RECENSIONI
Hubert Mingarelli
Un pasto in inverno
Nutrimenti, Traduzione di Federica Romanò, Pag. 112 Euro 12,00
Nella giornata dei soldati al fronte il tempo si distorce in dimensioni irreali. A volte può dilatarsi al punto che un singolo gesto sembri eterno, altre volte in un attimo si gioca il senso di una vita. Ancora più irreale è la situazione se lo scenario è quello della Polonia sommersa dalla neve, se i soldati sono tedeschi imprigionati nell’ingranaggio di una guerra insensata, e se il loro compito quotidiano è quello di fucilare stuoli di ebrei, che devono essere eliminati dalla faccia della terra solo e semplicemente perché sono ebrei. Allora, quando la campana di ferro chiama all’appello nel gelo del cortile, come può non venire la tentazione di darsi malati? Ma questo non può funzionare tutti i giorni. Un soldato è riuscito a esimersi definitivamente dall’uso delle armi improvvisandosi cuoco, e in questo modo si risparmia il compito delle carneficine. I tre protagonisti del romanzo devono inventarsi qualche altra scusa. Si offrono dunque volontari per un rastrellamento nel desolato oceano di neve che li circonda. Marceranno nel freddo senza nemmeno il conforto della colazione del mattino, perché ad aspettare troppo correrebbero il rischio che qualcuno ci ripensi. Dopotutto hanno ottenuto la missione aggirando il loro diretto superiore. Allora via nella neve, con il solo conforto di una sigaretta stretta fra le dita gelate nei rari momenti di sosta. Le loro fantasie, i sogni e i malumori si ingrandiscono come bolle in cui la mente si apparta per resistere alla stretta di una realtà claustrofobica. Si è creato fra loro un rapporto di solidarietà che li rende amici e complici, così che finiscono per condividere nello stesso tempo il cammino e i pensieri.
… quello che seguì fu un silenzio strano. E in quel silenzio lessi che il latte caldo lo vedevano in sogno, adesso, come me. Ci camminavano insieme, e gli pesava. (…) Il loro sogno di latte caldo rendeva il mio meno doloroso.
Non hanno grandi probabilità di scovare, in quel gelo, degli ebrei fuggitivi. E forse è meglio così. Ma se torneranno a mani vuote sarà difficile ottenere il permesso per una nuova missione. Nel frattempo, in marcia sulla distesa di neve che è la grande co-protagonista della storia, preferiscono concentrarsi sull’immediato.
A volte scivolavo e toccavo Emmerich e Bauer. Il contatto mi rassicurava. Parecchi minuti dopo aver sentito un braccio o una spalla me ne ricordavo ancora, lo sentivo ancora fisicamente.
Rassegnati come sono a una perlustrazione inutile, buona solo per schivare incombenze peggiori, i tre commilitoni rimangono spiazzati dalla scoperta che in quella landa desolata c’è davvero un nascondiglio, e c’è davvero un ebreo che vi si è rifugiato per trovare scampo alla morte. La docilità dell’uomo, che non resiste e non si ribella alla cattura, rende il loro compito più difficile. L’alternativa è crudele: riportarlo al campo significa consegnarlo alla morte, ma anche guadagnarsi il permesso di spendere un’altra giornata in missione all’aria aperta; lasciarselo scappare vorrebbe dire tornare ad eseguire fucilazioni per tutti i giorni seguenti.
Lo stile è essenziale, le frasi brevi, quasi scandite dal respiro dei protagonisti. Le loro emozioni si rivelano in pochi tratti, come il vapore che nel gelo si condensa davanti alla bocca. Il silenzio, pieno di cose non dette, aiuta più della parola ad entrare nella loro intimità.
Ogni tanto la monotonia della marcia, che il narratore descrive in prima persona, è squarciata dall’irrompere di flash che si riferiscono al futuro, ad eventi tragici che prima o poi separeranno il terzetto. Così che la storia, rigorosamente focalizzata sul qui e ora, risuona di un’eco più ampia e inquietante, come a ricordare che il presente rimane sempre inserito in una storia più grande, in cui tutte le carte possono scombinarsi.
Dell’assurdità della guerra, dell’atrocità dello sterminio, si dice poco riuscendo, con quel poco, a far sentire molto. Pregio di un romanzo che fonda, sul suo taglio minimalista, una straordinaria intensità.
di Giovanna Repetto
… quello che seguì fu un silenzio strano. E in quel silenzio lessi che il latte caldo lo vedevano in sogno, adesso, come me. Ci camminavano insieme, e gli pesava. (…) Il loro sogno di latte caldo rendeva il mio meno doloroso.
Non hanno grandi probabilità di scovare, in quel gelo, degli ebrei fuggitivi. E forse è meglio così. Ma se torneranno a mani vuote sarà difficile ottenere il permesso per una nuova missione. Nel frattempo, in marcia sulla distesa di neve che è la grande co-protagonista della storia, preferiscono concentrarsi sull’immediato.
A volte scivolavo e toccavo Emmerich e Bauer. Il contatto mi rassicurava. Parecchi minuti dopo aver sentito un braccio o una spalla me ne ricordavo ancora, lo sentivo ancora fisicamente.
Rassegnati come sono a una perlustrazione inutile, buona solo per schivare incombenze peggiori, i tre commilitoni rimangono spiazzati dalla scoperta che in quella landa desolata c’è davvero un nascondiglio, e c’è davvero un ebreo che vi si è rifugiato per trovare scampo alla morte. La docilità dell’uomo, che non resiste e non si ribella alla cattura, rende il loro compito più difficile. L’alternativa è crudele: riportarlo al campo significa consegnarlo alla morte, ma anche guadagnarsi il permesso di spendere un’altra giornata in missione all’aria aperta; lasciarselo scappare vorrebbe dire tornare ad eseguire fucilazioni per tutti i giorni seguenti.
Lo stile è essenziale, le frasi brevi, quasi scandite dal respiro dei protagonisti. Le loro emozioni si rivelano in pochi tratti, come il vapore che nel gelo si condensa davanti alla bocca. Il silenzio, pieno di cose non dette, aiuta più della parola ad entrare nella loro intimità.
Ogni tanto la monotonia della marcia, che il narratore descrive in prima persona, è squarciata dall’irrompere di flash che si riferiscono al futuro, ad eventi tragici che prima o poi separeranno il terzetto. Così che la storia, rigorosamente focalizzata sul qui e ora, risuona di un’eco più ampia e inquietante, come a ricordare che il presente rimane sempre inserito in una storia più grande, in cui tutte le carte possono scombinarsi.
Dell’assurdità della guerra, dell’atrocità dello sterminio, si dice poco riuscendo, con quel poco, a far sentire molto. Pregio di un romanzo che fonda, sul suo taglio minimalista, una straordinaria intensità.
di Giovanna Repetto
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Hubert Mingarelli
L’uomo che aveva sete
Nutrimenti, Pag. 123 Euro 12,00Densità e rarefazione mi pare costituiscano la cifra di Mingarelli. Un ossimoro che ben si applica al già recensito Un pasto in inverno. Non posso fare a meno di ricordare quel romanzo parlando di questo. Li accomunano temi come la guerra e i rapporti incerti fra gli uomini, là dove l’essere alleati o nemici è solo una variabile fra tante.
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