RECENSIONI
Alessandro Agostinelli
Un mondo perfetto. Gli otto comandamenti dei fratelli Coen.
Edizioni Controluce, Pag. 116 Euro 16,00
Il saggio di Alessandro Agostinelli affronta, prima che il cinema dei fratelli Coen, un ampio regesto di opinioni, letture e interpretazioni che quel cinema ha suscitato: in esso infatti sembrano coincidere tutte le condizioni perché la critica (decente o farlocca) si eserciti a piene mani. E qui la parentesi è lunga ma necessaria. Negli ultimi decenni, accanto alla critica addestrata, ossia avvezza a crearsi gli strumenti di una conoscenza minima della storia tout court e della storia letteraria – senza le quali il cinema è mero spettacolo - si è beatamente affiancato un esercito di sedicenti cinephiles a digiuno di tutto tranne che di festival – basta farsi un giro in rete per imbattersi in schiere di coglioni che non sanno chi siano Jean Renoir o René Clair o Pabst ma sanno tutto sull'ultimo guitto che durante le riprese dell'unico film del solito stronzetto figlio del papà imprenditore di mortadella datosi al cinema si è scopato "quella che aveva pure lavorato in televisione ma poi non se n'è saputo più niente". Sui loro profili facebook di pischelli fabbricati in Dams, leggi "critico cinematografico" - quando noi in Italia avremmo bisogno di agronomi, geologi, genetisti.
Ora, leggendo il volume di Agostinelli quest'aria ammiccante che imperversa nel cicaleccio cinematografaro, che gioca con una lingua da "addetti ai lavori", farebbe capolino da subito essendo il cinema dei Coen ricco di "storia del cinema", dunque idoneo come pochi altri a essere interpretato. Così, il libro è ingolfato di citazioni, articoli apparsi su riviste specializzate, testimonianze, autorecensioni beffarde degli stessi irriverenti fratellini...
Fortuna che Agostinelli il loro cinema se l'è sciroppato a lungo e sa quel che dice. Il suo punto di vista è onestamente schierato a favore di una lettura entusiastica tesa a smentire l'assunto di un cinema autoreferenziale, cosa che piace molto agli ambienti di cui sopra. Contro l'idea che i fiim dei Coen possano ridursi a mero gioco intertestuale e postmoderno con la tradizione filmica, Agostinelli vede bene che il gioco se c'è è serio, dato che investe, attraverso il cinema, l'immaginario stesso dell'America – il che, una lettura delle cose attraverso il filtro delle forme usate per raccontarle, è un modo per un artista legittimo quanto forse obbligato di pronunciarsi. Gli eroi e i miti americani, spesso tradotti nell'intero Occidente, li abbiamo in fondo letti (d)al cinema - nello specifico i due fratelli hanno privilegiato gli antieroi, i perdenti, gli scavezzacollo, gli sbandati anche raffinati per scrivere una critica più etica che politica del capitalismo.
Cinema dunque di personaggi quello dei Coen, segnato secondo Agostinelli da Preston Sturges come da Hitchcock, dentro una lingua sì manierista, spesso di ambientazione noir, non dimentica di Hammett e Chandler, di grande e consapevole sagacia tecnica, per un risultato finale che però mette d'accordo principi autoriali e mercato (fra i pochi, i Coen, ricorda l'autore di questo saggio che possano godere del "final cut", del diritto all'ultima parola a prescindere dalla volontà dei produttori). In otto capitoli, si mostrano "la bottega rinascimentale" dei Coen, una certa idea di lavoro collettivo, analoga a quella dei Taviani, in cui anche fra i due, a prescindere dai titoli di coda, non è chiaro chi ha fatto cosa; il modo di lavorare, il ricorso a oggetti leitmotiv nei singoli film, le stratificazioni plurime sull'inquadratura, i ribaltamenti rispetto alla tradizione, le variazioni alla commedia o al western, lo storyboard hitchcockiano etc. il ventaglio di opinioni su ognuno – personalmente dissentirei sulla gerarchia, trovando Barton Fink, e L'uomo che non c'era ben superiori ad altri.
Non mancano le schede finali dei film. A parte l'eccesso di frammentazione discorsiva dovuta alle troppe note, alle troppe confutazioni o pezze d'appoggio, motivate però dal bisogno di offrire un panorama aggiornato e pressoché esauriente della bibliografia sull'argomento, un bel libro.
di Michele Lupo
Ora, leggendo il volume di Agostinelli quest'aria ammiccante che imperversa nel cicaleccio cinematografaro, che gioca con una lingua da "addetti ai lavori", farebbe capolino da subito essendo il cinema dei Coen ricco di "storia del cinema", dunque idoneo come pochi altri a essere interpretato. Così, il libro è ingolfato di citazioni, articoli apparsi su riviste specializzate, testimonianze, autorecensioni beffarde degli stessi irriverenti fratellini...
Fortuna che Agostinelli il loro cinema se l'è sciroppato a lungo e sa quel che dice. Il suo punto di vista è onestamente schierato a favore di una lettura entusiastica tesa a smentire l'assunto di un cinema autoreferenziale, cosa che piace molto agli ambienti di cui sopra. Contro l'idea che i fiim dei Coen possano ridursi a mero gioco intertestuale e postmoderno con la tradizione filmica, Agostinelli vede bene che il gioco se c'è è serio, dato che investe, attraverso il cinema, l'immaginario stesso dell'America – il che, una lettura delle cose attraverso il filtro delle forme usate per raccontarle, è un modo per un artista legittimo quanto forse obbligato di pronunciarsi. Gli eroi e i miti americani, spesso tradotti nell'intero Occidente, li abbiamo in fondo letti (d)al cinema - nello specifico i due fratelli hanno privilegiato gli antieroi, i perdenti, gli scavezzacollo, gli sbandati anche raffinati per scrivere una critica più etica che politica del capitalismo.
Cinema dunque di personaggi quello dei Coen, segnato secondo Agostinelli da Preston Sturges come da Hitchcock, dentro una lingua sì manierista, spesso di ambientazione noir, non dimentica di Hammett e Chandler, di grande e consapevole sagacia tecnica, per un risultato finale che però mette d'accordo principi autoriali e mercato (fra i pochi, i Coen, ricorda l'autore di questo saggio che possano godere del "final cut", del diritto all'ultima parola a prescindere dalla volontà dei produttori). In otto capitoli, si mostrano "la bottega rinascimentale" dei Coen, una certa idea di lavoro collettivo, analoga a quella dei Taviani, in cui anche fra i due, a prescindere dai titoli di coda, non è chiaro chi ha fatto cosa; il modo di lavorare, il ricorso a oggetti leitmotiv nei singoli film, le stratificazioni plurime sull'inquadratura, i ribaltamenti rispetto alla tradizione, le variazioni alla commedia o al western, lo storyboard hitchcockiano etc. il ventaglio di opinioni su ognuno – personalmente dissentirei sulla gerarchia, trovando Barton Fink, e L'uomo che non c'era ben superiori ad altri.
Non mancano le schede finali dei film. A parte l'eccesso di frammentazione discorsiva dovuta alle troppe note, alle troppe confutazioni o pezze d'appoggio, motivate però dal bisogno di offrire un panorama aggiornato e pressoché esauriente della bibliografia sull'argomento, un bel libro.
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