Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Racconti » Cinque giri

Pagina dei contenuti


RACCONTI

Eva Ricciuti

Cinque giri

immagine
Seppure si concentrasse per riportare alla memoria le sensazioni di quegli attimi di ebbrezza dell'ultima ora di libertà delle sue intollerabili giornate, non ricordava nulla di lei se non il colore degli occhi: grigi. E la linea un po' triste dello sguardo che strideva con la piega decisa delle labbra sottili.

Erano pochi istanti ad ogni giro, ed inevitabilmente la pelle iniziava a bruciare nonostante il brivido che, gelido, risaliva la schiena fino alla nuca e ancora più su e poi dentro, fino a inibirgli i pensieri, che rimanevano lì, ibernati come mammuth tra i ghiacci, testimoni immobili di quegli attimi di eternità. L'affanno gli spezzava le gambe eppure fermarsi gli era impossibile. Sensazione straniera per chi come lui faceva della dominanza di sé un vessillo da sventolare a simbolo della propria integrità da personalità pubblica vecchio stile. Effige di autorevolezza accademica e compostezza.

Da 3 mesi andava avanti così: la scorgeva arrivare, gli mancava il respiro, le pupille si dilatavano fino ad accecarlo nella luce di lei, la superava lasciandola alle sue spalle. Non si voltava.

Il desiderio lo faceva struggere di giorno, quando nell'attesa di quell'incontro ingannava il tempo tormentando studenti timorosi e dottorandi ossequiosi, e lo frustrava di notte, nell'impossibilità del ricordo. Era tormento e delizia e lui si compiaceva nel definirsi una stilnovista pop.

Non riusciva a catturare nulla di lei, non riusciva nemmeno a fermarne l'immagine nelle retine, ad incastrarne il ricordo tra i gangli del cervello. Non ricordava né quanto fosse alta, né se fosse bionda o mora o come muovesse le gambe. Se correndo tenesse le braccia al petto o se fosse di quelli che le alternano elasticamente alla gambe. Di lei non riusciva a possedere alcun particolare fisico e nemmeno il conforto della rievocazione onirica interveniva in suo aiuto. Niente. Solo quegli occhi intensi che lo incatenavano indissolubilmente a quel rituale: cinque giorni a settimana, dalle 19,00 alle 20,00, per un totale di 5 giri. Con precisione svizzera.

Prima, la noia boriosa della cattedra all'università, ottenuta per discendenza dinastica.

Dopo, la noia coniugale della non più giovane moglie sposata per vicissitudine inattese ma prevedibili.

E in mezzo, il fiato rotto da due occhi intensi.

Posteggiò l'automobile al solito posto: ingresso secondario del parco, vicino alla panca di legno su cui si poggiava per lo stretching. Spense il cellulare e lo infilò nel cassetto del cruscotto, aprì lo sportello, poggiò i piedi a terra – sinistro, destro - e si guardò intorno. Uscì. Chiuse lo sportello, adagio, accompagnandolo con il braccio, inserì l'allarme - i finestrini si chiusero automaticamente con un BIIIP -, si voltò e sospirò.

Poggiando la scarpa destra sulla panca di legno verificò che i lacci fossero ben stretti, poi cambiò scarpa. Poggiò il tallone e si allungò goffamente per tentare - invano - di toccare il ginocchio con la fronte. Cambiò gamba e il tentativo fallì per la seconda volta. Poggiando le mani sui fianchi roteò il busto a destra e quindi a sinistra. Piegò la testa a destra – lentamente: ahiahiahi!- e a sinistra. Alzò le braccia al cielo e iniziò a rotearle a mò di mulinello, in avanti, indietro, in senso orario, antiorario, alternate in un inutile crawl atmosferico. Afferrò la punta del piede sinistro e in un tentativo di equilibrio stabile, tirò il tallone verso il gluteo, replicò a destra saltellando indegnamente per mantenersi in piedi. Pronto. Inspirò, espirò e iniziò: destro, sinistro, destro, sinistro. Varcò il cancello del parco.



