mi sentivo un turista, non mi piace apparire come un turista del cazzo, però un po' era pure giusto che lo fossimo. Che ci comportassimo con un po' di leggerezza tipica dei coglioni in viaggio per la prima volta in un posto.
Non mi piace fare troppe foto, le cose mi piace vederle dal vivo per bene ora che ce le ho davanti. Però alla fine dei nostri giorni – forse anche per colpa mia – di foto ne avevamo fatte pochine.
L'ultima – purtroppo ultima: stava finendo – visita era allo Zoo. Non mi piace tanto nemmeno il concetto di Zoo in generale, mi mette a disagio. Semplice: gli animali potrebbero pure starsene a casa loro. Ma pare che non sia così semplice, e che prima di parlare mi debba informare meglio. Sarà, ma ora non ne ho voglia, chi se ne fotte, andiamoci allo Zoo e divertiamoci, è il nostro ultimo giorno.
Si parte bene: gli ippopotami mastodontici nell'acqua non possono che impressionarmi. E allora scaldiamoci, ridiamo come i bambini, passiamo in mezzo agli uccelli ce ci sfiorano le tempie, e tu che hai paura. Dai non fare la bambina, non ti fanno niente, passiamo di qua. E finalmente ti lascio fare tutte le foto che vuoi.
Io mi faccio pure prendere la mano: fammi una foto vicino alla giraffa. Che bello l'elefante, te ne faccio io una vicino all'elefante.
Lì: il cammello. Mi metto di profilo e faccio una stupida smorfia da cammello, e lo stupido sono io e non il cammello, tu scatta e la foto va in memoria. Non m'importa niente ora. Non voglio sentire niente.
Ma davanti al panda, anche se è troppo bello, non possono non sentire un solletico dietro la cintura dei pantaloni, alla base, dove finisce la schiena e comincia il culo.
Cedo, anche per la stanchezza.
I leoni, il loro fortissimo odore, dentro le gabbie, con tutta quella mole saltano come gatti e se ne stanno in alto con le zampe a penzolare. Ogni tanto qualcuno ruggisce pure.
Poi c'è una sequenza di scimmie, io sono stanco, mi fermo davanti alla gabbia e mi trovo uno sguardo che io leggo come triste. Mi sposto. Ma ancora, forse perché assomigliano a noi uomini, non vedo altro che sguardi tristi.
Ecco riconosco pure i pacifici bonobo, e li indico a te, tra i mie preferiti nei documentari.
Ecco: i documentari. Ecco. Perché cazzo non posso questi animali vederli da casa, se proprio ci tengo in 3D, ma perché qui? E che ci fanno tutte quelle foto in memoria, quante saranno?
Troppe, c'erano tante cose che io ho preferito vedere che fotografare, ma ora tutte queste foto di animali nello Zoo, che penseranno gli altri del nostro viaggio quando le vedranno? Niente, al massimo un'osservazione sul fatto che ne abbiamo fatte di più qui. Perché sono io il fissato con queste cose. Sono io quello pesante, che non sa essere leggero.
Ho un groppo allo stomaco, ma forse non ho tutti i torti: non sono solo. Lei mi chiede di andare via, non ce la fa più a vedere tutti quegli occhi tristi, dice lei. Io non userei parole così smielate, ma ve bene. Usciamone.
A casa scopriremo che in effetti le foto sono tante e impressionano, sono tristi, le migliori sono solo stupide, come quella del cammello. Sembra che lo abbiamo fatto apposta, sembra una campagna per sensibilizzare la gente sugli animali.
Ma per me sono solo delle foto che non vedo volentieri. Anche se mi dispiace sprecare il ricordo di quei giorni di serenità, che potrebbero contrastare il lavoro del cazzo che facciamo.
Un lavoro che lascerò. Lascerò tutto. Tornerò a Berlino. Nella mia Berlino. La camminerò tutta, ancora e ancora. Ripasserò sempre e sempre per gli stessi luoghi.
E lo Zoo sarà per me solo una stazione. Dove incrocerò, mischiati con uomini donne e bambini e viaggiatori, tanti tipi strani che se ne vanno raccattando bottiglie per farsi dare più di qualche spicciolo di cauzione alla cassa del supermercato Ullrich. Aperto tutti i giorni – anche di domenica – fino alle dieci di sera.
Atterrammo a Berlino, e subito entrammo nel fiume calmo della città, subito ci prendemmo la nostra quotidianità, come se dovessimo viverci per sempre.
Ci dimenticammo di tutto, tenemmo solo a ricordarci che era la nostra vacanza, i nostri giorni di assoluta libertà, e così dovevamo essere e sentirci. Liberi di essere profondi, ma liberi anche di essere leggeri, liberi dalle nostre fissazioni, ma saldi con le nostre convinzioni.
