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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Francesco Maimone

Un grosso e stupido cane bianco

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Tutte le mattine passo davanti al negozio di fiori che c'è all'angolo. E tutte le mattine, comodamente sdraiato davanti alla porta del negozio, c'è questo grosso e stupido cane bianco. Non abbaia, non si alza, non fa un cazzo.

Se ne sta lì a fissarmi con due occhietti senza vita, con la lingua a penzoloni e la bava che finisce sull'asfalto.

Tutte le mattine, da quattro fottuti anni, e mai un accenno di movimento. Io quel cane non so se lo odio, quel che è certo è che non mi piace. E io probabilmente non piaccio a lui. Ma questa mattina me ne frega zero di dedicargli anche un secondo di attenzione, ho altri cazzi che mi girano per la testa. Lei mi ha lasciato e non ho ancora capito il perché. Ha provato a raccontarmelo a modo suo, farfugliando mozziconi di frasi senza senso, ma quando ha finito ne sapevo meno di prima, ossia meno di zero.

Adesso sto andando a casa sua. Per parlare. E sicuro come la merda che mi aspetto delle spiegazioni.

Mi infilo sul primo autobus che passa. Cerco di farmi largo verso un sedile libero. Mi ci siedo con uno scatto da centometrista, soffiandolo ad una vecchia che pensava di fare il viaggio comodo. Mi dispiace nonnina, sarà per il prossimo giro. Ignoro la delusione che si allarga sulla sua faccia rugosa e mi giro dall'altra parte, puntando lo sguardo fuori dal finestrino. Che città del cazzo!

Infilo la mano nella tasca della giacca, trovo quello che cercavo: la canna gelida del ferro è un sollievo per le mie dita. E per i miei nervi. Non ho certo intenzione di sparare a quella vacca deficiente che mi ha mollato così, ma talvolta per farsi dire la verità dalle persone bisogna mettergli paura. Altrimenti non ne cavi fuori niente, solo menzogne, tentennamenti e balbettii.



La strada fino a casa sua è lunga, da qui ci vogliono almeno venti minuti. Questo significa che ho il tempo, ancora una volta, per ripensare a quello che mi ha detto ieri sera al telefono. La troia. "Io voglio un figlio e tu non hai nessuna intenzione di darmelo", ha detto, "non posso aspettarti in eterno, preferisco lasciarti e rifarmi una vita". Che cosa? Tu non lasci me, brutta stronza di una vacca! Ecco cosa le ho risposto. E sono stato fin troppo gentile. Mi lasci perché non voglio un figlio? Che razza di puttana decerebrata!

A parte che io marmocchi da pulirgli il culo non ne voglio, e questo è vero, ma la stronza sa perfettamente che io di figli, anche se ne volessi, non posso avercene. Lo ha detto il dottore dal quale mi ha portato proprio lei. E come si affannava la vaccona demente: "dottore, la prego, mi dica che possiamo avere dei bambini"! Frignava da farmi cascare le palle, poi sì che di ragnetti col moccio al naso non ne avrei potuti fare. Lei sta messa così e quel sapientone con la bocca a buco di culo che fa? Le dice "mi dispiace molto signorina, purtroppo devo darle una delusione. Il suo fidanzato non può avere bambini!"

Tutto questo davanti alle mie orecchie, come se non ci sentissi, come se fossi trasparente. Che razza di modi! Allora lei ha iniziato a piangere più forte. È stato in quel momento che mi è sembrato tutto così surreale da farmi ghignare. Lei se ne è accorta e, cazzo quanto ha strillato. Mi ha fatto fare una figura di merda davanti agli occhi di quei cadaveri che aspettavano il loro turno nella sala d'aspetto. L'ho presa per un braccio e l'ho dovuta trascinare via. Per le scale strillava così forte che per farla stare buona sono stato costretto a darle un calcione di quelli che li senti, dritto dritto sul culo. La stronza è scivolata ed è finita a gambe all'aria.

A me tutta quella messa in scena mi aveva già stufato prima di cominciare. Le avevo detto che non ci volevo andare in quel cazzo di studio medico. Ma ha rotto talmente i coglioni che alla fine non ho saputo più tener botta. Ed ecco il risultato.