«I primi cento metri sono i più difficili. La fatica mi sale su dalla pianta del piede e si blocca con un clack doloroso alle caviglie quando i legamenti si allungano dopo un passo pesante e quasi mi sembra che stiano per cedere spezzando l'andatura. Poi, dopo uno o due passi zoppicanti, le gambe iniziano a muoversi autonomamente e da lì tutto procede tranquillamente fino a quando da lontano non riconosco la figura di lei. Da quel momento il cuore accelera progressivamente i battiti fin quasi a scoppiare e il fiato si fa corto, come il respiro di un segugio che corre seguendo l'usta, e poi si blocca nella punta decisa. Un attimo di arresto cardiaco e lei passa. Finito. Fino al prossimo giro.

A volte accade all'improvviso cogliendomi impreparato, non la vedo fino a quando incrocio il suo sguardo e quello è il momento più doloroso della giornata. Perché se so che sta per arrivare mi posso preparare, ma quando lei spezza la corsa e si ferma per fare lo stretching o gli addominali, non ho il tempo e mi spiazza. Ecco, in quei momenti percepisco tutta l'inutilità dei miei 56 anni di vita. Come se l'aver avuto donne, l'essermi innamorato e stancato di loro, l'essermi sposato e stancato di lei, l'aver gioito per la nascita di Silvia e poi di Luca e l'essermi esaurito nell'affetto per loro all'ennesimo rifiuto del trascorrere del tempo riflesso nei loro inesorabili compleanni, non fosse mai esistito.

Non sono invaghito di lei, non mi giustifico con l'innamoramento. Non ho relazione con lei al di fuori di questi momenti e non la percepisco come passione. Semplicemente io non mi sento nei suoi confronti. Sono ... incollocabile. Fuori dal tempo e dallo spazio, fuori dalla morale, dal senso comune ... fuori. O forse oltre. Ecco, mi sento in un "oltre" in cui non ho consistenza e palpito al ritmo dei suoi passi elastici. E tutto sommato, credo proprio che se pure fosse un'altra non sarebbe diverso. In fin dei conti, per me, lei non è nemmeno una donna. Lei è un bel paio d'occhi. E io vorrei i suoi occhi per me. Vorrei che i suoi occhi si fermassero su di me. Un attimo. Vorrei che mi guardassero, vorrei che mi riconoscessero. Vorrei riconoscermi i quegli occhi, almeno per un'altra volta, diverso dagli altri. Perché io non voglio la sua figa da ragazza, io voglio i suoi occhi. Fermarmi e respirare guardandomi riflesso in quelle iridi grigie. Ecco. Giro 1».



Avanzando con passo elastico percorreva il sentiero sterrato nel senso opposto, nessun iPod legato a mò apache sul braccio, niente auricolari nelle orecchie piccole dai lobi intatti a distrarla dalla fatica. Inspirava dal naso, espirava dalla bocca semiaperta. E così via in un costante alternarsi di pieno e vuoto del seno piccolo e composto. Strizzato inutilmente in un reggiseno sportivo, probabilmente nero. Le gambe corte e muscolose si alternavano decise percuotendo ritmicamente la terra battuta, amplificate dal rimbalzo elastico delle scarpe tecniche, costose. Scarpe da uomo, con colori maschi e taglio funzionale, per niente inclini al vezzo. Lei correva, e nessuna frivolezza di donna trovava spazio tra i suoi passi. I capelli erano raccolti in una coda appena sopra la nuca, invisibile se non per il guizzo lezioso nonostante tutto, ora a destra, ora a sinistra delle spalle definite. Le braccia allineate lungo i fianchi fino al gomito, si piegavano ad angolo retto e si chiudevano nei pugni piccoli, serrati, con i pollici compostamente ripiegati sugli indici dalle unghie corte. Un alone di sudore disegnava la perfetta parete addominale laddove sarebbe dovuta esserci la curva morbida del grembo. Il viso lievemente congestionato per la fatica e lucido appena sopra le labbra. Lo incrociò e lui sentì sprigionarsi l'odore di shampoo dalla chioma, e un leggero sentore muschiato più giù. Era già lontana.



