RACCONTI
Gianni Minerva
La valigia di cartone
Un accumulo di parole affastellate in frasi secche, da ciclostile, nella lettera stropicciata, eppure familiare nella grafia, abituale nelle richieste. Sulla carta irrompono le luci dei lampioni preserali, la finestra spalancata nella stanza. Seduto sul letto stringe la lettera fra le dita mentre fissa a tratti le mani, distese sulle gambe, e il pendolo piccolo, contraffatto disposto con meticolosa precisione al centro del comò, decide così se andare o lasciarsi scivolare le parole. Dopo aver comprato i biglietti, dopo aver sistemato la valigia, dopo essersi vestito di tutto punto. Ancora lì, picchettante sull'uscio, prendendo una decisione semplice, con le lettere stampate che gli colano lungo le dita strette, abituate alla carta e alla lettura.
Non sa spiegarsi le dinamiche, si rifiuta di ricordare, né di snocciolare quelle frattaglie di parole, e scritte in fretta per giunta. Trascina la maniglia e il suo seguito, il resto sono pensieri a striscioline che si lascia cadere lungo le stanze, per le strade, sul filobus, attaccate alle soglie ovali della stazione di Òccaso. La voce metallica annuncia che il treno è pronto al binario cinque, abbassa il cappello quasi a non voler sentire, si ferma, la voce pigolante riprende l'annuncio, l'invito, la costrizione al partire. Si stringe nelle spalle e sbuffa, respira affrancato, accompagnato dal fischio del treno regionale in partenza, scende attraversando il sottopasso, ultimo baluardo di un possibile diniego e successivo dietrofront. È claustrofobico anche, ma ora non lo ricorda, l'analista aveva ragione.
E si ferma poco prima di oltrepassare la linea gialla, limite invalicabile; posa a terra la valigia, fuori moda da un bel pezzo, rare a vedersi oggi, senza ruote, odia il rumore sfregaticcio e ruzzolante, preferisce le classiche valige con impugnatura. Comincia a cercarsi addosso, fruga nelle tasche, va per cercare nel bagaglio sudando e lo trova, il biglietto, lo apre lo guarda sorridente e sollevato. Previdente, diligente fino alla nevrosi, non vuole avere sorprese di nessun tipo, non viaggerebbe altrimenti. Cerca la carrozza, ora di punta per studenti liberi dal giogo della scuola, c'è un viavai continuo da uno scomparto all'altro, comincia a stringersi fra sé e le sue cose, un po' diffidente. L'analista glielo diceva spesso di effettuare un cambiamento per volta, strafare sarebbe stato poco duraturo, e non poté non ricordare sua madre, premurosa fino all'inverosimile, che soleva ripetere le medesime argomentazioni, mentre di schiena rifaceva il letto o preparava la cena, sempre la stessa.
Seduto al suo posto, sistemato il bagaglio, attende la partenza che avverrà in ritardo, giunge alle narici, poco abituate, il puzzo di piscio dei treni, che arrancano a vivere oltre i loro anni, che a darli alle fiamme sarebbe cortesia; ma questo è un pensiero che cancella scuotendo la testa.
Ridiscende, si ferma fra il vapore e i tacchi, fissando torna indietro al ricordo. Pensa. Saranno passati cinque anni da quando prese l'ultima volta il treno per fare un viaggio così lungo. Per partire nella medesima direzione, con animo sollevato, quasi contento accompagnato dalle sue nevrosi che esaudiva – non intendeva curarsi, credeva nella disciplina interiore, a quel tempo. Il biglietto la valigia la carrozza l'attesa del tutto simile. Con una piccola variante di senso, lì al suo arrivo, allora, ci sarebbero state le parole e le promesse fatte, gli abbracci repentini e il senso delle notti. Quel primo passo sulla carrozza fu possibile con un solo balzo. Su quelle rotaie seminava le sue tristezze, legate strette alle pietre, che si lasciava scivolare fuori dalla tasca del soprabito.
