RECENSIONI
Carla Ammannati
Relazione sul nascere
ExCogita, Pag. 213 Euro 14,50
ov'è voce, è corpo
Leonardo
"Caricare quella stufa di legna mi faceva odorare la vita buona della mia infanzia, che diamine, non altro. Chi avrebbe potuto dirlo che avrei odorato invece quella schifezza, come si chiama... il monossido di carbonio?" (p. 169) Talvolta un'immagine racchiude - d'un testo intero - la chiave. L'Autrice propone, nel Suo lavoro, una continua dialettica fra venire al mondo, e la sua difficoltà, e le circostanze della morte, del sacrificio, della mortalità in atto di vita (dello scialo della droga, ed esempio). Lo fa attraverso una drammaturgia della voce - teatrale, dunque -, e un continuo recupero di documenti che afferiscono all'epos partigiano di coraggio e vanità, sfondo sul quale Lei disegna una pertinente e continua storia di donne. Sì: meravigliosamente si distringono, nel regesto autoriale, la fortezza e la decisione femminile (diluita in almeno tre generazioni) di dare vita, o di accoglierla, ovvero ancora di fortificarla: incuranti di rasentare l'incesto, fastose nel trasformare ogni sterilità in adozione, libere non nel seguire ma nel precedere l'uomo-bombo che le ingravida, resilienti nel vivere al di là delle forme codificate del matrimonio o della coppia ogni fertile incontro.
Abbiamo innanzitutto questo titolo: Relazione sul nascere. Senza voler proporre impossibili paralleli di valore - sebbene l'Ammannati sia tutt'altro che narratrice sprovveduta, ingenua, diaristica - il ricordo corre a quella Cognizione del dolore ch'era assieme analisi e appunto ricostruzione, rapporto, d'un'arcaica doglianza. Che si trasforma sulla pagina, nel teatro di voci ricreato dalla narratrice, in una continua e necessaria parodia: un gioco di scambi che rende viva e vivace la testimonianza dei personaggi, nel, più che temerario, audace tentativo - ora riescito al coinvolto Lettore, ora meno, ora punto - d'individuare il parlante attraverso l'impiego del dialetto e del socioletto più appropriati.
Mi spiego: nella finzione plurima (finzione, finzione di finzione, finzione cuba che diventa verità lineare), emerge la necessità dell'Autrice d'esprimere del verosimile e del vero nella resa dei caratteri. S'avrà dunque la Guglielma che parla un toscanino variegato, di tratto in tratto petulante, e però mai ridotto al gergazzo filmico, al pieraccionismo d'accatto e di risulta - piuttosto fido d'una linguaccia tra Fucini e Bianciardi (l'"inteccheriva" di p. 114); la Biancarosa napoletanata, ibrida di partenopeo e d'italicano (quel "marito mio" che più sintattico sarebbe "marìtemo", p.138), e tuttavia infalsificata, siccome pregna di vita; la gergalità sessantottina di Terenzio gruppettaro, nella cui filigrana si vorrebbe (e in parte si riesce a) determinare la caratteristica d'un periodo storico di debole forza e di corrotta purezza; l'aulica o comunque padronata cadenza del "barone", il professore universitario che insieme sposa e adotta (Don Giovanni: "hai sposo e padre in me") la giovane e però consapevole allieva; lo sciolto e preteso attuale slang della Giudi, che vuol tradurre in gergo la linea energetica della vita, l'amore come senso e non come direttiva (gran coordinata del testo), e che rivela "il teatro è mostra di sé, discesa in campo. Il teatro è corpo, non solo voce". (p. 211)
E allora: tutte le lingue bastarde rendono la bastardigia dei corpi - praticamente nel testo di cui parliamo non c'è filiazione "naturale". E i corpi in lotta denunciano la lotta dei corpi - il loro rifiuto della pregnanza. Ma su tutto ciò, prevale la realtà: da un lato della morte, dello sterminio, nazifascista. Dall'altro, della rinascita. Ed ecco che ogni difficile parto (personale, particolare) diviene metafora della difficoltà politica (generale) di dar luogo al mondo, alla comunità civile - sebbene, l'abbiamo detto iniziando, gravida dei mostriciattoli del tornaconto, del patteggiamento, dell'inciucio. E' il bel morettismo di Aprile.