«Corre come se dovesse applicare una formula. Calibra gli elementi e li compone in modo preciso. Non c'è caos nel suo modo di essere. Sono mesi che la incrocio e da mesi esegue sempre gli stessi movimenti, lo stesso numero di giri, gli stessi esercizi, le stesse pause. Forse le stesse inspirazioni ed espirazioni. Potrebbe essere una scienziata, vorrei che fosse una ricercatrice, probabilmente è un militare, o forse è solo essere l'ennesima donna affetta da disturbi compulsivi ossessivi, e se adesso le taglio la strada interrompendo la sua routine viene presa da raptus di follia omicida e si apposta all'uscita del parco per mettermi sotto con l'auto. Bah, non lei, no! Questo è il ritratto di mia moglie, lei non può essere così. Non ancora. Magari fra 20 o 30 anni possiederà anche lei un povero cristo da vessare e a cui rinfacciare le gocce di piscio che cadono sulla tavoletta del water e lo costringerà a farla seduto regredendolo alla condizione di seienne. E forse gli rinfaccerà davanti agli amici quella volta che l'unica sera del mese in cui lei voleva "fare l'amore"- perché le donne non scopano mai, al massimo "hanno rapporti", ipocrite! – a lui non gli s'è alzato nemmeno a pregarlo in sanscrito, e riderà crudele. E quello si chiederà dove cazzo sia finita la complice dei primi anni, quella che a mare si sfilava il costume e glielo lanciava in faccia, sfidandolo a raggiungerla. Dove? Giro 2 ».



Diminuì gradatamente la frequenza del passo. Alzò il viso in un'espressione che gli sembrò di sfida, poi strinse clinicamente il pollice e l'indice sotto il mento e contò le pulsazioni del cuore. Regolari. Allargò le braccia in un gesto ampio ed elegante, il petto si empì d'ossigeno e tornò a svuotarsi quando le braccia si abbassarono fino a sfiorare le cosce tornite e sode. Portò le braccia al livello delle spalle, piego i gomiti e allineò le mani, le dita si mossero rapide a scostare una ciocca di capelli e si composero all'altezza delle labbra, ora umide della saliva che il movimento repentino della lingua vi aveva lasciato sopra. Iniziò una serie di rotazioni del busto e affondi sulle gambe. Piede destro avanti, busto ruotato a sinistra. Cambio. Piede sinistro avanti, busto ruotato a destra. E così via fino sfioragli il naso con il gomito proteso e rapido nel movimento fluido. Gettò l'aria dalla bocca e lui aspirò quel fiato caldo di lolita marziale. Proseguì oltre, offrendogli alla vista le spalle asciutte e la pelle serica del collo sotto cui i muscoli guizzavano come catarifrangenti su guardrail, ridestando l'attenzione di lui sopita dal ritmo banale della corsa.



