ATTUALITA'
Stefano Torossi
Dicesi romanista
Dicesi Romanista non solo il tifoso sfegatato della Maggica, ma anche colui che si appassiona delle cose di Roma (arte, storia, aneddotica).
Ore 18 di martedì 31 agosto; a spasso nelle vicinanze del Ghetto, ci spunta la tentazione di passare a S. Maria in Campitelli. È l’ora perfetta per sbirciare una cosetta che molti, ne siamo sicuri, neanche sospettano che esista.
Dunque, dev’essere un pomeriggio senza nuvole altrimenti il prodigio non avviene; si entra in chiesa, si fa qualche passo nella penombra che sta calando, poi si alza lo sguardo il più possibile e in un finestrone ovale, in alto sopra l’altar maggiore, appare questa croce che sembra un neon fiammeggiante e invece non lo è (anche perché nel Seicento il neon, fiammeggiante o no, era ancora un po’ lontano).
Niente di artificiale. E’ una delle tante invenzioni coreografiche della magica, eccessiva epoca barocca.
Ecco il trucco: l’abside è orientata verso il tramonto. In un finestrone, proprio sopra l’altare maggiore, c’è un’apertura nella quale sono murati, in croce, due frammenti di una colonnina tortile romana.
Il sole che cala illumina l’alabastro di cui sono fatti; poi, mentre scivola lungo le scanalature, aggiunge fiamma e oro alla trasparenza del marmo e provoca questo che davvero si manifesta come un miracolo. Perfino per noi che conosciamo l’elettricità.
Figurarsi l’impressione su un ingenuo fedele di quattrocento anni fa abituato al massimo a un mozzicone di candela.
In questo caso il romanista è felice e orgoglioso.
Ma c’è anche il romanista addolorato. Stesso giorno, di mattina, eccoci alla Centrale Montemartini, che non è una centrale, perché è un museo. Anzi, una centrale lo è, ma non più in uso. Insomma, è dove si produceva l’elettricità di Roma all’inizio del ‘900. Abbandonata, poi recuperata; adesso c’è una magnifica raccolta di scultura romana.
In mezzo ai marmi sono rimasti i vecchi macchinari, le caldaie, le dinamo, e perfino, dopo un secolo, l’odore caratteristico dell’olio lubrificante.
Da tempo hanno inaugurato “Colori dei Romani”, una di quelle meritorie occasioni con cui un museo cerca (e spesso ne ha davvero bisogno) di ravvivare il proprio sex appeal per richiamare nuovi corteggiatori paganti.
Si tratta di tirar fuori dai magazzini, spolverare e riesporre con nuova sistemazione qualche gioiello di famiglia, oppure uno o due pezzi prestati da qualcuno del vicinato artistico. Niente di male, intendiamoci; anzi, se serve a smuovere il pubblico…
Così, dopo aver fatto un saluto ai due stuzzicanti lampioni di Duilio Cambellotti all’ingresso, entriamo e troviamo una serie di magnifici mosaici mai visti prima (tempo fa, nello stesso spazio, eravamo stati deliziati dall’invece vistissimo sarcofago di Crepereia Tryphaena con gli anellini, le collanine, la bambolina e lo sdolcinato patetismo della piccola morta alla vigilia delle nozze - una sposa bambina di due millenni fa?)
Ogni volta che entriamo alla Centrale noi, invece che inteneriti da Crepereia, ci troviamo fulminati da orrore, pena, smarrimento, quando rileggiamo i cartellini che documentano la provenienza delle altre mirabilissime opere di casa.
Quasi tutte ritrovate dove non avrebbero dovuto stare.
Un Apollo fatto a pezzi a colpi di mazza, e le schegge finite in un muretto a secco nel giardino di villa Rivaldi. Un busto imperiale recuperato insieme ai frammenti di altre magnifiche statue, tutte ugualmente violentate dalla mano di selvaggi umani ignari della bellezza. E dobbiamo rallegrarci che invece di finire in una fornace per diventare calce siano stati sepolti nelle fondamenta di una catapecchia medievale o nel muro di un convento. Almeno così qualcosa ci è arrivato.
Intendiamoci, lo stesso è successo nel civilissimo ‘800 di Roma Capitale: tutti a scavare per costruire il nuovo, spesso scadente, nessuno a fermarsi un attimo per conservare, o almeno catalogare il vecchio, spesso splendido.
Per fortuna, finito il tristissimo inventario dell’arte distrutta, appena si esce dal museo, nel cortile c’è il sorriso garantito dalla da noi tante volte citata scaletta verso il nulla. Guardare per credere. Quello in cima ai gradini è solido muro.