Si dirà che, al di là della resa particolare e dunque del senso che l'Autrice sensualmente produce (quando ci riesce) per variazioni di fraseggio nei dialoghi, la caratterizzazione dei personaggi tramite il loro linguaggio dovrebb'essere minima astuzia letteraria, quindi immeritevole, al limite, di nota, e tanto articolata. Eppure: quanti romanzi e novelle oggidì incontriamo, da Lettori, in cui ogni carattere è, di carattere, privo - e allora il professore ottantenne, il bimbo appena pubere, la segretarietta secca e il fannullone frenetico parlano l'identica monolingua statale e statistica? Il che potrebbe anche esser realistico, magari siccome appartengono allo stesso ambiente: ma ciò non esenta l'Autore da dar loro specifico corpo attraverso specifica voce. Lo rende solo più difficile: ed è artista colui al quale le asperità della propria arte dànno idee, non ne tolgono. E se poi non ne sarà capace, ebbene, almeno avrà provato.
Ma basta. Festeggiamo piuttosto nello scritto dell'Ammannati non solo un ritratto problematico dello ieri, in cui la verità ragiona del falso, bensì una costruzione dell'oggi, dove l'infecondità delle generazioni non si chiude all'escluso, ma s'apre all'accoglimento - dove cioè quel ch'è una tragedia del singolo si tramuti o eguagli l'aspirazione o la necessità di tutti.
di Vera Barilla
Leonardo
"Caricare quella stufa di legna mi faceva odorare la vita buona della mia infanzia, che diamine, non altro. Chi avrebbe potuto dirlo che avrei odorato invece quella schifezza, come si chiama... il monossido di carbonio?" (p. 169) Talvolta un'immagine racchiude - d'un testo intero - la chiave. L'Autrice propone, nel Suo lavoro, una continua dialettica fra venire al mondo, e la sua difficoltà, e le circostanze della morte, del sacrificio, della mortalità in atto di vita (dello scialo della droga, ed esempio). Lo fa attraverso una drammaturgia della voce - teatrale, dunque -, e un continuo recupero di documenti che afferiscono all'epos partigiano di coraggio e vanità, sfondo sul quale Lei disegna una pertinente e continua storia di donne. Sì: meravigliosamente si distringono, nel regesto autoriale, la fortezza e la decisione femminile (diluita in almeno tre generazioni) di dare vita, o di accoglierla, ovvero ancora di fortificarla: incuranti di rasentare l'incesto, fastose nel trasformare ogni sterilità in adozione, libere non nel seguire ma nel precedere l'uomo-bombo che le ingravida, resilienti nel vivere al di là delle forme codificate del matrimonio o della coppia ogni fertile incontro.
Abbiamo innanzitutto questo titolo: Relazione sul nascere. Senza voler proporre impossibili paralleli di valore - sebbene l'Ammannati sia tutt'altro che narratrice sprovveduta, ingenua, diaristica - il ricordo corre a quella Cognizione del dolore ch'era assieme analisi e appunto ricostruzione, rapporto, d'un'arcaica doglianza. Che si trasforma sulla pagina, nel teatro di voci ricreato dalla narratrice, in una continua e necessaria parodia: un gioco di scambi che rende viva e vivace la testimonianza dei personaggi, nel, più che temerario, audace tentativo - ora riescito al coinvolto Lettore, ora meno, ora punto - d'individuare il parlante attraverso l'impiego del dialetto e del socioletto più appropriati.
Mi spiego: nella finzione plurima (finzione, finzione di finzione, finzione cuba che diventa verità lineare), emerge la necessità dell'Autrice d'esprimere del verosimile e del vero nella resa dei caratteri. S'avrà dunque la Guglielma che parla un toscanino variegato, di tratto in tratto petulante, e però mai ridotto al gergazzo filmico, al pieraccionismo d'accatto e di risulta - piuttosto fido d'una linguaccia tra Fucini e Bianciardi (l'"inteccheriva" di p. 114); la Biancarosa napoletanata, ibrida di partenopeo e d'italicano (quel "marito mio" che più sintattico sarebbe "marìtemo", p.138), e tuttavia infalsificata, siccome pregna di vita; la gergalità sessantottina di Terenzio gruppettaro, nella cui filigrana si vorrebbe (e in parte si riesce a) determinare la caratteristica d'un periodo storico di debole forza e di corrotta purezza; l'aulica o comunque padronata cadenza del "barone", il professore universitario che insieme sposa e adotta (Don Giovanni: "hai sposo e padre in me") la giovane e però consapevole allieva; lo sciolto e preteso attuale slang della Giudi, che vuol tradurre in gergo la linea energetica della vita, l'amore come senso e non come direttiva (gran coordinata del testo), e che rivela "il teatro è mostra di sé, discesa in campo. Il teatro è corpo, non solo voce". (p. 211)
E allora: tutte le lingue bastarde rendono la bastardigia dei corpi - praticamente nel testo di cui parliamo non c'è filiazione "naturale". E i corpi in lotta denunciano la lotta dei corpi - il loro rifiuto della pregnanza. Ma su tutto ciò, prevale la realtà: da un lato della morte, dello sterminio, nazifascista. Dall'altro, della rinascita. Ed ecco che ogni difficile parto (personale, particolare) diviene metafora della difficoltà politica (generale) di dar luogo al mondo, alla comunità civile - sebbene, l'abbiamo detto iniziando, gravida dei mostriciattoli del tornaconto, del patteggiamento, dell'inciucio. E' il bel morettismo di Aprile.
Si dirà che, al di là della resa particolare e dunque del senso che l'Autrice sensualmente produce (quando ci riesce) per variazioni di fraseggio nei dialoghi, la caratterizzazione dei personaggi tramite il loro linguaggio dovrebb'essere minima astuzia letteraria, quindi immeritevole, al limite, di nota, e tanto articolata. Eppure: quanti romanzi e novelle oggidì incontriamo, da Lettori, in cui ogni carattere è, di carattere, privo - e allora il professore ottantenne, il bimbo appena pubere, la segretarietta secca e il fannullone frenetico parlano l'identica monolingua statale e statistica? Il che potrebbe anche esser realistico, magari siccome appartengono allo stesso ambiente: ma ciò non esenta l'Autore da dar loro specifico corpo attraverso specifica voce. Lo rende solo più difficile: ed è artista colui al quale le asperità della propria arte dànno idee, non ne tolgono. E se poi non ne sarà capace, ebbene, almeno avrà provato.
Ma basta. Festeggiamo piuttosto nello scritto dell'Ammannati non solo un ritratto problematico dello ieri, in cui la verità ragiona del falso, bensì una costruzione dell'oggi, dove l'infecondità delle generazioni non si chiude all'escluso, ma s'apre all'accoglimento - dove cioè quel ch'è una tragedia del singolo si tramuti o eguagli l'aspirazione o la necessità di tutti.
di Vera Barilla
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Carla Ammannati
La guaritrice di Ventotene
Meridiano Zero, Pag.188 Euro 13,00Lo confesso, più che la vicenda sinteticamente raccontata nel risvolto di copertina, il motivo che mi ha fatto accostare a questo libro è stata la dedica che l'autrice pone all'inizio del romanzo: alla memoria, a me molto cara, di Eugenio Colorni, Camilla Ravera, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, confinati a Ventotene.
Non vorrei essere poco urbano se escludo gli altri, ma mi vorrei soffermare di più su Ernesto Rossi. Come spesso si suol dire: con lui mi son formato le ossa.
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