INTERVISTE
Luigi Bernardi
Lei ha confessato di essere un po' stanco di fare l'editor. Preferisce scrivere di suo. Cosa lo ha stressato delle passate esperienze?
Non è una questione di stress quanto di cambiamento, evoluzione. Il catalogo delle scritture che un editor prende in esame è ampio, non di rado capace di entusiasmare. Le letture si affrontano tutte con la stessa attenzione: l'editor non deve essere condizionato da nient'altro se non dalla qualità del testo, valutarlo con il proprio rigore e la propria obiettività. Per molti anni è accaduto che i testi che respingevo non erano pubblicati neppure da altri editori. Da qualche tempo mi trovo a constatare che, tra i testi che rifiuto, diversi raggiungono lo stesso i banchi della libreria. È segno che i criteri della mia selezione sono sfilacciati rispetto al mercato editoriale: una consapevolezza lucida, le cui ragioni si trovano nell'intreccio dei movimenti della mia esperienza personale e del mondo fuori. Non c'è attrito nel prendere coscienza che la mia voce di scrittore richiede più spazio, più energie: la scelta di concentrarmi sulle mie scritture non è reazione a fattori di stress, non perdita del piacere della lettura, né disinteresse per il mondo letterario. Tutt'altro.
Lo so, me ne rendo conto, può essere una domanda antipatica, ma di tutti gli scrittori che ha "scoperto" e di quelli che in qualche modo lo hanno accompagnato in questa sua lunga attività, ce n'è qualcuno in particolare di cui va molto fiero?
È, in effetti, una domanda antipatica, che mi viene rivolta spesso. Farei torto agli altri se citassi un nome solo. Ho messo la mia esperienza e la mia passione a disposizione di chi la meritava. Pochi mi hanno deluso.
Recentemente il professor Romano Luperini ha affermato che (e riporto testualmente) nessuno scrive più "per il capolavoro"; tutti (o quasi) scrivono solo per vendere. A ciò si accompagna la messa fra parentesi del mondo. Mentre la letteratura americana e quella dei paesi emergenti ci mostrano una realtà densa di contraddizioni materiali, di conflitti sociali ed interetnici, di contrasti fra le generazioni, in Italia esiste solo l'ego. Il privato domina incontrastato. Lei cosa risponde dal momento che ha ambientato 'Senza luce' in un paesino?
Luperini fa confusione. Ha ragione quando denuncia la scrittura come fatto ormai prevalentemente mercantile. È, tuttavia, un'accusa sterile, come sostenere che McDonald's vende panini di pessima qualità. Non mi trova d'accordo, invece, quando sostiene che raccontare il privato sia mettere fra parentesi il mondo. Nel privato di ognuno si esprime il pubblico. Senza luce è ambientato in un paese, un microcosmo nel quale si rispecchiano le attitudini del presente, il suo progressivo impazzimento, il suo andare oltre le categorie che sono servite a spiegare il passato. Il privato dei miei personaggi testimonia lo stato del mondo. Lo riflette.
È un caso che le tre protagoniste del romanzo alla fine decidano di riunirsi nello stesso luogo?
Non è un caso. La trama vuole che sia così. Cercando di raggiungere il bar di Loretta, Federica e Giuliana aspirano a strapparsi di dosso la solitudine in cui sono precipitate, a causa del buio e delle proprie scelte. Non è un caso perché lo stesso luogo è la piazza del paese, il centro della polis, il punto nevralgico – empirico e simbolico – della narrazione, dove convergono le storie diverse che il romanzo racconta.
In un passo del libro lei scrive: Domenico è uno scrittore che non scrive da sei anni, ma neppure questo è vero: uno scrittore scrive sempre. Lo fa nella sua testa, con quella calligrafia indecifrabile. Sembra quasi che lo scrittore sia un predestinato.
Non credo nel destino. Credo nelle ossessioni e nella letteratura. Lo scrittore è ossessionato dalla scrittura. La sua vita ne è intrisa. Nel vivere quotidiano – in uguale misura nei sogni e nelle fantasie – incontra le storie, i personaggi, le ambientazioni, i punti di vista. Lo scrittore osserva, spia, ascolta, rimane in silenzio, si lascia elettrizzare dai cortocircuiti epifanici. Non è scrittore solo davanti alla tastiera: nei pensieri non smette mai di scrivere. Lo scrittore ha la testa piena di storie che non racconterà, taccuini pieni di frasi che non saranno pubblicate. Se così non fosse, non sarebbe uno scrittore, sarebbe uno al quale capita di scrivere libri.
Domanda provocatoria: uno dei protagonisti del romanzo, Domenico appunto, è uno scrittore. Il più cattivo alla fine: cos'è un autoritratto o un atteggiamento nichilista?