«Odore caldo di menta, creatina e... sudore e shampoo e... figa depilata. Questo è il suo bouchet. Nota di testa, nota di cuore, nota di fondo. Persistente. Forse, in fin dei conti, non è vero che a tirarmi qui è il colore dei suoi occhi. A tirarmi qui è che mi tira e basta. Potrebbe essere mia figlia, cazzo! Ma forse è pure giusto che così sia. Mia figlia mi ha sottratto mia moglie irreversibilmente, è giusto che mi sia restituita una donna che abbia la freschezza di mia moglie all'età di mia figlia. Quella stronza mi ha condannato ad essere padre prima ancora di poter esaurire la voglia di essere marito, mi ha amputato la gioia di amare mia figlia, antagonista innocente, e senza appello mi ha sottratto la possibilità di essere uomo con la mia donna, con lei. Impossibile persino pensare che la donna con cui divido casa sia quella stessa Carla che ritraevo nuda sul letto sfatto nei miei versi innamorati. Quella che oggi mi guarda in cagnesco se la tocco, ieri suonava come uno strumento accordato al mio sfiorarla. E nemmeno l'odore delle altre l'ha risvegliata, che non per orgoglio, non per dolore o per l'umiliazione di sapermi con un'altra mi ha rivoluto, ma per fare da padre ai suoi figli. Ai suoi figli ...di me non gliene importa un cazzo! Giro 3».



Madida di sudore alternava scatti in velocità ad un andamento più rilassato. Gli occhi le si erano fatti più scuri e decisi, la fronte crucciata e il fiato corto la facevano sembrare ferina. Alternava movenze eleganti e misurate a scatti elastici e decisi come fosse un felino che, stanco della vita sedentaria da appartamento, sia fuggito per unirsi ai randagi su per i tetti, dentro i cassonetti. Era sporca, i polpacci inturgiditi insabbiati dalla polvere alzata dalla falcata, l'asciugamani intorno al collo, tirato fuori da chissà dove, macchiato di nero. Ogni tanto si toccava il fianco all'altezza della milza, strizzava gli occhi, faceva una smorfia mordendosi le labbra, sbuffava e tirava avanti. Caparbia. La volontà di portare a termine il percorso non avrebbe mai lasciato il passo alla stanchezza. Si voltò verso di lui, gli sguardi si incrociarono fugacemente, il battito di lei rimase costante e lento. Allenato.



«Ecco, ora riprende a battere. Ora riprende. Tum, tum, tum. Questo è il battito di un uomo vivo. Nonostante l'età, nonostante la devastante quotidianità, nonostante me stesso. Vivo, e che disperatamente si ostina a correre e se ne frega dei legamenti distrutti da anni di calcetto post-lavoro con colleghi obesi e dei menischi abbandonati su chissà quale crinale innevato, nella disperata ricerca del culo sodo della insegnante di sci. O forse è solo che sto cercando l'ultimo guizzo di gioventù prima che l'andropausa mi releghi definitivamente dalla mia già consolidata condizione di marito infelice e padre deluso a quella di nonno coglione. Piuttosto mi butto dalla finestra. Vuoi mettere il gusto di provocare la frustrazione di Carla che nemmeno mi potrebbe urlare contro che le ho sporcato il terrazzo? Perché il cane può cacare ovunque in casa, io non posso nemmeno pensare fumare in giardino. Come fosse solo sua quella cazzo di casa! E Silvia, magari si vergognerà dell'ennesima manifestazione eccentrica di quel padre che «Si sente giovane e fa lo splendido con le mie amiche». Ma che ne sai tu, Silvia, di quello che tuo padre ha dovuto fare per non pensare alla tue amichette quando giravate mezze nude per il giardino? E il sorriso sarcastico di Luca e quel suo «'A pà, cazzo fai?» detto con la faccia dei miei 20 anni, non mi faranno più far pensare che ai miei figli, sangue del mio sangue, i bastoni della mia vecchiaia, forse sarebbe stato meglio che la vita non gliela avessi data affatto. Che se fossi stato un po' più furbo, magari adesso invece dello sguardo spazientito di mia moglie per il ritardo «Che poi mi chiude il super!» e della Yaris rossa, guidavo una sportiva nera, e mi portavo a zonzo una ventenne col culo di marmo e nessun istinto di maternità. Giro 4».