Ore 18 di martedì 31 agosto; a spasso nelle vicinanze del Ghetto, ci spunta la tentazione di passare a S. Maria in Campitelli. È l’ora perfetta per sbirciare una cosetta che molti, ne siamo sicuri, neanche sospettano che esista.
Dunque, dev’essere un pomeriggio senza nuvole altrimenti il prodigio non avviene; si entra in chiesa, si fa qualche passo nella penombra che sta calando, poi si alza lo sguardo il più possibile e in un finestrone ovale, in alto sopra l’altar maggiore, appare questa croce che sembra un neon fiammeggiante e invece non lo è (anche perché nel Seicento il neon, fiammeggiante o no, era ancora un po’ lontano).
Niente di artificiale. E’ una delle tante invenzioni coreografiche della magica, eccessiva epoca barocca.
Ecco il trucco: l’abside è orientata verso il tramonto. In un finestrone, proprio sopra l’altare maggiore, c’è un’apertura nella quale sono murati, in croce, due frammenti di una colonnina tortile romana.
Il sole che cala illumina l’alabastro di cui sono fatti; poi, mentre scivola lungo le scanalature, aggiunge fiamma e oro alla trasparenza del marmo e provoca questo che davvero si manifesta come un miracolo. Perfino per noi che conosciamo l’elettricità.
Figurarsi l’impressione su un ingenuo fedele di quattrocento anni fa abituato al massimo a un mozzicone di candela.
In questo caso il romanista è felice e orgoglioso.
Ma c’è anche il romanista addolorato. Stesso giorno, di mattina, eccoci alla Centrale Montemartini, che non è una centrale, perché è un museo. Anzi, una centrale lo è, ma non più in uso. Insomma, è dove si produceva l’elettricità di Roma all’inizio del ‘900. Abbandonata, poi recuperata; adesso c’è una magnifica raccolta di scultura romana.
In mezzo ai marmi sono rimasti i vecchi macchinari, le caldaie, le dinamo, e perfino, dopo un secolo, l’odore caratteristico dell’olio lubrificante.
Da tempo hanno inaugurato “Colori dei Romani”, una di quelle meritorie occasioni con cui un museo cerca (e spesso ne ha davvero bisogno) di ravvivare il proprio sex appeal per richiamare nuovi corteggiatori paganti.
Si tratta di tirar fuori dai magazzini, spolverare e riesporre con nuova sistemazione qualche gioiello di famiglia, oppure uno o due pezzi prestati da qualcuno del vicinato artistico. Niente di male, intendiamoci; anzi, se serve a smuovere il pubblico…
Così, dopo aver fatto un saluto ai due stuzzicanti lampioni di Duilio Cambellotti all’ingresso, entriamo e troviamo una serie di magnifici mosaici mai visti prima (tempo fa, nello stesso spazio, eravamo stati deliziati dall’invece vistissimo sarcofago di Crepereia Tryphaena con gli anellini, le collanine, la bambolina e lo sdolcinato patetismo della piccola morta alla vigilia delle nozze - una sposa bambina di due millenni fa?)
Ogni volta che entriamo alla Centrale noi, invece che inteneriti da Crepereia, ci troviamo fulminati da orrore, pena, smarrimento, quando rileggiamo i cartellini che documentano la provenienza delle altre mirabilissime opere di casa.
Quasi tutte ritrovate dove non avrebbero dovuto stare.
Un Apollo fatto a pezzi a colpi di mazza, e le schegge finite in un muretto a secco nel giardino di villa Rivaldi. Un busto imperiale recuperato insieme ai frammenti di altre magnifiche statue, tutte ugualmente violentate dalla mano di selvaggi umani ignari della bellezza. E dobbiamo rallegrarci che invece di finire in una fornace per diventare calce siano stati sepolti nelle fondamenta di una catapecchia medievale o nel muro di un convento. Almeno così qualcosa ci è arrivato.
Intendiamoci, lo stesso è successo nel civilissimo ‘800 di Roma Capitale: tutti a scavare per costruire il nuovo, spesso scadente, nessuno a fermarsi un attimo per conservare, o almeno catalogare il vecchio, spesso splendido.
Per fortuna, finito il tristissimo inventario dell’arte distrutta, appena si esce dal museo, nel cortile c’è il sorriso garantito dalla da noi tante volte citata scaletta verso il nulla. Guardare per credere. Quello in cima ai gradini è solido muro.
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