ATTUALITA'
Stefano Torossi
Frustrazione meteo
Frustrati dalla mancata frequentazione di iniziative mondane o culturali perché ogni volta che uno cerca di mettere il naso fuori: bum! ecco la quotidiana bomba d’acqua, accompagnata dalle temperature polari del maggio più freddo degli ultimi settant’anni (quindi, di nuovi eventi da raccontare, neanche l’ombra), ci dobbiamo rassegnare a piazzarvi la replica di uno dei nostri articoli del passato.
Ma è una proposta piena di caldo, sole, cicale e (come potrebbero mancare) ruderi. Siamo indecisi se sperare che non l’abbiate letta e quindi possiate restare sorpresi da questa vecchia novità, o sperare che l’abbiate letta ma dimenticata, ottenendo quindi lo stesso gradito risultato per noi (ma ingenerando in voi un lieve sospetto sulla tenuta delle vostre capacità mnemoniche). Fateci sapere.
Eccola, la replica:
ESTATE SULL’APPIA ANTICA
Dalle parti di Cecilia Metella c’è un simpatico archeo-bar. Ombra, buoni panini, birra fresca, il giornale da leggere: un paradiso. Come lo è, lì vicino, uno dei pochi spazi archeologici a ingresso gratuito: la Villa e il Circo di Massenzio.
Una frequentazione che amiamo e che ci affascina per una caratteristica che hanno alcuni luoghi arcaici della Roma del passato: la convivenza di storia, natura spontanea e lavoro dell’uomo.
E’ chiaro che il decrepito albero carico di prugne che vediamo contro lo sfondo delle torri del circo di Massenzio è stato piantato tempo fa in quello che allora era un normale frutteto, non certo un monumento da visitare.
E questo tono campestre e semplice si ripropone spesso, se non al Colosseo, certo in qualche angolo del Palatino, lungo la Via Appia, sotto gli acquedotti.
È prima di tutto la soddisfazione di scoprire un rudere dimenticato o un sentiero appena tracciato che zigzaga fra i piloni di un acquedotto. Ma non solo quella. Ce n’è un’altra, di natura meno culturale ma altrettanto sfiziosa: conquistarsi lo spuntino sul posto. Non c’è niente di più bello, a metà di una torrida giornata estiva, che andarsene in giro praticamente soli per i siti archeologici minori, quelli poco frequentati dai turisti tradizionali.
Come alternativa al panino con birra gelata del baretto, l’archeologo dilettante si fa un punto d’onore di scegliere i posti più assolati in assoluto, di aspettare il momento più ardente della giornata, quello in cui la mentuccia profuma di più, le cicale cantano più forte, l’alloro cede all’aria tutto l’aroma delle sue foglie. E poi buttarsi all’avventura.
Perché sul posto, a saperlo trovare, c’è, appunto, il premio gastronomico dell’archeologo dilettante.
Abbarbicati ai mattoni del circo di Massenzio, grappoli di gustosissime more di rovo. Lungo l’Acquedotto Felice, melograni. Al Parco di Tor Fiscale, uva bianca. Nel punto in cui l’Acquedotto Claudio emerge da sottoterra come un orgoglioso drago di tufo c’è addirittura un boschetto di fichi neri e bianchi.
Alcune di queste piante sono spontanee, altre sono resti di frutteti che fino a non molto tempo fa erano coltivati con la più naturale indifferenza, fra ninfei imperiali e torri medievali, dai contadini o dai frati di qualche convento proprietario della tenuta.
Per poi essere abbandonati al naufragio della campagna romana, affondata dalla malaria e dal latifondo improduttivo, e a loro volta abbandonare i loro frutti sopravvissuti al tempo fra le sgrinfie di visitatori un po’ ecologi e un po’ ladruncoli. Noi, insomma.
È davvero un privilegio unico gustare, appoggiati a un rudere caldo di sole, un fico maturo intiepidito dallo stesso sole che ne esalta lo zucchero. Come fauni del secolo ventunesimo illusi di vivere due millenni fa.
Certo, sotto e intorno agli archi oggi passano i treni diretti a sud. Sopra le nostre teste volano gli aerei decollati da Ciampino. Sono rumori moderni che hanno comunque un loro arcaico morbido avvicinarsi e allontanarsi, un loro crescere e calare ampio, pieno di echi: una risacca sonora che non ferisce l’orecchio all’improvviso come un colpo di claxon o una frenata.
