CLASSICI
Alfredo Ronci
Lo scrittore dell’esilio? “La città di Miriam” di Fulvio Tomizza.
Lo scrittore Giorgio Voghera lo definì lo scrittore dell’esilio. Ma non è soltanto questo il motivo che portò Tomizza ad avere un notevole successo in Italia (al contrario di altri letterati pure loro ben dotati intellettualmente). Però ad essere sinceri ancora non capiamo questa differenziazione che si è decretata nel tempo.
Tomizza, se vogliamo essere precisi, è anche uno scrittore di trilogie: la prima, quella che decretò il suo ingresso nella letteratura, arrivò nel 1960 con Materada, proseguì con La ragazza di Petrovia (1963) e si chiuse con Il bosco di acacie (1966). Un insieme di opere che testimonia il dramma vissuto dagli italiani d’Istria, prima degli accadimenti politici che costrinsero i nostri connazionali ad emigrare in Italia. E lo spaesamento di uno scrittore che si sentiva ancora istriano e lacerato tra due mondi e due culture che avvertiva propri in egual misura.
L’altra trilogia, se proprio vogliamo definirla così, è quella che riguarda Stefano Marcovich, chiaramente autobiografico, che inizia con La quinta stagione (1965) poi arriva L’albero dei sogni (1969) e infine, quello che andiamo a verificare direttamente, il romanzo La città di Miriam (1972).
Qualcuno si chiederà: perché proprio La città di Miriam ha stimolato il nostro interesse? Perché al di là di tutte le situazioni che già abbiamo visto e quelle ancora da verificare, c’è un modello di comportamento sessuale che attira sistematicamente e che per certi versi qualifica Tomizza entro certi distretti comportamentali.
La città di Miriam è una interrotta e insolita storia d’amore coniugale, dove candore e spregiudicatezza, pudore e gelosia, passione ed ironia si alternano in un gioco che è insieme di struggente e dialettica vitalità. Ma tutte queste qualità della vicenda, che sembrano davvero coesistere insieme e nello stesso tempo separarsi, conducono ad una definizione che si vorrebbe definitiva: ma cos’è in definitiva l’amore?
Questo vuol dire che i temi fondamentali della scrittura di Tomizza sono improvvisamente messi da parte? Che sparisce il divario che poi è esistito tra due culture apparentemente vicine ma poi così diverse? No, il libro non manca, se vogliamo a quell’appuntamento, a cominciare, per esempio, dalla figura molto presente del padre di Miriam, che è un istriano, o a certe tematiche psicoanalitiche che richiamano, ovviamente, a Freud.
Però esiste qualcosa che va oltre e che pone l’opera letteraria al di là (non diciamo né sotto né sopra) di certe tematiche consuete. Anche se poi la sessualità rimarrà comunque un tema caro a tutti gli scrittori del tempo (e non solo).
Ecco una piccola descrizione che Tomizza fa della sua Miriam: Me la sollevavo all’altezza del viso e la stringevo fino a sentir scricchiolare le fragili ossa, in una morsa che voleva manifestare tutta la mia tenerezza, ma anche i dubbi e i timori che mi bruciavano dentro.
Già, perché i dubbi e i timori Stefano Marcovich (cioè lo stesso Tomizza) ne ha da vendere. Basta guardare alla sua reazione di fronte ad una bella donna che incontra durante uno dei suoi impegni: Dopo tante ragazze incontrate non mi era mai avvenuto di vedere un corpo femminile più perfettamente fuso nel suo insieme e meglio risplendente all’immagine di una statua, di quelle che ornano la Borsa e gli altri palazzi austriaci della nostra città: divinità di una religione laica di cui ignoravo i culti particolari, gli speciali riti.
Ma poi ritorna Miriam con il suo essere sincera e mai menzognera, ritorna il ricordo del padre, che sembra quasi una linea di continuità col passato e tornano anche i sogni (freudiani no?) che lo assalgono: Il mio vecchio concetto del sogno, nel quale nulla può essere inventato senza che sussista una ragione magari oscura, una traccia, il minimo indizio lasciato trapelare involontariamente nella vita reale. Non puoi fare di tizio un ladro se non ti ha trasmesso un piccolo sospetto, l’eventualità di questa sua tendenza, sia pure mediante la sfumatura di un gesto incontrollato.
Verso la fine del romanzo confesserà anche che, durante una trasferta a Città del Messico, in occasione dei campionati mondiali di calcio, avrà addirittura tre amanti contemporaneamente, anche se dedicherà il suo tempo e la sua passione alla bruna che assomigliava in modo quasi perfetto a Miriam. La quale conclude la vicenda, dopo che lui è rientrato dalla trasferta, dicendo: Sapevo che saresti tornato.