La città continua a scorrermi davanti, coi suoi cassonetti che vomitano spazzatura tutto intorno e i disperati che provano a vendere inutili porcherie ad ogni coglione che capita loro a tiro. Ingressi della metropolitana con donne di vent'anni talmente sfatte da dimostrarne cinquanta; studenti rincoglioniti dalla musica ad alto volume sparata dentro al cervello dai loro auricolari; grassi e superbi quattrinai sulle loro moto da diecimila euro; vecchi decrepiti che ad ogni respiro di questo schifo ci rimettono almeno cinque minuti di quel che rimane loro da vivere.

Questo maledetto autobus va troppo lento. Mi costringe a ricordare. Cos'è che mi ha detto quando l'ho scaricata sotto casa? Ah già, "tu mi hai rovinato la vita"! Io? Io che il culo casomai gliel'ho bello che salvato. Se non stava con me chi cazzo vuoi che se la prendeva una zitella cicciona come lei. Con tutte quelle moine davanti a sua madre: "mamma, ti presento Nicola, il mio fidanzato". E io che glielo volevo dire alla cagna bavosa tutta feste per il genero nuovo di zecca: guarda che a me tua figlia serve per svuotare il serbatoio, non ci devo fare altro. Dunque non farti venire strane idee in testa e stai lontana da me, non ti avvicinare. Però mi sa che la vecchia un po' di sale in zucca lo ha sempre avuto, e forse mi ha un filino sgamato, visto che non ci pensava nemmeno per il cazzo ad avere l'entusiasmo della figlia. Si vedeva lontano un miglio che quelle moine erano finte, per far contenta lei. Il massimo dello sforzo che ha fatto è stato cavare un aborto di sorriso da quella faccia di cera e chiedermi se mi andava qualcosa da bere. Porca troia se mi andava. Ero stato al cantiere tutto il giorno e la polvere mi aveva arso la gola. Credevo che prima o poi quel lavoro mi avrebbe fottuto perfino le papille gustative, così poi non avrei sentito più i sapori di quello che mangiavo. Sai che bell'affare!

Io le avrei rovinato la vita, eh. E quando? Che poi lei ha attaccato con 'sta menata dei figli, del futuro e tutto il resto. Io le ho detto: ma se non abbiamo una casa e neanche un euro per comprarcela, mi spieghi come cazzo fai a inventarti tutte queste storie? Apri gli occhi e metti in moto quel piccolissimo pezzetto di cervello che ti rimane in funzione. Prova a ragionare: zero soldi zero casa, questa è la vita baby. E lei fa la più grossa stronzata della sua vita: mi dice che non abbiamo i quattrini perché io me li sputtano alla bisca, a scommettere sulle partite di pallone, e che quelli che rimangono me li bevo al bar. Quella volta sì la pestai di brutto. Ed era quello che si meritava! Ricordo che le diedi un gancio in piena mascella che le si blocco la faccia di traverso, sembrava Totò. Mi feci male alla mano per quanto la colpii forte. Ma quando ci vuole, beh allora ci vuole! Però poi l'ho portata al pronto soccorso per fargliela aggiustare. Mica l'ho lasciata lì, anche se un po' ci ho pensato. Ma non l'ho fatto. No, cazzo, questa me la merito! L'ho trascinata in macchina e siamo schizzati verso l'ospedale. Io guidavo e lei si lamentava come sempre. Certe volte penso non sappia fare altro.

Ancora un paio di fermate e ci siamo. Adesso mi sente di brutto. Gliela sfascio quella testa da bocchinara che si ritrova se non mi dice per filo e per segno come le è venuto in mente di lasciarmi! Che abbia pensato di trovarsi un altro? Magari uno di quei poveri idioti che si lasciano incastrare con tutte le stronzate sulla famiglia e sui figli. Mi viene da vomitare solo a pensarci. Lei con uno di quei tiraseghe mollaccioni che sanno fare solo sissì con la testa. Io no, cazzo. Questo non lo reggo. Sarebbe come se stando con me non avesse comunque imparato un beneamato cazzo di niente! Adesso mi dirà tutto, cazzo se me lo dirà!

Una fermata e ci siamo.

Chissà perché, mi torna in mente il grosso cane bianco del negozio di fiori. La sua sì che è vita, mica deve correre appresso a tutte queste stronzate. Lui se ne sta lì a guardare il mondo che gli passa davanti e si può permettere di fottersene, tanto c'è chi gli da' da mangiare. Non deve mica sbattersi a cercare un lavoro, a pagare le bollette, a inseguire una figa che ti vuole lasciare perché non puoi avere marmocchi. Lui non ha debiti, lui non ha fretta, lui non ha scadenze, lui non perde mai. Un po' mi fa invidia, il bastardo. La sua sì che è una pacchia!

