ATTUALITA'
Stefano Torossi
Fottuti e sfottuti
Qualche settimana fa ci siamo improvvisati ladri d’immagini: in due salette dei Musei Capitolini, accanto a dove ci si va a sposare, si era inaugurata una mostra intitolata “Arte ritrovata”, opere rubate, esportate, vendute illegalmente e poi recuperate. Severamente proibito fotografare. Più furbi dei guardiani abbiamo catturato l’immagine di questa magnifica Artemide Marciante. La storia è la seguente.
La statua originale, di grande bellezza e suggestione, scoperta da scavatori clandestini stava per passare il confine, pronta a essere piazzata in cambio di un bel pacco di milioni in uno di quei musei dove non si fanno domande sulla provenienza della merce: niente altro che un furto.
Ma, per confondere le acque (o forse per fare una truffetta supplementare a qualche sprovveduto), i ladri avevano pensato bene di fare delle copie dell’opera: prima una grossolana in gesso, e poi una presumibilmente migliore in marmo, rimasta però allo stato di bozza. Recuperate e in mostra anche le copie. Non solo ladri quindi, ma pure falsari.
Sfiliamoci per un momento dal grossolano mondo dei furti d’arte per entrare in quello molto più raffinato dei falsi; ecco che l’atmosfera si fa all’improvviso piccante, brillante, e, secondo la morale tradizionale, un po’ scorretta perché il gioco vede noi spettatori tutto sommato simpatizzanti per il falsario ai danni del compratore che alla fine si fa fregare per troppa presunzione propria o per troppa fiducia in qualcuno più furbo di lui.
Nel senso che il falso d’arte è, sì, un crimine, ma di quelli senza sangue, quindi, quando il TG del 23 agosto ci racconta che la collezione di un tipaccio del calibro di Massimo Carminati, noto personaggio della malavita romana, sequestrata ed esaminata è risultata composta solo da falsi, beh, ci facciamo tutti una bella risata: il boss fottuto e sfottuto. Sono soddisfazioni!
La stessa risata che ci siamo fatti all’epoca delle teste di Modigliani pescate nel fosso di Livorno. Anche qui, fior di tromboni dell’ambiente granitici nel dichiararne l’autenticità, per finire sbertucciati dai colleghi o addirittura dagli studenti inventori della burla.
Sull’argomento la nostra bibbia è “Troppo bello per essere vero”, un libro che vi raccomandiamo, il cui autore è Eric Hebborn, un brillante e ironico alcolista, nostro amico da anni, dotato dalla natura non solo di una particolare inclinazione per il vino, ma anche di un sopraffino talento artistico.
Eric ci racconta con illustrazioni e facendo i nomi dei citrulli caduti nella rete la sua vita da falsario, le sue tattiche di vendita, le sue ricerche per rintracciare la carta o l’inchiostro d’epoca, la sua cura nel non copiare un’opera già esistente, ma nell’impadronirsi della maniera dell’artista da imitare, in modo di creare un disegno perduto “alla Carracci”, un quadro non catalogato “alla Mantegna”.
Ma soprattutto il suo gusto, che man mano che leggiamo diventa anche nostro, nel beffare proprio quelli che avrebbero dovuto saperla più lunga di lui.
C’è, a chiusura del libro, una sua semplice ma non per questo meno saggia frase: “Non esistono opere false, ma solo false attribuzioni”.
A sostegno di questa conclusione ci viene in mente il Salvator Mundi, ritenuto l’ultimo capolavoro di Bernini ottantaduenne: prima destinato a Cristina di Svezia, poi finito in casa Odescalchi, poi scomparso nel nulla, poi riapparso e considerato una copia, poi riconosciuto come autentico, ma subito dopo disconosciuto dai grandi intenditori Fagiolo dell’Arco e Petrucci, che ora se ne sta tranquillo in una nicchia della chiesa di San Sebastiano sull’Appia Antica.
Eccolo: bello è bello, ma è così esageratamente berniniano che potrebbe benissimo essere un falso sovraccaricato per dargli il sapore dell’originale.