Rallentò il passo gradatamente, allungò le gambe in affondi profondi abbandonando il busto verso il ginocchio in avanti, le braccia libere, il dorso delle mani a sfiorare il terreno e così procedendo si accostò alla panca grezza sotto il cartello con gli esercizi consigliati. Lo ignorò. Quel suggerimento era messo lì per quelli che lo sport lo fanno solo il sabato mattina. Si sedette. Incastrando le punte dei piccoli piedi sotto l'asse e facendo leva sui bicipiti femorali incrociò le braccia al petto e iniziò la sua routine di addominali. I capelli le cominciavano ad appiccicarsi sulla fronte, le narici dilatate ad inspirare, le labbra protese per espellere l'aria ad ogni ripetizione, guardava dritto di fronte a lei ed un reticolo di rughe le segnava gli occhi e la fronte regalandole un aspetto ora più maturo e deciso. Il grigio mutevole delle sue iridi virava velocemente ora al blu, ora al verde, ora al marrone, a seconda che osservasse il cielo, gli alberi, la terra. Ad ogni oggetto regalava un po' del suo prezioso grigio e da ogni oggetto assorbiva un briciolo del colore che rifletteva. Lui sperava di illuminarsi. Incrociò il suo sguardo un istante infinitesimale e si accorse di non riflettere nulla. La luce degli occhi di lei spariva quando si posavano su quel corpo di mezzetà, veniva assorbita come fosse nero. Si accorse di essere assenza di luce per lei. Si accorse di non riflettere più alcuna luce.



«E poi disperatamente cerchi di darti un tono, ti senti ancora piacente e decidi che ci vuoi provare lo stesso, anche se lei corre e nemmeno ti vede. Tu le arranchi dietro per 3 cazzo di mesi e lei nemmeno ti vede. Ed è allora che ci arrivi. Anche se hai una onorata carriera alle spalle, studi, titoli e riconoscimenti, solo quando «'na fregna moscia ti spiscia» – che lessico dal mio bambino!-, ci arrivi. Perché quando sei giovane non ci pensi che ogni volta che mangi, ogni volta che ti ubriachi, ogni santa volta che scopi potrebbe essere l'ultima. E quando sei vecchio, e lo sai che è così perché anche se ogni giorno ti ostini a non riconoscerti allo specchio nei tuoi peli bianchi, ti accorgi che lo stai vivendo, che il massimo che tu possa fare e tentare di stare ritto di fronte al tuo tramonto, non ci puoi fare nulla. A questo punto, ecco, in questo preciso punto, quando ti stai guardando allo specchio nei suoi occhi che non ti vedono al presente, realizzi che non te ne fai un cazzo di saperlo perché tanto anche se non sai nemmeno com'è successo, anche se non capisci perché ti ritrovi a correre appresso a una che ha l'età di tua figlia e non ti vede nemmeno – coglione! - piuttosto che tornare a casa con la cazzo di Yaris rossa di tua moglie per continuare a subire la sua voce querula e la sufficienza dei tuoi figli - quegli stronzi per cui hai sacrificato la tua vita!- ecco, piuttosto che tutto questo, ti fai prendere un infarto. E muori, sbattendo la faccia di cazzo che ti è venuta a dire «Sì, amore. Va bene amore» per una vita intera nella polvere del parco. Sperando che almeno così lei si accorgerà di te. O che quanto meno senta il botto. Giro 5».



Si alzò dalla panca e incurante della folla urlante che si chiudeva in circolo poco distante da lei, si spolverò i glutei dirigendosi verso l'uscita del parco. Erano le 20.00.





Eva Ricciuti



Nata a Catania. Dal 2003 collabora con la rivista di critica cinematografica "Effettonotteonline". Collabora inoltre con la rivista di ambito teatrale "Scenario" e con numerosi portali web.

Nel 2007 crea e pubblica il blog Una vita (quasi) normale. Anzi 2, divenuto romanzo per i tipi Albatros/Il Filo nel 2010 e con il quale ha vinto il Premio letterario Circe, una donna tante culture come migliore opera prima di narrativa umoristica.







CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube