RECENSIONI
Cristò
La carne
Neo Edizioni, Pag. 168 Euro 14,00
Quello che rimane in mente a fine lettura è la scena centrale. Una scena da inferno dantesco, dipinta non dall’elegante e sontuoso gusto gotico di Gustav Doré, ma piuttosto dal genio macabro e visionario di Zdzisław Beksiński. Essa è immanente a tutto il romanzo: nascosta e incombente nella prima parte, nella seconda angosciosamente rivelata. Che piaccia o no, questo testo straordinario esce dalle righe del consueto, travalica tutti i generi che pure contiene aggrovigliati nel suo ventre oscuro (fantastico, fantascienza, horror, weird: tutte definizioni che gli stanno strette) e che in definitiva è una riflessione aperta sulla condizione umana. Paolo Zardi, che firma un’entusiastica postfazione, dice di essere rimasto commosso dalla lettura. Una lettura non facile per tutti, nonostante l’estrema scorrevolezza e chiarezza del testo. Anzi è proprio quel racconto così diretto e quotidiano ad arrivare dritto in pancia, a coglierti indifeso. Superficialmente può far pensare a una storia di zombi, ma non lo è. La principale differenza è che non smuove i meccanismi della paura, bensì quelli di un’angoscia esistenziale che arriva a catturarti dall’interno. Il lettore che non si sentisse pronto a questa esperienza farà bene a non accostarsi nemmeno alle prime righe, perché se lo facesse non potrebbe più smettere di leggere. Stile e struttura hanno un andamento ipnotico, scandito dalle reiterazioni, dalle frasi semplificate, dai gesti ricorrenti. Appena si comincia se ne rimane invischiati.
Due storie si alternano a stretto giro, scandite ciascuna in pochi paragrafi così da risultare unite in un effetto di simultaneità. La voce narrante è di un vecchio ottantenne che ha visto la sua vita fermarsi in una specie di eterno presente in cui sembra non succedere nulla. Dopo un episodio invalidante si è convinto di essere condannato a un’esistenza passiva e si è rassegnato ad assistere alle vite degli altri. Insieme alla sua quotidianità, fatta di piccoli gesti ripetitivi, egli racconta la storia di un medico che si trova ad affrontare fenomeni inspiegabili. Si tratta di persone che scrivono proclami a propria insaputa, che diventano indifferenti a tutto, che abbandonano la famiglia per vagare sotto la spinta di una insaziabile fame di carne. Non sono pericolosi, ma la loro stessa esistenza è una minaccia. Sono malati? Sono contagiosi? Rappresentano forse un destino riservato a tutto il resto dell’umanità? La cosa peggiore è che, qualunque cosa accada, non muoiono mai.
Quelli là, quei disgraziati che fanno la fila per mangiare sembra che non ne vogliano sapere di morire. Da quando è cominciata questa cosa che non ha un nome non ne è morto neanche uno. (…) Mio padre oggi ha centoventisette anni ed è ancora lì a fare la fila per mangiare. Se fosse morto l’avrei saputo, sarebbe stato il primo di loro a stendere i piedi.
Fanno la fila. Sì, perché bisogna che la collettività se ne prenda cura. Così ci sono dei punti di distribuzione dove possono ricevere la loro razione di carne. Razione si fa per dire, perché non esiste alcuna dose capace di portarli alla sazietà. Tutto si ripete, tutto si concatena all’infinito.
Tradizioni religiose e laiche ci hanno inculcato un’idea grandiosa e perfino gloriosa dell’apocalisse. Da quella di Giovanni Evangelista, abitata da tragici cavalieri e draghi rampanti, a quella del disastro nucleare deflagrante in nubi colossali a forma di fungo. Ma un’apocalisse silenziosa, che dilaga giorno per giorno fra le pieghe del quotidiano, non è meno angosciante. La struttura del racconto può far venire in mente un quadro di Escher, con quelle scale che vanno e vengono e che paiono non portare in nessun posto. A questa sensazione straniante la conclusione a sorpresa aggiunge il tassello finale.
di Giovanna Repetto
Due storie si alternano a stretto giro, scandite ciascuna in pochi paragrafi così da risultare unite in un effetto di simultaneità. La voce narrante è di un vecchio ottantenne che ha visto la sua vita fermarsi in una specie di eterno presente in cui sembra non succedere nulla. Dopo un episodio invalidante si è convinto di essere condannato a un’esistenza passiva e si è rassegnato ad assistere alle vite degli altri. Insieme alla sua quotidianità, fatta di piccoli gesti ripetitivi, egli racconta la storia di un medico che si trova ad affrontare fenomeni inspiegabili. Si tratta di persone che scrivono proclami a propria insaputa, che diventano indifferenti a tutto, che abbandonano la famiglia per vagare sotto la spinta di una insaziabile fame di carne. Non sono pericolosi, ma la loro stessa esistenza è una minaccia. Sono malati? Sono contagiosi? Rappresentano forse un destino riservato a tutto il resto dell’umanità? La cosa peggiore è che, qualunque cosa accada, non muoiono mai.
Quelli là, quei disgraziati che fanno la fila per mangiare sembra che non ne vogliano sapere di morire. Da quando è cominciata questa cosa che non ha un nome non ne è morto neanche uno. (…) Mio padre oggi ha centoventisette anni ed è ancora lì a fare la fila per mangiare. Se fosse morto l’avrei saputo, sarebbe stato il primo di loro a stendere i piedi.
Fanno la fila. Sì, perché bisogna che la collettività se ne prenda cura. Così ci sono dei punti di distribuzione dove possono ricevere la loro razione di carne. Razione si fa per dire, perché non esiste alcuna dose capace di portarli alla sazietà. Tutto si ripete, tutto si concatena all’infinito.
Tradizioni religiose e laiche ci hanno inculcato un’idea grandiosa e perfino gloriosa dell’apocalisse. Da quella di Giovanni Evangelista, abitata da tragici cavalieri e draghi rampanti, a quella del disastro nucleare deflagrante in nubi colossali a forma di fungo. Ma un’apocalisse silenziosa, che dilaga giorno per giorno fra le pieghe del quotidiano, non è meno angosciante. La struttura del racconto può far venire in mente un quadro di Escher, con quelle scale che vanno e vengono e che paiono non portare in nessun posto. A questa sensazione straniante la conclusione a sorpresa aggiunge il tassello finale.
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