Ed è così che si chiude la Storia di Stefano Marcovich.
L’edizione da noi considerata è:
Fulvio Tomizza
La città di Miriam
Mondadori
Tomizza, se vogliamo essere precisi, è anche uno scrittore di trilogie: la prima, quella che decretò il suo ingresso nella letteratura, arrivò nel 1960 con Materada, proseguì con La ragazza di Petrovia (1963) e si chiuse con Il bosco di acacie (1966). Un insieme di opere che testimonia il dramma vissuto dagli italiani d’Istria, prima degli accadimenti politici che costrinsero i nostri connazionali ad emigrare in Italia. E lo spaesamento di uno scrittore che si sentiva ancora istriano e lacerato tra due mondi e due culture che avvertiva propri in egual misura.
L’altra trilogia, se proprio vogliamo definirla così, è quella che riguarda Stefano Marcovich, chiaramente autobiografico, che inizia con La quinta stagione (1965) poi arriva L’albero dei sogni (1969) e infine, quello che andiamo a verificare direttamente, il romanzo La città di Miriam (1972).
Qualcuno si chiederà: perché proprio La città di Miriam ha stimolato il nostro interesse? Perché al di là di tutte le situazioni che già abbiamo visto e quelle ancora da verificare, c’è un modello di comportamento sessuale che attira sistematicamente e che per certi versi qualifica Tomizza entro certi distretti comportamentali.
La città di Miriam è una interrotta e insolita storia d’amore coniugale, dove candore e spregiudicatezza, pudore e gelosia, passione ed ironia si alternano in un gioco che è insieme di struggente e dialettica vitalità. Ma tutte queste qualità della vicenda, che sembrano davvero coesistere insieme e nello stesso tempo separarsi, conducono ad una definizione che si vorrebbe definitiva: ma cos’è in definitiva l’amore?
Questo vuol dire che i temi fondamentali della scrittura di Tomizza sono improvvisamente messi da parte? Che sparisce il divario che poi è esistito tra due culture apparentemente vicine ma poi così diverse? No, il libro non manca, se vogliamo a quell’appuntamento, a cominciare, per esempio, dalla figura molto presente del padre di Miriam, che è un istriano, o a certe tematiche psicoanalitiche che richiamano, ovviamente, a Freud.
Però esiste qualcosa che va oltre e che pone l’opera letteraria al di là (non diciamo né sotto né sopra) di certe tematiche consuete. Anche se poi la sessualità rimarrà comunque un tema caro a tutti gli scrittori del tempo (e non solo).
Ecco una piccola descrizione che Tomizza fa della sua Miriam: Me la sollevavo all’altezza del viso e la stringevo fino a sentir scricchiolare le fragili ossa, in una morsa che voleva manifestare tutta la mia tenerezza, ma anche i dubbi e i timori che mi bruciavano dentro.
Già, perché i dubbi e i timori Stefano Marcovich (cioè lo stesso Tomizza) ne ha da vendere. Basta guardare alla sua reazione di fronte ad una bella donna che incontra durante uno dei suoi impegni: Dopo tante ragazze incontrate non mi era mai avvenuto di vedere un corpo femminile più perfettamente fuso nel suo insieme e meglio risplendente all’immagine di una statua, di quelle che ornano la Borsa e gli altri palazzi austriaci della nostra città: divinità di una religione laica di cui ignoravo i culti particolari, gli speciali riti.
Ma poi ritorna Miriam con il suo essere sincera e mai menzognera, ritorna il ricordo del padre, che sembra quasi una linea di continuità col passato e tornano anche i sogni (freudiani no?) che lo assalgono: Il mio vecchio concetto del sogno, nel quale nulla può essere inventato senza che sussista una ragione magari oscura, una traccia, il minimo indizio lasciato trapelare involontariamente nella vita reale. Non puoi fare di tizio un ladro se non ti ha trasmesso un piccolo sospetto, l’eventualità di questa sua tendenza, sia pure mediante la sfumatura di un gesto incontrollato.
Verso la fine del romanzo confesserà anche che, durante una trasferta a Città del Messico, in occasione dei campionati mondiali di calcio, avrà addirittura tre amanti contemporaneamente, anche se dedicherà il suo tempo e la sua passione alla bruna che assomigliava in modo quasi perfetto a Miriam. La quale conclude la vicenda, dopo che lui è rientrato dalla trasferta, dicendo: Sapevo che saresti tornato.
Ed è così che si chiude la Storia di Stefano Marcovich.
L’edizione da noi considerata è:
Fulvio Tomizza
La città di Miriam
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