In Domenico ci sono aspetti della mia esperienza e personalità. Come, del resto, ce ne sono in tutti i personaggi del romanzo. Domenico non è un autoritratto: non ho il suo coraggio e soffro di vertigini. Riguardo l'atteggiamento nichilista vorrei gli fosse concesso il diritto di cittadinanza. È meglio un nichilismo autentico o le innumerevoli ipocrisie spacciate per idee progressiste che hanno ridotto il mondo a quello che è? Ci fossero stati più nichilisti probabilmente avremmo imparato a farci le domande giuste. Forse avremmo anche azzeccato le risposte.
Nel suo sito personale lei dice che il noir, una volta diventato di successo ha manifestato tutti i suoi limiti. E quali sono?
Il novantanove per cento dei romanzi che escono sotto l'etichetta noir sono romanzi polizieschi, che in Italia chiamiamo gialli. Lo scrittore di gialli pensa a fare tornare i conti, crede – o semplicemente fa credere al lettore – che i conti possano tornare, che il male possa essere sconfitto e che la rottura provocata da un crimine possa ricomporsi. Lo scrittore di noir non si illude, e non intende illudere i lettori, consapevole che i conti non sapranno tornare. Il giallo conforta, il noir, se all'apparenza deprime, apre gli occhi, restituisce una visione del mondo non mediata. In definitiva il noir, nella sua accezione originaria, è un punto di vista antagonista. E, senza vendere l'anima, gli antagonisti non possono prendere il potere, neppure nelle classifiche dei libri.
Ho sempre ritenuto il noir francese superiore a quello italiano. Noi non abbiamo un autore come Daeninckx (o forse sì, Carlotto?). Lei cosa ne pensa?
Ogni paese esprime i propri scrittori. È difficile fare paragoni, spostare l'esito dell'uno nell'esperienza dell'altro. Daeninckx è stato un grande scrittore – ora lo è molto meno –, Carlotto scrive buoni libri, a volte ottimi. Raccontano realtà e tempi diversi. La Francia ha conosciuto decenni straordinari, gli anni Settanta e Ottanta, adesso produce poco di buono.
L'ultimo romanzo che lo ha davvero entusiasmato.
Sono due: Le benevole di Jonathan Littell, e Non è un paese per vecchi di Cormac McCarty. Due romanzi diversi per stile, ambizione e ambientazione, entrambi splendidi esempi di come si possa raccontare il male senza alcun pregiudizio etico.
Non è una questione di stress quanto di cambiamento, evoluzione. Il catalogo delle scritture che un editor prende in esame è ampio, non di rado capace di entusiasmare. Le letture si affrontano tutte con la stessa attenzione: l'editor non deve essere condizionato da nient'altro se non dalla qualità del testo, valutarlo con il proprio rigore e la propria obiettività. Per molti anni è accaduto che i testi che respingevo non erano pubblicati neppure da altri editori. Da qualche tempo mi trovo a constatare che, tra i testi che rifiuto, diversi raggiungono lo stesso i banchi della libreria. È segno che i criteri della mia selezione sono sfilacciati rispetto al mercato editoriale: una consapevolezza lucida, le cui ragioni si trovano nell'intreccio dei movimenti della mia esperienza personale e del mondo fuori. Non c'è attrito nel prendere coscienza che la mia voce di scrittore richiede più spazio, più energie: la scelta di concentrarmi sulle mie scritture non è reazione a fattori di stress, non perdita del piacere della lettura, né disinteresse per il mondo letterario. Tutt'altro.
Lo so, me ne rendo conto, può essere una domanda antipatica, ma di tutti gli scrittori che ha "scoperto" e di quelli che in qualche modo lo hanno accompagnato in questa sua lunga attività, ce n'è qualcuno in particolare di cui va molto fiero?
È, in effetti, una domanda antipatica, che mi viene rivolta spesso. Farei torto agli altri se citassi un nome solo. Ho messo la mia esperienza e la mia passione a disposizione di chi la meritava. Pochi mi hanno deluso.
Recentemente il professor Romano Luperini ha affermato che (e riporto testualmente) nessuno scrive più "per il capolavoro"; tutti (o quasi) scrivono solo per vendere. A ciò si accompagna la messa fra parentesi del mondo. Mentre la letteratura americana e quella dei paesi emergenti ci mostrano una realtà densa di contraddizioni materiali, di conflitti sociali ed interetnici, di contrasti fra le generazioni, in Italia esiste solo l'ego. Il privato domina incontrastato. Lei cosa risponde dal momento che ha ambientato 'Senza luce' in un paesino?
Luperini fa confusione. Ha ragione quando denuncia la scrittura come fatto ormai prevalentemente mercantile. È, tuttavia, un'accusa sterile, come sostenere che McDonald's vende panini di pessima qualità. Non mi trova d'accordo, invece, quando sostiene che raccontare il privato sia mettere fra parentesi il mondo. Nel privato di ognuno si esprime il pubblico. Senza luce è ambientato in un paese, un microcosmo nel quale si rispecchiano le attitudini del presente, il suo progressivo impazzimento, il suo andare oltre le categorie che sono servite a spiegare il passato. Il privato dei miei personaggi testimonia lo stato del mondo. Lo riflette.
È un caso che le tre protagoniste del romanzo alla fine decidano di riunirsi nello stesso luogo?
Non è un caso. La trama vuole che sia così. Cercando di raggiungere il bar di Loretta, Federica e Giuliana aspirano a strapparsi di dosso la solitudine in cui sono precipitate, a causa del buio e delle proprie scelte. Non è un caso perché lo stesso luogo è la piazza del paese, il centro della polis, il punto nevralgico – empirico e simbolico – della narrazione, dove convergono le storie diverse che il romanzo racconta.
In un passo del libro lei scrive: Domenico è uno scrittore che non scrive da sei anni, ma neppure questo è vero: uno scrittore scrive sempre. Lo fa nella sua testa, con quella calligrafia indecifrabile. Sembra quasi che lo scrittore sia un predestinato.
Non credo nel destino. Credo nelle ossessioni e nella letteratura. Lo scrittore è ossessionato dalla scrittura. La sua vita ne è intrisa. Nel vivere quotidiano – in uguale misura nei sogni e nelle fantasie – incontra le storie, i personaggi, le ambientazioni, i punti di vista. Lo scrittore osserva, spia, ascolta, rimane in silenzio, si lascia elettrizzare dai cortocircuiti epifanici. Non è scrittore solo davanti alla tastiera: nei pensieri non smette mai di scrivere. Lo scrittore ha la testa piena di storie che non racconterà, taccuini pieni di frasi che non saranno pubblicate. Se così non fosse, non sarebbe uno scrittore, sarebbe uno al quale capita di scrivere libri.
Domanda provocatoria: uno dei protagonisti del romanzo, Domenico appunto, è uno scrittore. Il più cattivo alla fine: cos'è un autoritratto o un atteggiamento nichilista?
In Domenico ci sono aspetti della mia esperienza e personalità. Come, del resto, ce ne sono in tutti i personaggi del romanzo. Domenico non è un autoritratto: non ho il suo coraggio e soffro di vertigini. Riguardo l'atteggiamento nichilista vorrei gli fosse concesso il diritto di cittadinanza. È meglio un nichilismo autentico o le innumerevoli ipocrisie spacciate per idee progressiste che hanno ridotto il mondo a quello che è? Ci fossero stati più nichilisti probabilmente avremmo imparato a farci le domande giuste. Forse avremmo anche azzeccato le risposte.
Nel suo sito personale lei dice che il noir, una volta diventato di successo ha manifestato tutti i suoi limiti. E quali sono?
Il novantanove per cento dei romanzi che escono sotto l'etichetta noir sono romanzi polizieschi, che in Italia chiamiamo gialli. Lo scrittore di gialli pensa a fare tornare i conti, crede – o semplicemente fa credere al lettore – che i conti possano tornare, che il male possa essere sconfitto e che la rottura provocata da un crimine possa ricomporsi. Lo scrittore di noir non si illude, e non intende illudere i lettori, consapevole che i conti non sapranno tornare. Il giallo conforta, il noir, se all'apparenza deprime, apre gli occhi, restituisce una visione del mondo non mediata. In definitiva il noir, nella sua accezione originaria, è un punto di vista antagonista. E, senza vendere l'anima, gli antagonisti non possono prendere il potere, neppure nelle classifiche dei libri.
Ho sempre ritenuto il noir francese superiore a quello italiano. Noi non abbiamo un autore come Daeninckx (o forse sì, Carlotto?). Lei cosa ne pensa?
Ogni paese esprime i propri scrittori. È difficile fare paragoni, spostare l'esito dell'uno nell'esperienza dell'altro. Daeninckx è stato un grande scrittore – ora lo è molto meno –, Carlotto scrive buoni libri, a volte ottimi. Raccontano realtà e tempi diversi. La Francia ha conosciuto decenni straordinari, gli anni Settanta e Ottanta, adesso produce poco di buono.
L'ultimo romanzo che lo ha davvero entusiasmato.
Sono due: Le benevole di Jonathan Littell, e Non è un paese per vecchi di Cormac McCarty. Due romanzi diversi per stile, ambizione e ambientazione, entrambi splendidi esempi di come si possa raccontare il male senza alcun pregiudizio etico.
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