L'autobus si ferma e l'autista apre le porte. Mi fiondo in strada con un salto solo. E corro. Corro verso casa sua. Sono solo un paio di isolati, ma questa strada sembra non finire mai. Strade larghe e macchine che passano, merde di cane sull'asfalto, qualche tossico che abbassa la testa quando gli punto lo sguardo addosso. Faccio lo slalom gigante tra la disperazione che affolla le strade di questa città, nel frattempo raccolgo tutta la rabbia di cui sono capace, la sposto in un punto non meglio definito della mia testa e la tengo lì, circondata da pensieri cattivi per non farla scivolare via. Mi servirà per essere convincente.

Ecco il suo portone. Che splendida giornata, penso mentre suono al citofono. Non risponde.

Lascio passare pochi secondi, poi ci riprovo. Niente.

Mi ci attacco. Nulla, cazzo. Vuoi vedere che non è in casa? Forse avrei dovuto prima telefonarle. Forse no, che se le avessi detto che sarei venuto non si sarebbe fatta trovare apposta. Sta di fatto che sono rimasto appeso davanti a questo portone e non so che fare. Potrei mettermi a cercarla, ma non ne ho voglia neanche per il cazzo.

Di tornarmene a casa mia senza avere avuto delle spiegazione neanche se ne parla.

Lascio rallentare il cervello quel tanto che basta per accorgermi che la corsa fino a qui mi ha fatto venire sete. Lumo il baretto a pochi metri di distanza. Bingo! Un paio di birre e aspetto che torni, così poi facciamo i conti. Muovo il culo verso il primo tavolino libero e mi ci siedo. Dal locale esce un tipo con la faccia butterata e una camicia bianca che deve aver visto tempi migliori.

Ordino al buttero una da sessantasei e quello fa dietrofront manco c'avesse il radiocomando.

Tiro fuori sigarette e accendino e li appoggio sul tavolo. L'omino bianco sporco torna con la mia birra, faccio un cenno di ringraziamento e appresso ci infilo un'occhiata di quelle tipo fuori dai coglioni. Capisce e si leva di torno. La prima sorsata nemmeno la sento, la seconda mi solletica appena la gola, la terza mi rimette al mondo. E più di mezza bottiglia è andata. Sfilo una sigaretta dal pacchetto, la batto un paio di volte sul bordo del tavolino e poi l'accendo. È una situazione che acquieta, per quello che devo fare non dovrei star qui a godermela in questo modo, i nervi mi servono tesi, ma tant'è che 'sticazzi!

Fa caldo. Nella testa inizio a sentire come un ronzio. Non so cos'è, ma mi disturba parecchio. Finisco la birra e tiro fuori il cellulare. Cerco il suo nome in rubrica e la chiamo. Merda, la segreteria!

Dove stracazzo sarà finita?!

Ordino un'altra birra mentre il ronzio si fa più forte. Ormai copre i pensieri. Mi sembra di avere le vertigini, faccio fatica a respirare. Fortuna che sono sulla sedia, altrimenti rischierei di finire steso.

Il cameriere torna col beveraggio. Deve essersi accorto che ho qualcosa che non va o almeno così interpreto l'espressione schifata sulla sua faccia da bastardo.

Ingoio la bevanda ghiacciata che ho davanti e tutto sembra tornare a girare per il verso giusto. Ma è questione di pochi secondi e il ronzio ricomincia più forte di prima. Qui c'è qualcosa che gira storto. Non mi era mai successa una cosa simile, tanto che per un momento mi viene paura di lasciarci le penne. Mi alzo, lascio dei soldi sul tavolino e provo ad avviarmi verso la fermata dell'autobus. Ma ogni passo mi costa una fatica disumana. Barcollo, mi appoggio al muro, mi trascino in avanti ancora per qualche metro. Qui mi tocca andare a casa senza aver concluso un cazzo. Il sudore sulla schiena è freddo come una lastra di ghiaccio e sento il bisogno di sdraiarmi su un letto. Qualche passante, vedendomi in queste condizioni, affretta il movimento delle gambe rinsecchite per eliminarmi dal suo campo visivo.

Sono un'ombra fastidiosa in una meravigliosa giornata di sole.

