RECENSIONI
Stefano Casi
I teatri di Pasolini
Ubulibri, Pag.318 Euro 26,00
Non picciol libro, e costoso - sul metro di quelli che non vorrebbero rinunciare al sodo dell'istruzione, e però combattono col ventisette. Ma abbordabile, e necessario; e di fresca, corrente lettura - malgrado questa mia copia sia fallàta, impedendomi tra l'altro di refertare sul numero di pagine, e sull'ultimo capitolo dedicato alla fortuna del Pasolini tragico - com'è noto a chi già ha frequentato alcune uscite dell'Autore, (1) bravo nell'essere saggista tenendo conto della controparte: l'acquirente incuriosito da uno dei percorsi intellettuali del più intellettuale e italiano fra gli intellettuali italioti, e assieme dallo sfondo sul quale il detto cammino si svolgeva, dal quale traeva - magari per contrapposizione - motivi, linfa, giustifiche, spunti da rielaborare altrove. Ma bravo anche nel rimarcare, sostanziandoli, aspetti dell'Autore in contrasto con i dettagli d'una sua facile, corrente (corriva, vulgata) volgarizzazione.
Fatto si è che il primo testo - acerbo, ma non disprezzabile - che il sedicenne Pasolini offre al giudizio altrui è proprio un lavorino teatrale: La sua gloria. Fascista - fascistissimo! - è il concorso al quale partecipa; sozzamente retorici gli istinti patriottardi che dovrebbe solleticare - e che portano alla premiazione i rivali, sebbene la sua fatica non passi inosservata; eppure il giovanino, aggrappandosi a un suo mondo fatto di poetica ingenuità, vissuto materno, piccolezza senza piccineria, crea un acerbo dramma in cui alcuni sensi che prevarranno nel poeta maturo si manifestano in "core".
Da qui, e per tutta la vita, il casarsese adottivo intratterrà con la drammaturgia un rapporto continuo, fecondo, per nulla trascurabile in intenti e risultati, affatto operazione di retroguardia - o, peggio, d'esibizione pretestuosa dell'io sbudellato alquanto. Anzi, Casi sottolinea in più d'un luogo quanto le pasoliniane concezione del personaggio come "portatore di testo" e drammaturgia coscientizzante del rito e del mito (pp. 199-200) appartengano a un idioma internazionale (p.192) che coinvolge Yeats, Eliot, Claudel sino a Mishima, Peter Weiss ed Heiner Müller. (p.190) E che solo una malintesa idea naturalistico-borghese (al meglio, pirandellesca avanti che pirandelliana) del teatro ha potuto far ignorare questi lavori (p.193), avallando fra i critici (e, di riflesso, nel poeta stesso (p.187)) quella che per l'Autore è la fola dell' "antiteatralità " (pp.183-5) del corpus drammaturgico di Pasolini.