O per meglio aderire alla massima dell’amico Hebborn, non potrebbe essere un bel busto di un bravo artista barocco sconosciuto accompagnato da un’attribuzione falsa (o meglio, diciamo fantasiosa)?
La statua originale, di grande bellezza e suggestione, scoperta da scavatori clandestini stava per passare il confine, pronta a essere piazzata in cambio di un bel pacco di milioni in uno di quei musei dove non si fanno domande sulla provenienza della merce: niente altro che un furto.
Ma, per confondere le acque (o forse per fare una truffetta supplementare a qualche sprovveduto), i ladri avevano pensato bene di fare delle copie dell’opera: prima una grossolana in gesso, e poi una presumibilmente migliore in marmo, rimasta però allo stato di bozza. Recuperate e in mostra anche le copie. Non solo ladri quindi, ma pure falsari.
Sfiliamoci per un momento dal grossolano mondo dei furti d’arte per entrare in quello molto più raffinato dei falsi; ecco che l’atmosfera si fa all’improvviso piccante, brillante, e, secondo la morale tradizionale, un po’ scorretta perché il gioco vede noi spettatori tutto sommato simpatizzanti per il falsario ai danni del compratore che alla fine si fa fregare per troppa presunzione propria o per troppa fiducia in qualcuno più furbo di lui.
Nel senso che il falso d’arte è, sì, un crimine, ma di quelli senza sangue, quindi, quando il TG del 23 agosto ci racconta che la collezione di un tipaccio del calibro di Massimo Carminati, noto personaggio della malavita romana, sequestrata ed esaminata è risultata composta solo da falsi, beh, ci facciamo tutti una bella risata: il boss fottuto e sfottuto. Sono soddisfazioni!
La stessa risata che ci siamo fatti all’epoca delle teste di Modigliani pescate nel fosso di Livorno. Anche qui, fior di tromboni dell’ambiente granitici nel dichiararne l’autenticità, per finire sbertucciati dai colleghi o addirittura dagli studenti inventori della burla.
Sull’argomento la nostra bibbia è “Troppo bello per essere vero”, un libro che vi raccomandiamo, il cui autore è Eric Hebborn, un brillante e ironico alcolista, nostro amico da anni, dotato dalla natura non solo di una particolare inclinazione per il vino, ma anche di un sopraffino talento artistico.
Eric ci racconta con illustrazioni e facendo i nomi dei citrulli caduti nella rete la sua vita da falsario, le sue tattiche di vendita, le sue ricerche per rintracciare la carta o l’inchiostro d’epoca, la sua cura nel non copiare un’opera già esistente, ma nell’impadronirsi della maniera dell’artista da imitare, in modo di creare un disegno perduto “alla Carracci”, un quadro non catalogato “alla Mantegna”.
Ma soprattutto il suo gusto, che man mano che leggiamo diventa anche nostro, nel beffare proprio quelli che avrebbero dovuto saperla più lunga di lui.
C’è, a chiusura del libro, una sua semplice ma non per questo meno saggia frase: “Non esistono opere false, ma solo false attribuzioni”.
A sostegno di questa conclusione ci viene in mente il Salvator Mundi, ritenuto l’ultimo capolavoro di Bernini ottantaduenne: prima destinato a Cristina di Svezia, poi finito in casa Odescalchi, poi scomparso nel nulla, poi riapparso e considerato una copia, poi riconosciuto come autentico, ma subito dopo disconosciuto dai grandi intenditori Fagiolo dell’Arco e Petrucci, che ora se ne sta tranquillo in una nicchia della chiesa di San Sebastiano sull’Appia Antica.
Eccolo: bello è bello, ma è così esageratamente berniniano che potrebbe benissimo essere un falso sovraccaricato per dargli il sapore dell’originale.
O per meglio aderire alla massima dell’amico Hebborn, non potrebbe essere un bel busto di un bravo artista barocco sconosciuto accompagnato da un’attribuzione falsa (o meglio, diciamo fantasiosa)?
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