Finalmente raggiungo la fermata, carico i miei novanta chili su un palo con un segnale stradale. Aspetto.

Il primo mezzo buono per tornare dalle mie parti arriva dopo quella che valuto come un'eternità.

Ci monto sopra. Gli scalini sembrano sabbie mobili, la puzza di chiuso e sudore una rasoiata che finisce dritta contro i miei polmoni. Tossisco un paio di volte, poi riesco ad addomesticare un conato di vomito. Mi guardo intorno: sedili liberi neanche a parlarne. Pakistani, cinesi, bengalesi o sa il cazzo da dove vengono tutti questi bastardi pulciosi. Integrazione e fratellanza un beato paio di coglioni se poi devo star qui ad aspettare che un occhi a mandorla con la faccia da mongolo alzi il suo culo giallo da quella che per me, in questo momento, rappresenta la salvezza divina, un fottuto sedile!

Le mie preghiere rimangono vane per tutto il viaggio.

Del resto, chi avrebbe dovuto ascoltarmi? Non mi faccio più illusioni da un pezzo. Mi sparo il tragitto abbracciato ad un sostegno. E tengo botta.

L'unico problema è rappresentato dalle fermate. Ad ognuna di queste, il mentecatto di autista inchioda, tanto che sembra lo faccia apposta. E a me viene la strizza che da un momento all'altro possa far capolino dalla tasca della mia giacca la pistola che mi sono portato dietro. O peggio, che possa volare via e finire per terra in mezzo a questa manica di imbecilli. Sai che grida isteriche, sai che spettacolo del cazzo!

Tra un salto in avanti e uno all'indietro ripenso alla troia dimmerda, alla questione dei marmocchi, a lei che vuole una vita diversa che con me non può avere, a lei che non mi sopporta più e mi lascia. A me che rimango solo ancora una volta. E ancora una volta sarò costretto a ripulirmi il cervello da tutte quelle cose piacevoli che potevo fare assieme a lei e che da adesso non saranno altro che pezzi di incubi sui quali stare attento a non inciampare. Dovrò ricominciare tutto daccapo, provando a schivare la noia per non sbatterci il muso contro.

E non avrò nulla da toccare se non le mie mani, che si contorceranno l'uno contro l'altra per evitare di sprofondare nel vuoto, specialmente di notte.

Intercetto la mia fermata. Mi muovo per tornare verso casa, ma non so se ne ho proprio voglia.

Il ronzio è passato. Adesso mi sento solo pesante come un sacco da cinquecento chili. Continuo ad avere il respiro corto e il cranio in fiamme.

Non me ne ero accorto, ma sto piangendo.

Merda, sto frignando come un marmocchio. COME-UN-MARMOCCHIO! È per questo che lei non c'è più? È questo che voleva? Beh, cazzo, ci è riuscita.

Provo ad asciugare le lacrime e a tirare su col naso, ma niente. Non so cosa stracazzo mi stia prendendo.

Cos'è questa tenaglia che mi stringe lo stomaco?

Cos'è questo rivolo che mi riga la faccia?

Cos'è questo dolore che sento?

Cerco di darmi un contegno. Non voglio che mi si veda così. Non voglio che mi si veda e basta! Che nessuno si azzardi a guardare la mia faccia!

Provo a recuperare il mio solito sguardo, aggiusto gli angoli della bocca, faccio scrocchiare le dita e respiro più profondo che posso.

Proprio mentre sto per riprendermi, incrocio un paio di occhietti senza vita, la lingua a penzoloni e quel fottuto pelo bianco.

Maledetto grosso bastardo di un demone bianco!

Vuoi prendermi per il culo? Adesso ti faccio vedere io!

Parto diretto verso il negozio di fiori. Arrivo ad un passo dal suo muso ridicolo. Mi inginocchio e gli punto contro il mio. Lo avrà visto mille volte, ma mai da questa distanza. Il sacco di pulci non batte ciglio. Non un movimento, non una reazione. Mi fissa e basta.

Avvicino ancora di più la testa alla sua.

Adesso siamo occhi negli occhi, i suoi completamente inespressivi, i miei disperati e cattivi. Restiamo così per qualche secondo. Ci scambiamo l'anima, ci scambiamo anche i corpi. Io sono lui e lui è me.

Con un rapido gesto tiro fuori il ferro dalla giacca e lo punto dove devo puntarlo.

Ancora un secondo di vita. Infine, premo il grilletto.



















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