Oggi quel ricordo si lega stretto alle caviglie sottili quasi fosse una palla da galeotto. Tira fuori, ancora una volta, la lettera. La stira per bene, esamina la busta – sì, l'indirizzo è quello, il nome scritto è il suo – non ha dubbi, la vaglia accuratamente. Tale a un collezionista esperto, enumera le dentature al francobollo, guarda l'orografia che lo circonda, annusa la polvere che ne ha accompagnato il tragitto. Rilegge con le dita le prime righe, le prime parole – i giorni appesantiscono la tua mancanza – e subito la ripiega con foga, la pone nella busta, con tale accuratezza quasi fosse una reliquia e se la serra in tasca. Fermo stringe una mano sul pastrano vicino alla tasca, l'accarezza piano e delicatamente. Risale sul vagone per istinto.
La richiesta del tempo trascorso sottende privilegi di parole sconosciute, per il resto, non trova risposte segnate sulle rughe delle nocche, semmai ve ne fossero sono incise sulle carni, che si lacerano recando il passaggio. Come per quei giorni trascorsi, che pian piano affiorano, cadaveri nascosti, mai rinvenuti mai denunciati mai urlati. È un ricordo che gioca al contrario fra la mente e la tasca del soprabito. Dovrebbe rammentare nonostante quel senso di vuoto. Sente le sue solite fitte all'addome, le braccia prendono ad irrigidirsi, le mani si contraggono nella smania dell'attesa che cela lo stringimento del possesso. Il finestrino ha preso le sembianze della sua faccia, imperlata di sudore, soffocata dal fiato corto del treno che sferraglia agitato, partecipe di un mondo fatto di singhiozzi epidermici. Guarda la sua pupilla scura, ci si riflette, timore nell'andare più a fondo, fino alle viscere del nulla, fino alla fine della corsa che intossica il giorno.
Gli sudano le mani ma fa freddo. Immerso fra le sinapsi, non aspetta la fermata, il fischio, la voce metallica, il terzo strattone sulle rotaie. Si precipita ad aprire la porta. Non è più un luogo di passaggio un viavai continuo un perdersi fra valigie e permessi fra biglietti e corse, esistono solo i loro corpi stretti nella morsa del ricordo e dell'essersi ritrovati nell'assenza. Non sorridono, non si guardano, non sanno cosa dirsi, e rimangono così in silenzio a respirarsi annusando e decodificando il fiato. Poco il tempo. È il primo a dare segni di cedimento, e si sente afferrato più stretto; quelle labbra lasciano scivolare la sua voce, sussurra la stessa frase che gli fa cadere le braccia. L'ha promesso a se stesso, non un errore, stavolta, non un cedimento, non uno scricchiolio. Una fila di formiche rosse risale la sua schiena, marciano all'unisono, lo rimescolano; si divincola dalla stretta di gesso. Lei appare sorpresa da quella forza che non aveva conosciuto, agguanta i suoi occhi con fare interrogativo poi supplichevole, sembra sincera, dolce, quasi indifesa. Il sangue gli pulsa al contrario, lo sente galoppare a ritroso lungo le gambe. E lei che ritorna a fare un passo, solo un accenno di desiderio d'abbraccio, riparatore senza dubbio, e non le è permesso nemmeno questo, perché lui pone un muro di fuoco, lo dipinge sulle labbra, lo appiccica alle gote, si disegna nelle mani che fanno arretrare e desistere ad ogni tentativo, come a dire ascolta. E nel medesimo istante riaffiora da sé stesso scostando la testa, indietreggiando dall'iride umidiccio, vede il suo volto riflesso sul finestrino, dal di fuori, è arrivato.
Si volta, avvista un panchina e un muretto, va per la prima, serve comodità. Aperta la valigia tira fuori una piccola scatola di legno, l'apre e frugandosi nel cappotto afferra la lettera e la ripone all'interno. Richiude tutto con un elastico giallo. Si alza e deposita la scatola, fa per andare via, e fa perno sulla gamba, in attesa di un qualcosa che non viene, o non s'accende – non un cedimento, non uno scricchiolio, si ripete.
Aspetta l'ultimo treno, quello di un tempo. Ancora una volta è paziente. Pensa che prima o poi dovrà scrivere una lettera di protesta all'ente ferrovie, anzi, pensa di raccogliere delle firme, tutti i giorni per un mese, e fare una petizione. L'annuncio. Il primo fischio, non aspetta oltre. Il resto è uno scintillio, sono urla di panico miste a terrore, mani che soffocano contrazioni, braccia che oscurano la vista, svenimenti e salti di curiosità e lingue che parlano idiomi indistinti.