Non è, questa, l'unica polemica nel testo: Casi ci fa apprendere, attraverso la sua esegesi, che, al contrario di quel ch'è catechismo nel santino Pasolini, e a cui, infatuato di freudismo, il maestro medesimo die' corso legale, il suo rapporto con la madre messo in scena è nodo ben più arduo da sciogliere, quasi cognizione gaddiana, che non un semplice tropismo frocista. Leggo nell' Ubulibro: "Contrariamente agli stereotipi che lo vorrebbero "fissato" sulla madre e sull'amore materno, Pasolini mostra qui (ne "I turcs tal Friúl", nota mia) di utilizzare questa figura (la madre, nota mia) con assoluta libertà d'ispirazione e spesso con sarcasmo". (p. 55) Da ciò e da altri segni strumentali inerenti al personaggio-madre, viene che "l'opera di Pasolini non può essere letta come un diario o una confessione, ma come un'opera artistica e creativa, che si nutre della soggettività dell'autore, ma reinventandola e trasfigurandola". (p. 55)
Di più: se mai un'accusa venne a insidiare il poeta delle Ceneri, fu quella di avere una "visione del passato da "réclame" del budino-fatto-proprio-come-ai-tempi-della-nonna". (2) Dichiara invece Casi: "Altro che ripiegamento nostalgico" (p. 119) si evince dalla stretta analisi delle posizioni pasoliniane. Piuttosto "necessità d'una (...) profonda conoscenza" (ivi) dell'idioletto tecnocratico ch'è la nuova questione linguistica offerta al letterato italiano (ben fuori e anzi contro l'Arcadia) la quale implica una conoscenza "con assoluta chiarezza e coraggio" della "realtà nazionale" che la "produce". (ibidem)
Una diatriba, questa, che scova, scuote e rilegge addentellati insino nella personale moralità del regista della Vita: e oppone al senso comune de' burgravij che dichiarava "il marxista che abitava all'EUR e che viaggiava su di un mezzo non certo proletario", (3) la consapevolezza pasolinesca "che non bisognava impostare mai una lettera se non dal centro storico". (p.89) Immerdati d'apparenza, cioè d'irrealtà, (quella che fa lor dire "calzature" invece che "scarpe", e squinziamente la "sorchetta", il vecchio passatempo natalizio, ribattezzare "topetta") i borghesi avrebbero avuto una scusa per non prenderlo sul serio, per classificarlo da strambo o naif - o peggio d'affibbiargli un sostanziale fallimento - fosse rimasto nelle borgate. Per dirgli: attacchi noi borgesi poiché non sei capace di raggiungere i nostri risultati, adire il nostro standard, salire la nostra vetta. L'uva è acerba.
Macché: come Talete filosofo Milèsio - il quale, comprando raccolti d'olive prima che germinassero alla loro stagione mostrò ch'un pensatore valeva a diventar ricco strafottente, desiderandolo - il Pasolini tragico e morale in ogni attimo era buono a certificare che l'inquattrinarsi non era per nulla fuori dalla sua portata. E dunque se eleggeva sparuti come compagni e sparsa come ideologia non era di sicuro per incapacità a realizzare ricchezza. Lorché proteggevasi la media-classe col doppio vincolo di Bateson, (4) foriero di schizofrenia (e sintomo d'italico paragulìsmo): t'arricchisci? Hai tradito il proletariato. Non t'arricchisci? Critichi i danarosi siccome incapace a eguagliarli. Invano: son posizioni che l'una e l'altra s'annullano. Volerle sensate, allora, perché?
Dunque: ben moderno, anzi tanto da spiazzare persino le avanguardie, il Pasolini tragico struttura il nucleo centrale della sua produzione - ferma restando la centralità della riflessione prima sulla lingua della realtà, indi sul corpo-corpus - su metateatralità, tensione pedagogica, sexpolitica (omologazione linguistica = normalizzazione sessuale), e proprio politica (non dar forma borghese a una realtà sfuggente, ma forma sfuggente a una realtà borghese - perciò ad es. impiego del verso come veicolo, in funzione antinaturalistica); "scenografia verbale", che recupera da un lato la potenza illustratrice della parola, dall'altro stimola la partecipazione più autentica dello spettatore, chiamandolo a collaborare al testo; scomparsa del personaggio "classico" (cioè, teatral-borghese) e frammentazione del protagonista - e qui Casi affronta un'ulteriore polemica con chi "considera i personaggi teatrali (e non solo, nota mia) di Pasolini come la proiezione del loro autore", (p.199) notando che in quest'ambito (che non è frequentato solo dal poeta, bensì "da una vasta area della drammaturgia", p. 200) "il personaggio non esiste né prima né oltre le parole stesse che pronuncia, e che sono la vera misura delle cose e della realtà". (ivi) Il testo è una partitura, e l'individualità del personaggio ne è funzione diretta - vox clamans: le parole sono personaggi, (p. 228) dunque, in curiosa (ma forse non troppo) aderenza a una convinzione milaniana: ""parole come personaggi" si chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale". (5) E nel suo Edipo da Seneca, Peter Brook costringe gli attori "a declamare parole in una insistita fissità". (p. 229)
Attraversa, questa drammaturgia, e s'organizza, su un ultimo nodo della prassi retorica pasoliniana: la ricerca dell'inconsumabilità (l'"inconsùtile" bianciardiano), la lotta contro la fagocitazione nella "chiacchiera". Storie aberranti, linguaggio poetico, e insinuante sacralità (p. 194), costituiscono un "tragico" che è "rottura della morale del progresso e della produzione": (ivi) sono l'"altrove" che ha sostituito la piccola patria fèlibrige, il país-polis casarsese, (p. 53) (6) la borgata romana, l'Africa ultima alternativa - ansiose d'omogeneizzarsi - con un luogo infine "irriducibile". Certo e immediatamente al teatro "normale", come avvertirono gli addetti ai lavori; (p. 282) ma pure, credo, e in minor misura del cinema, al mondo che quel teatro rappresentava.
Come si vede, Casi ha offerto al suo Seguace una dinamica prova di saperlo condurre sul percorso assai accidentato d'un'intelligenza di risonanze magnetiche e decisamente in progress - con i ripensamenti, le contraddizioni, le incertezze che ciò comporta, fornendoci non un altro libro su Pasolini, ma un libro sul Pasolini alt(r)o, e inesausto a dar prova di sé eleggendo di volta in volta il mezzo che più gli pareva adatto al fine. Finché non venne stroncato da "mano fraterna nemica".
1) Stefano Casi (a cura di), Desiderio di Pasolini, Sonda, Torino 1990; Stefano Casi, Pasolini, un'idea di teatro, Campanotto, Pasian di prato (UD), 1990 (inutile dire che il lavoro che si recensisce ha parecchio a vedere con questo);
2) Giovanni Dall'Orto, Leggere omosessuale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, p. 39;
3) riportato per missìva d'un lettore da Domenico Nodari, in AA. VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, p. 97;
4) Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1986, pp. 156, 169 e 264;
5) indirizzata per la (mai avvenuta) pubblicazione al direttore del "Giornale del mattino" di Firenze, al ventotto marzo 1956. Ora in Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988(5), p. 65;
6) "per caso, per caso e tremando", si noti che il furlano " país" (paese) è ben simile alla parola greca che indica il ragazzino.
di Marco Lanzòl
Fatto si è che il primo testo - acerbo, ma non disprezzabile - che il sedicenne Pasolini offre al giudizio altrui è proprio un lavorino teatrale: La sua gloria. Fascista - fascistissimo! - è il concorso al quale partecipa; sozzamente retorici gli istinti patriottardi che dovrebbe solleticare - e che portano alla premiazione i rivali, sebbene la sua fatica non passi inosservata; eppure il giovanino, aggrappandosi a un suo mondo fatto di poetica ingenuità, vissuto materno, piccolezza senza piccineria, crea un acerbo dramma in cui alcuni sensi che prevarranno nel poeta maturo si manifestano in "core".
Da qui, e per tutta la vita, il casarsese adottivo intratterrà con la drammaturgia un rapporto continuo, fecondo, per nulla trascurabile in intenti e risultati, affatto operazione di retroguardia - o, peggio, d'esibizione pretestuosa dell'io sbudellato alquanto. Anzi, Casi sottolinea in più d'un luogo quanto le pasoliniane concezione del personaggio come "portatore di testo" e drammaturgia coscientizzante del rito e del mito (pp. 199-200) appartengano a un idioma internazionale (p.192) che coinvolge Yeats, Eliot, Claudel sino a Mishima, Peter Weiss ed Heiner Müller. (p.190) E che solo una malintesa idea naturalistico-borghese (al meglio, pirandellesca avanti che pirandelliana) del teatro ha potuto far ignorare questi lavori (p.193), avallando fra i critici (e, di riflesso, nel poeta stesso (p.187)) quella che per l'Autore è la fola dell' "antiteatralità " (pp.183-5) del corpus drammaturgico di Pasolini.
Non è, questa, l'unica polemica nel testo: Casi ci fa apprendere, attraverso la sua esegesi, che, al contrario di quel ch'è catechismo nel santino Pasolini, e a cui, infatuato di freudismo, il maestro medesimo die' corso legale, il suo rapporto con la madre messo in scena è nodo ben più arduo da sciogliere, quasi cognizione gaddiana, che non un semplice tropismo frocista. Leggo nell' Ubulibro: "Contrariamente agli stereotipi che lo vorrebbero "fissato" sulla madre e sull'amore materno, Pasolini mostra qui (ne "I turcs tal Friúl", nota mia) di utilizzare questa figura (la madre, nota mia) con assoluta libertà d'ispirazione e spesso con sarcasmo". (p. 55) Da ciò e da altri segni strumentali inerenti al personaggio-madre, viene che "l'opera di Pasolini non può essere letta come un diario o una confessione, ma come un'opera artistica e creativa, che si nutre della soggettività dell'autore, ma reinventandola e trasfigurandola". (p. 55)
Di più: se mai un'accusa venne a insidiare il poeta delle Ceneri, fu quella di avere una "visione del passato da "réclame" del budino-fatto-proprio-come-ai-tempi-della-nonna". (2) Dichiara invece Casi: "Altro che ripiegamento nostalgico" (p. 119) si evince dalla stretta analisi delle posizioni pasoliniane. Piuttosto "necessità d'una (...) profonda conoscenza" (ivi) dell'idioletto tecnocratico ch'è la nuova questione linguistica offerta al letterato italiano (ben fuori e anzi contro l'Arcadia) la quale implica una conoscenza "con assoluta chiarezza e coraggio" della "realtà nazionale" che la "produce". (ibidem)
Una diatriba, questa, che scova, scuote e rilegge addentellati insino nella personale moralità del regista della Vita: e oppone al senso comune de' burgravij che dichiarava "il marxista che abitava all'EUR e che viaggiava su di un mezzo non certo proletario", (3) la consapevolezza pasolinesca "che non bisognava impostare mai una lettera se non dal centro storico". (p.89) Immerdati d'apparenza, cioè d'irrealtà, (quella che fa lor dire "calzature" invece che "scarpe", e squinziamente la "sorchetta", il vecchio passatempo natalizio, ribattezzare "topetta") i borghesi avrebbero avuto una scusa per non prenderlo sul serio, per classificarlo da strambo o naif - o peggio d'affibbiargli un sostanziale fallimento - fosse rimasto nelle borgate. Per dirgli: attacchi noi borgesi poiché non sei capace di raggiungere i nostri risultati, adire il nostro standard, salire la nostra vetta. L'uva è acerba.
Macché: come Talete filosofo Milèsio - il quale, comprando raccolti d'olive prima che germinassero alla loro stagione mostrò ch'un pensatore valeva a diventar ricco strafottente, desiderandolo - il Pasolini tragico e morale in ogni attimo era buono a certificare che l'inquattrinarsi non era per nulla fuori dalla sua portata. E dunque se eleggeva sparuti come compagni e sparsa come ideologia non era di sicuro per incapacità a realizzare ricchezza. Lorché proteggevasi la media-classe col doppio vincolo di Bateson, (4) foriero di schizofrenia (e sintomo d'italico paragulìsmo): t'arricchisci? Hai tradito il proletariato. Non t'arricchisci? Critichi i danarosi siccome incapace a eguagliarli. Invano: son posizioni che l'una e l'altra s'annullano. Volerle sensate, allora, perché?
Dunque: ben moderno, anzi tanto da spiazzare persino le avanguardie, il Pasolini tragico struttura il nucleo centrale della sua produzione - ferma restando la centralità della riflessione prima sulla lingua della realtà, indi sul corpo-corpus - su metateatralità, tensione pedagogica, sexpolitica (omologazione linguistica = normalizzazione sessuale), e proprio politica (non dar forma borghese a una realtà sfuggente, ma forma sfuggente a una realtà borghese - perciò ad es. impiego del verso come veicolo, in funzione antinaturalistica); "scenografia verbale", che recupera da un lato la potenza illustratrice della parola, dall'altro stimola la partecipazione più autentica dello spettatore, chiamandolo a collaborare al testo; scomparsa del personaggio "classico" (cioè, teatral-borghese) e frammentazione del protagonista - e qui Casi affronta un'ulteriore polemica con chi "considera i personaggi teatrali (e non solo, nota mia) di Pasolini come la proiezione del loro autore", (p.199) notando che in quest'ambito (che non è frequentato solo dal poeta, bensì "da una vasta area della drammaturgia", p. 200) "il personaggio non esiste né prima né oltre le parole stesse che pronuncia, e che sono la vera misura delle cose e della realtà". (ivi) Il testo è una partitura, e l'individualità del personaggio ne è funzione diretta - vox clamans: le parole sono personaggi, (p. 228) dunque, in curiosa (ma forse non troppo) aderenza a una convinzione milaniana: ""parole come personaggi" si chiama una tua rubrica. Ecco, questo è appunto il mio ideale sociale". (5) E nel suo Edipo da Seneca, Peter Brook costringe gli attori "a declamare parole in una insistita fissità". (p. 229)
Attraversa, questa drammaturgia, e s'organizza, su un ultimo nodo della prassi retorica pasoliniana: la ricerca dell'inconsumabilità (l'"inconsùtile" bianciardiano), la lotta contro la fagocitazione nella "chiacchiera". Storie aberranti, linguaggio poetico, e insinuante sacralità (p. 194), costituiscono un "tragico" che è "rottura della morale del progresso e della produzione": (ivi) sono l'"altrove" che ha sostituito la piccola patria fèlibrige, il país-polis casarsese, (p. 53) (6) la borgata romana, l'Africa ultima alternativa - ansiose d'omogeneizzarsi - con un luogo infine "irriducibile". Certo e immediatamente al teatro "normale", come avvertirono gli addetti ai lavori; (p. 282) ma pure, credo, e in minor misura del cinema, al mondo che quel teatro rappresentava.
Come si vede, Casi ha offerto al suo Seguace una dinamica prova di saperlo condurre sul percorso assai accidentato d'un'intelligenza di risonanze magnetiche e decisamente in progress - con i ripensamenti, le contraddizioni, le incertezze che ciò comporta, fornendoci non un altro libro su Pasolini, ma un libro sul Pasolini alt(r)o, e inesausto a dar prova di sé eleggendo di volta in volta il mezzo che più gli pareva adatto al fine. Finché non venne stroncato da "mano fraterna nemica".
1) Stefano Casi (a cura di), Desiderio di Pasolini, Sonda, Torino 1990; Stefano Casi, Pasolini, un'idea di teatro, Campanotto, Pasian di prato (UD), 1990 (inutile dire che il lavoro che si recensisce ha parecchio a vedere con questo);
2) Giovanni Dall'Orto, Leggere omosessuale, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984, p. 39;
3) riportato per missìva d'un lettore da Domenico Nodari, in AA. VV., Dedicato a Pier Paolo Pasolini, Gammalibri, Milano 1976, p. 97;
4) Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi, Milano 1986, pp. 156, 169 e 264;
5) indirizzata per la (mai avvenuta) pubblicazione al direttore del "Giornale del mattino" di Firenze, al ventotto marzo 1956. Ora in Lettere di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano 1988(5), p. 65;
6) "per caso, per caso e tremando", si noti che il furlano " país" (paese) è ben simile alla parola greca che indica il ragazzino.
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