E in giro dalla mattina alla sera. Berlino ha strade larghe, è grande, ma Berlino va camminata anche. E addirittura contro tutte le mie abitudini mangiavo un Käse Brezel camminando, io che detesto andare di fretta e mangiucchiare al volo, ma lì il mio passo non era frenetico, e i miei morsi erano morbidi. E me ne fottevo del muco che colava dal naso quando in piedi vicino a un Imbiss mi schiaffavo un bel Currywurst mit Brötchen con mezzo litro di birra. Di sera il ristorante tedesco con il boccale di Berliner Kindl davanti era il posto più piacevole del mondo.
Non mi sentivo un turista, non mi piace apparire come un turista del cazzo, però un po' era pure giusto che lo fossimo. Che ci comportassimo con un po' di leggerezza tipica dei coglioni in viaggio per la prima volta in un posto.
Non mi piace fare troppe foto, le cose mi piace vederle dal vivo per bene ora che ce le ho davanti. Però alla fine dei nostri giorni – forse anche per colpa mia – di foto ne avevamo fatte pochine.
L'ultima – purtroppo ultima: stava finendo – visita era allo Zoo. Non mi piace tanto nemmeno il concetto di Zoo in generale, mi mette a disagio. Semplice: gli animali potrebbero pure starsene a casa loro. Ma pare che non sia così semplice, e che prima di parlare mi debba informare meglio. Sarà, ma ora non ne ho voglia, chi se ne fotte, andiamoci allo Zoo e divertiamoci, è il nostro ultimo giorno.
Si parte bene: gli ippopotami mastodontici nell'acqua non possono che impressionarmi. E allora scaldiamoci, ridiamo come i bambini, passiamo in mezzo agli uccelli ce ci sfiorano le tempie, e tu che hai paura. Dai non fare la bambina, non ti fanno niente, passiamo di qua. E finalmente ti lascio fare tutte le foto che vuoi.
Io mi faccio pure prendere la mano: fammi una foto vicino alla giraffa. Che bello l'elefante, te ne faccio io una vicino all'elefante.
Lì: il cammello. Mi metto di profilo e faccio una stupida smorfia da cammello, e lo stupido sono io e non il cammello, tu scatta e la foto va in memoria. Non m'importa niente ora. Non voglio sentire niente.
Ma davanti al panda, anche se è troppo bello, non possono non sentire un solletico dietro la cintura dei pantaloni, alla base, dove finisce la schiena e comincia il culo.
Cedo, anche per la stanchezza.
I leoni, il loro fortissimo odore, dentro le gabbie, con tutta quella mole saltano come gatti e se ne stanno in alto con le zampe a penzolare. Ogni tanto qualcuno ruggisce pure.
Poi c'è una sequenza di scimmie, io sono stanco, mi fermo davanti alla gabbia e mi trovo uno sguardo che io leggo come triste. Mi sposto. Ma ancora, forse perché assomigliano a noi uomini, non vedo altro che sguardi tristi.
Ecco riconosco pure i pacifici bonobo, e li indico a te, tra i mie preferiti nei documentari.
Ecco: i documentari. Ecco. Perché cazzo non posso questi animali vederli da casa, se proprio ci tengo in 3D, ma perché qui? E che ci fanno tutte quelle foto in memoria, quante saranno?
Troppe, c'erano tante cose che io ho preferito vedere che fotografare, ma ora tutte queste foto di animali nello Zoo, che penseranno gli altri del nostro viaggio quando le vedranno? Niente, al massimo un'osservazione sul fatto che ne abbiamo fatte di più qui. Perché sono io il fissato con queste cose. Sono io quello pesante, che non sa essere leggero.
Ho un groppo allo stomaco, ma forse non ho tutti i torti: non sono solo. Lei mi chiede di andare via, non ce la fa più a vedere tutti quegli occhi tristi, dice lei. Io non userei parole così smielate, ma ve bene. Usciamone.
A casa scopriremo che in effetti le foto sono tante e impressionano, sono tristi, le migliori sono solo stupide, come quella del cammello. Sembra che lo abbiamo fatto apposta, sembra una campagna per sensibilizzare la gente sugli animali.
Ma per me sono solo delle foto che non vedo volentieri. Anche se mi dispiace sprecare il ricordo di quei giorni di serenità, che potrebbero contrastare il lavoro del cazzo che facciamo.
Un lavoro che lascerò. Lascerò tutto. Tornerò a Berlino. Nella mia Berlino. La camminerò tutta, ancora e ancora. Ripasserò sempre e sempre per gli stessi luoghi.
E lo Zoo sarà per me solo una stazione. Dove incrocerò, mischiati con uomini donne e bambini e viaggiatori, tanti tipi strani che se ne vanno raccattando bottiglie per farsi dare più di qualche spicciolo di cauzione alla cassa del supermercato Ullrich. Aperto tutti i giorni – anche di domenica – fino alle dieci di sera.
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