Prima della linea gialla solo una valigia di cartone, color verde opaco, sistemata perpendicolarmente al marciapiede. Il soprabito appeso al lampione. Le scarpe nella valigia, accanto la sua foto sdrucita e un vecchio giornale di cinque anni prima.
Gianni Minerva
Classe 1979, vive nel profondo sud del Salento, in un piccolo paesino di nome Melissano. Laureato in Lettere Moderne oggi gravita nel precariato della scuola e in progetti teatrali e letture sceniche.
Non sa spiegarsi le dinamiche, si rifiuta di ricordare, né di snocciolare quelle frattaglie di parole, e scritte in fretta per giunta. Trascina la maniglia e il suo seguito, il resto sono pensieri a striscioline che si lascia cadere lungo le stanze, per le strade, sul filobus, attaccate alle soglie ovali della stazione di Òccaso. La voce metallica annuncia che il treno è pronto al binario cinque, abbassa il cappello quasi a non voler sentire, si ferma, la voce pigolante riprende l'annuncio, l'invito, la costrizione al partire. Si stringe nelle spalle e sbuffa, respira affrancato, accompagnato dal fischio del treno regionale in partenza, scende attraversando il sottopasso, ultimo baluardo di un possibile diniego e successivo dietrofront. È claustrofobico anche, ma ora non lo ricorda, l'analista aveva ragione.
E si ferma poco prima di oltrepassare la linea gialla, limite invalicabile; posa a terra la valigia, fuori moda da un bel pezzo, rare a vedersi oggi, senza ruote, odia il rumore sfregaticcio e ruzzolante, preferisce le classiche valige con impugnatura. Comincia a cercarsi addosso, fruga nelle tasche, va per cercare nel bagaglio sudando e lo trova, il biglietto, lo apre lo guarda sorridente e sollevato. Previdente, diligente fino alla nevrosi, non vuole avere sorprese di nessun tipo, non viaggerebbe altrimenti. Cerca la carrozza, ora di punta per studenti liberi dal giogo della scuola, c'è un viavai continuo da uno scomparto all'altro, comincia a stringersi fra sé e le sue cose, un po' diffidente. L'analista glielo diceva spesso di effettuare un cambiamento per volta, strafare sarebbe stato poco duraturo, e non poté non ricordare sua madre, premurosa fino all'inverosimile, che soleva ripetere le medesime argomentazioni, mentre di schiena rifaceva il letto o preparava la cena, sempre la stessa.
Seduto al suo posto, sistemato il bagaglio, attende la partenza che avverrà in ritardo, giunge alle narici, poco abituate, il puzzo di piscio dei treni, che arrancano a vivere oltre i loro anni, che a darli alle fiamme sarebbe cortesia; ma questo è un pensiero che cancella scuotendo la testa.
Ridiscende, si ferma fra il vapore e i tacchi, fissando torna indietro al ricordo. Pensa. Saranno passati cinque anni da quando prese l'ultima volta il treno per fare un viaggio così lungo. Per partire nella medesima direzione, con animo sollevato, quasi contento accompagnato dalle sue nevrosi che esaudiva – non intendeva curarsi, credeva nella disciplina interiore, a quel tempo. Il biglietto la valigia la carrozza l'attesa del tutto simile. Con una piccola variante di senso, lì al suo arrivo, allora, ci sarebbero state le parole e le promesse fatte, gli abbracci repentini e il senso delle notti. Quel primo passo sulla carrozza fu possibile con un solo balzo. Su quelle rotaie seminava le sue tristezze, legate strette alle pietre, che si lasciava scivolare fuori dalla tasca del soprabito.
Oggi quel ricordo si lega stretto alle caviglie sottili quasi fosse una palla da galeotto. Tira fuori, ancora una volta, la lettera. La stira per bene, esamina la busta – sì, l'indirizzo è quello, il nome scritto è il suo – non ha dubbi, la vaglia accuratamente. Tale a un collezionista esperto, enumera le dentature al francobollo, guarda l'orografia che lo circonda, annusa la polvere che ne ha accompagnato il tragitto. Rilegge con le dita le prime righe, le prime parole – i giorni appesantiscono la tua mancanza – e subito la ripiega con foga, la pone nella busta, con tale accuratezza quasi fosse una reliquia e se la serra in tasca. Fermo stringe una mano sul pastrano vicino alla tasca, l'accarezza piano e delicatamente. Risale sul vagone per istinto.
La richiesta del tempo trascorso sottende privilegi di parole sconosciute, per il resto, non trova risposte segnate sulle rughe delle nocche, semmai ve ne fossero sono incise sulle carni, che si lacerano recando il passaggio. Come per quei giorni trascorsi, che pian piano affiorano, cadaveri nascosti, mai rinvenuti mai denunciati mai urlati. È un ricordo che gioca al contrario fra la mente e la tasca del soprabito. Dovrebbe rammentare nonostante quel senso di vuoto. Sente le sue solite fitte all'addome, le braccia prendono ad irrigidirsi, le mani si contraggono nella smania dell'attesa che cela lo stringimento del possesso. Il finestrino ha preso le sembianze della sua faccia, imperlata di sudore, soffocata dal fiato corto del treno che sferraglia agitato, partecipe di un mondo fatto di singhiozzi epidermici. Guarda la sua pupilla scura, ci si riflette, timore nell'andare più a fondo, fino alle viscere del nulla, fino alla fine della corsa che intossica il giorno.
Gli sudano le mani ma fa freddo. Immerso fra le sinapsi, non aspetta la fermata, il fischio, la voce metallica, il terzo strattone sulle rotaie. Si precipita ad aprire la porta. Non è più un luogo di passaggio un viavai continuo un perdersi fra valigie e permessi fra biglietti e corse, esistono solo i loro corpi stretti nella morsa del ricordo e dell'essersi ritrovati nell'assenza. Non sorridono, non si guardano, non sanno cosa dirsi, e rimangono così in silenzio a respirarsi annusando e decodificando il fiato. Poco il tempo. È il primo a dare segni di cedimento, e si sente afferrato più stretto; quelle labbra lasciano scivolare la sua voce, sussurra la stessa frase che gli fa cadere le braccia. L'ha promesso a se stesso, non un errore, stavolta, non un cedimento, non uno scricchiolio. Una fila di formiche rosse risale la sua schiena, marciano all'unisono, lo rimescolano; si divincola dalla stretta di gesso. Lei appare sorpresa da quella forza che non aveva conosciuto, agguanta i suoi occhi con fare interrogativo poi supplichevole, sembra sincera, dolce, quasi indifesa. Il sangue gli pulsa al contrario, lo sente galoppare a ritroso lungo le gambe. E lei che ritorna a fare un passo, solo un accenno di desiderio d'abbraccio, riparatore senza dubbio, e non le è permesso nemmeno questo, perché lui pone un muro di fuoco, lo dipinge sulle labbra, lo appiccica alle gote, si disegna nelle mani che fanno arretrare e desistere ad ogni tentativo, come a dire ascolta. E nel medesimo istante riaffiora da sé stesso scostando la testa, indietreggiando dall'iride umidiccio, vede il suo volto riflesso sul finestrino, dal di fuori, è arrivato.
Si volta, avvista un panchina e un muretto, va per la prima, serve comodità. Aperta la valigia tira fuori una piccola scatola di legno, l'apre e frugandosi nel cappotto afferra la lettera e la ripone all'interno. Richiude tutto con un elastico giallo. Si alza e deposita la scatola, fa per andare via, e fa perno sulla gamba, in attesa di un qualcosa che non viene, o non s'accende – non un cedimento, non uno scricchiolio, si ripete.
Aspetta l'ultimo treno, quello di un tempo. Ancora una volta è paziente. Pensa che prima o poi dovrà scrivere una lettera di protesta all'ente ferrovie, anzi, pensa di raccogliere delle firme, tutti i giorni per un mese, e fare una petizione. L'annuncio. Il primo fischio, non aspetta oltre. Il resto è uno scintillio, sono urla di panico miste a terrore, mani che soffocano contrazioni, braccia che oscurano la vista, svenimenti e salti di curiosità e lingue che parlano idiomi indistinti.
Prima della linea gialla solo una valigia di cartone, color verde opaco, sistemata perpendicolarmente al marciapiede. Il soprabito appeso al lampione. Le scarpe nella valigia, accanto la sua foto sdrucita e un vecchio giornale di cinque anni prima.
Gianni Minerva
Classe 1979, vive nel profondo sud del Salento, in un piccolo paesino di nome Melissano. Laureato in Lettere Moderne oggi gravita nel precariato della scuola e in progetti teatrali e letture sceniche.
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