CLASSICI
Alfredo Ronci
L’ira del tifoso? Forse, ma no: “L’allenatore” di Salvatore Bruno.
Eccoci di nuovo ad affrontare un tema che, anche in queste nostre pagine di studio, abbiamo già affrontato anche se in maniera diversa. Si tratta di parlare di un libro che, per varie ed anche private ragioni, è rimasto l’unico testo di un autore che ormai è finito nel dimenticatoio ma che rispolveriamo perché lo merita e soprattutto perché è finito nel sacco dei più prestigiosi letterati del suo tempo: Salvatore Bruno.
Il romanzo (l’unico) che ha scritto s’intitola L’allenatore. E dov’è il tema che abbiamo già affrontato e che qui si ripresenta in un modo più o meno vistoso? Per noi è quello della ripetitività frustrante e angosciosa di un problema, che sì fa parte anche del testo, ma che non è assolutamente la chiave di volta dell’intera operazione (chissà cosa avrebbe detto Bruno di questa affermazione).
Se provate a fare un giro su Internet e cercare qualcosa che riguarda L’allenatore, troverete soltanto, e dico soltanto, affermazioni che riguardano il calcio, meglio ancora, l’ossessione di Bruno per il calcio, e soprattutto per la Juventus, la sua squadra del cuore. C’è persino un illustre, anzi illustrissimo, critico letterario, Walter Pedullà, che in un suo scritto dal titolo La satira menippea degli anni Sessanta dice: Bruno nell’Allenatore gioca col linguaggio del calcio.
Troppo? Forse sì. Ma andiamo con ordine. Il libro esce nel 1963, e sapete tutti cosa vuol dire far uscire un testo in quegli anni, e soprattutto in quell’anno. Tanto che per alcuni osservatori, L’allenatore potrebbe inserirsi perfettamente nel percorso narrativo del Gruppo ’63.
Troppo anche qui? Oseremmo dire di sì. L’allenatore è solo un testo che, ripetiamo, ossessivamente mostra la crudezza psicologica, e non solo, di un uomo, e il resoconto che fanno gli altri di questa crudezza.
E’ formato da 5 capitoli, ognuno dei quali dipana la condizione dell’uomo sotto osservazione, e in qualche modo rende idea di quello che in effetti è (era) lo scrittore.
Salvatore Bruno ebbe la fortuna d’imbattersi in personaggi che in qualche modo lo appoggiarono. Fra tutti Geno Pampaloni e ancora di più il giovane, ma non per questo meno consumato, Cesare Garboli, il quale redigeva una bandella di copertina non firmata del romanzo, ma capace di riassumerlo appieno nella storia e nell’interpretazione analitica.
Eppure c’era qualcosa che Bruno non gradiva: pur quelle riunioni, che si facevano allora al centro di Roma con alcuni preziosi collaboratori (era molto amico, tra gli altri, di Ennio Flaiano) dove si parlava di tutto, di cinema, di arte, di sport e di cronaca, lo intrigavano fino ad un certo punto, tanto che poi, dopo un’attività, questa sì più in vista, in ambito giornalistico, lasciò tutto e in pensione se ne ritornò a Presicce, il suo paese d’origine, e lì morì quasi dimenticato, anche se qualcuno, di buona lena, gli propose una nuova edizione de L’allenatore. Edizione che poi avvenne con Baldini & Castoldi prima e infine, nel 2022, con Bordeaux biblioteca.
Tutto questo, cioè la condizione quasi surrogata dell’uomo, è presente nell’uomo. Non solo: il testo non autobiografico, ma è evidente che lo è perché parla di un cittadino di Presicce che fa il giornalista, è, diremmo, colmo delle valutazioni negative di chi gli sta intorno. Della sua amica-amante Elisabetta che dice: … per esempio potrei dirti perché hai sempre quell’aria di uno che se n’è andato o sta per andarsene di qualcuno che è sempre sul punto di partire o di dimettersi, tu non ti vedi non puoi ma sei proprio così vai in giro con la tua lettera in tasca già pronta per la consegna.
Ancora più espliciti sono gli amici: … lui allena non fa altro quando accetta di stare con una donna, come abbiamo potuto non capirlo prima? (…) c’è solo un allenatore e quel no che dice alla fine non è né un grido né uno strillo è semplicemente un annuncio l’avviso necessario tempestivo di concluso allenamento è una n-pedana un no-trampolino da cui lancia la donna già allenata.
Al di là della mancanza, quasi sempre, di virgole e punti (è così che si crea un pro-qualche cosa?), l’aspetto calcistico del romanzo sta proprio in questa identificazione tra l’atteggiamento dell’uomo e il calcio (ok, c’è pure un passaggio in cui il protagonista quasi sviene di fronte ad un gol dell’allora attaccante juventino, di origini danesi, Praest). Ma mi sembra eccessivo accordare a questa specie di simbiosi un legame così eccessivo.
Aveva ragione Flaiano quando scrisse: Il tuo libro ha questa bellezza, che pur essendo il frutto di un’intelligenza felice, mortificata dalle circostanze, dal carattere, da un certo bisogno di auto-distruzione, è un’ultima ricerca di verità.
Ci verrebbe da dire… altro che linguaggio del calcio (anche se qualcuno potrebbe obiettare che il romanzo è dedicato a Omar Sivori).
L’edizione da noi considerata è:
Salvatore Bruno
L’allenatore
Vallecchi
Il romanzo (l’unico) che ha scritto s’intitola L’allenatore. E dov’è il tema che abbiamo già affrontato e che qui si ripresenta in un modo più o meno vistoso? Per noi è quello della ripetitività frustrante e angosciosa di un problema, che sì fa parte anche del testo, ma che non è assolutamente la chiave di volta dell’intera operazione (chissà cosa avrebbe detto Bruno di questa affermazione).
Se provate a fare un giro su Internet e cercare qualcosa che riguarda L’allenatore, troverete soltanto, e dico soltanto, affermazioni che riguardano il calcio, meglio ancora, l’ossessione di Bruno per il calcio, e soprattutto per la Juventus, la sua squadra del cuore. C’è persino un illustre, anzi illustrissimo, critico letterario, Walter Pedullà, che in un suo scritto dal titolo La satira menippea degli anni Sessanta dice: Bruno nell’Allenatore gioca col linguaggio del calcio.
Troppo? Forse sì. Ma andiamo con ordine. Il libro esce nel 1963, e sapete tutti cosa vuol dire far uscire un testo in quegli anni, e soprattutto in quell’anno. Tanto che per alcuni osservatori, L’allenatore potrebbe inserirsi perfettamente nel percorso narrativo del Gruppo ’63.
Troppo anche qui? Oseremmo dire di sì. L’allenatore è solo un testo che, ripetiamo, ossessivamente mostra la crudezza psicologica, e non solo, di un uomo, e il resoconto che fanno gli altri di questa crudezza.
E’ formato da 5 capitoli, ognuno dei quali dipana la condizione dell’uomo sotto osservazione, e in qualche modo rende idea di quello che in effetti è (era) lo scrittore.
Salvatore Bruno ebbe la fortuna d’imbattersi in personaggi che in qualche modo lo appoggiarono. Fra tutti Geno Pampaloni e ancora di più il giovane, ma non per questo meno consumato, Cesare Garboli, il quale redigeva una bandella di copertina non firmata del romanzo, ma capace di riassumerlo appieno nella storia e nell’interpretazione analitica.
Eppure c’era qualcosa che Bruno non gradiva: pur quelle riunioni, che si facevano allora al centro di Roma con alcuni preziosi collaboratori (era molto amico, tra gli altri, di Ennio Flaiano) dove si parlava di tutto, di cinema, di arte, di sport e di cronaca, lo intrigavano fino ad un certo punto, tanto che poi, dopo un’attività, questa sì più in vista, in ambito giornalistico, lasciò tutto e in pensione se ne ritornò a Presicce, il suo paese d’origine, e lì morì quasi dimenticato, anche se qualcuno, di buona lena, gli propose una nuova edizione de L’allenatore. Edizione che poi avvenne con Baldini & Castoldi prima e infine, nel 2022, con Bordeaux biblioteca.
Tutto questo, cioè la condizione quasi surrogata dell’uomo, è presente nell’uomo. Non solo: il testo non autobiografico, ma è evidente che lo è perché parla di un cittadino di Presicce che fa il giornalista, è, diremmo, colmo delle valutazioni negative di chi gli sta intorno. Della sua amica-amante Elisabetta che dice: … per esempio potrei dirti perché hai sempre quell’aria di uno che se n’è andato o sta per andarsene di qualcuno che è sempre sul punto di partire o di dimettersi, tu non ti vedi non puoi ma sei proprio così vai in giro con la tua lettera in tasca già pronta per la consegna.
Ancora più espliciti sono gli amici: … lui allena non fa altro quando accetta di stare con una donna, come abbiamo potuto non capirlo prima? (…) c’è solo un allenatore e quel no che dice alla fine non è né un grido né uno strillo è semplicemente un annuncio l’avviso necessario tempestivo di concluso allenamento è una n-pedana un no-trampolino da cui lancia la donna già allenata.
Al di là della mancanza, quasi sempre, di virgole e punti (è così che si crea un pro-qualche cosa?), l’aspetto calcistico del romanzo sta proprio in questa identificazione tra l’atteggiamento dell’uomo e il calcio (ok, c’è pure un passaggio in cui il protagonista quasi sviene di fronte ad un gol dell’allora attaccante juventino, di origini danesi, Praest). Ma mi sembra eccessivo accordare a questa specie di simbiosi un legame così eccessivo.
Aveva ragione Flaiano quando scrisse: Il tuo libro ha questa bellezza, che pur essendo il frutto di un’intelligenza felice, mortificata dalle circostanze, dal carattere, da un certo bisogno di auto-distruzione, è un’ultima ricerca di verità.
Ci verrebbe da dire… altro che linguaggio del calcio (anche se qualcuno potrebbe obiettare che il romanzo è dedicato a Omar Sivori).
L’edizione da noi considerata è:
Salvatore Bruno
L’allenatore
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