Un’aggiunta di colore sonoro all’ambiente ancora naturale della periferia archeologica miracolosamente sopravvissuta insieme alle cicale, alle gazze, alle cornacchie.
Ma è una proposta piena di caldo, sole, cicale e (come potrebbero mancare) ruderi. Siamo indecisi se sperare che non l’abbiate letta e quindi possiate restare sorpresi da questa vecchia novità, o sperare che l’abbiate letta ma dimenticata, ottenendo quindi lo stesso gradito risultato per noi (ma ingenerando in voi un lieve sospetto sulla tenuta delle vostre capacità mnemoniche). Fateci sapere.
Eccola, la replica:
ESTATE SULL’APPIA ANTICA
Dalle parti di Cecilia Metella c’è un simpatico archeo-bar. Ombra, buoni panini, birra fresca, il giornale da leggere: un paradiso. Come lo è, lì vicino, uno dei pochi spazi archeologici a ingresso gratuito: la Villa e il Circo di Massenzio.
Una frequentazione che amiamo e che ci affascina per una caratteristica che hanno alcuni luoghi arcaici della Roma del passato: la convivenza di storia, natura spontanea e lavoro dell’uomo.
E’ chiaro che il decrepito albero carico di prugne che vediamo contro lo sfondo delle torri del circo di Massenzio è stato piantato tempo fa in quello che allora era un normale frutteto, non certo un monumento da visitare.
E questo tono campestre e semplice si ripropone spesso, se non al Colosseo, certo in qualche angolo del Palatino, lungo la Via Appia, sotto gli acquedotti.
È prima di tutto la soddisfazione di scoprire un rudere dimenticato o un sentiero appena tracciato che zigzaga fra i piloni di un acquedotto. Ma non solo quella. Ce n’è un’altra, di natura meno culturale ma altrettanto sfiziosa: conquistarsi lo spuntino sul posto. Non c’è niente di più bello, a metà di una torrida giornata estiva, che andarsene in giro praticamente soli per i siti archeologici minori, quelli poco frequentati dai turisti tradizionali.
Come alternativa al panino con birra gelata del baretto, l’archeologo dilettante si fa un punto d’onore di scegliere i posti più assolati in assoluto, di aspettare il momento più ardente della giornata, quello in cui la mentuccia profuma di più, le cicale cantano più forte, l’alloro cede all’aria tutto l’aroma delle sue foglie. E poi buttarsi all’avventura.
Perché sul posto, a saperlo trovare, c’è, appunto, il premio gastronomico dell’archeologo dilettante.
Abbarbicati ai mattoni del circo di Massenzio, grappoli di gustosissime more di rovo. Lungo l’Acquedotto Felice, melograni. Al Parco di Tor Fiscale, uva bianca. Nel punto in cui l’Acquedotto Claudio emerge da sottoterra come un orgoglioso drago di tufo c’è addirittura un boschetto di fichi neri e bianchi.
Alcune di queste piante sono spontanee, altre sono resti di frutteti che fino a non molto tempo fa erano coltivati con la più naturale indifferenza, fra ninfei imperiali e torri medievali, dai contadini o dai frati di qualche convento proprietario della tenuta.
Per poi essere abbandonati al naufragio della campagna romana, affondata dalla malaria e dal latifondo improduttivo, e a loro volta abbandonare i loro frutti sopravvissuti al tempo fra le sgrinfie di visitatori un po’ ecologi e un po’ ladruncoli. Noi, insomma.
È davvero un privilegio unico gustare, appoggiati a un rudere caldo di sole, un fico maturo intiepidito dallo stesso sole che ne esalta lo zucchero. Come fauni del secolo ventunesimo illusi di vivere due millenni fa.
Certo, sotto e intorno agli archi oggi passano i treni diretti a sud. Sopra le nostre teste volano gli aerei decollati da Ciampino. Sono rumori moderni che hanno comunque un loro arcaico morbido avvicinarsi e allontanarsi, un loro crescere e calare ampio, pieno di echi: una risacca sonora che non ferisce l’orecchio all’improvviso come un colpo di claxon o una frenata.
Un’aggiunta di colore sonoro all’ambiente ancora naturale della periferia archeologica miracolosamente sopravvissuta insieme alle cicale, alle gazze, alle cornacchie.
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