CLASSICI
Alfredo Ronci
Un proto-socialista quasi per sbaglio: “Gli Ammonitori” di Giovanni Cena.
E’ un romanzo questo che raccoglie in sé elementi di fine secolo (secolo ottocento, ovviamente) e fruizioni del secolo che era appena iniziato. Ricordiamo che Gli Ammonitori esce a puntate sulla “Nuova Antologia” tra il primo luglio e il quindici agosto 1903.
Cosa diceva del suo libro Giovanni Cena? In una lettera che scrisse ad un suo critico-lettore affermava: … Riceverà a giorni il mio romanzo Gli Ammonitori. Lo si troverà socialista, individualista, anarchico, ecc, ecc., esso non è che mio. Non glielo raccomando come si raccomanda un libro a chi scrive di essi. Per chi lo capirà è una parola di rinnovamento; per gli amatori di lettere amene è un romanzo sbagliato. Si condanni il romanzo, se si vuole, ma se ne adottino le idee. Mi basta.
Vediamo dunque i suoi contenuti. L’ambiente è quello di alcune soffitte di una casa di un rione popolare di Torino, in un’epoca non determinata, ma che la si colloca all’inizio del ventesimo secolo. Il narratore (attenzione: il testo è in prima persona e viene usato l’espediente classico del manoscritto ritrovato) è una specie di Jacopo Ortis, un pochino meno individualista, che tenta di riparare alle assenze e alle mancanze di altri personaggi, tra i quali un poeta tisico, la di lui compagna, un pittore e una dottoressa filantropa che molto probabilmente, nella Torino positivista, si rifà a Gina, la figlia di Cesare Lombroso, che svolge il suo apostolato nelle miserrime soffitte della città.
C’è dunque tutto un dramma in questo ambiente (per esempio morirà il poeta tisico e morirà di parto pure la ragazza sedotta, per non parlare della galera per il pittore) ma quello che in qualche modo più sconvolge la narrazione, come avrebbe detto Calvino, che curò la presente edizione è soprattutto una vibrazione speciale in cui si riconosce, tra la disperazione esistenziale e sociale, lo stoicismo volontaristico che, al di là delle espressioni declamatorie di questo testo, può essere inteso come una chiave dello spirito di Torino, e resterà come un sottofondo implicito dietro a voci ben più secche e lucide.
Tra l’altro si è parlato molto della vicinanza di Cena alle istanze socialiste: al di là della lettera che abbiamo già riportato, nello stesso romanzo vi sono degli appunti che fanno pensare ad un pensiero più umanista che socialista del protagonista. Tipo: Io credo che desiderare la pace non significhi viltà, ma elevazione nel tipo umano. Il pugno massiccio è dell’antropopiteco.
Oppure: Delle diverse sorta di socialismo avevo poca conoscenza, ma soprattutto mi scontentava in esse l’importanza eccessiva accordata al denaro, a tutto quello che forma bensì la condizione sine qua non dell’esistenza, ma che di per sé è troppo poco.
Per concludere, l’appunto conclusivo che fa il doppio col contenuto della lettera all’amico critico riportato all’inizio: Sono io socialista o individualista? Non lo so. Soni io. Ecco un’umile affermazione che non intende punto esagerare il mio posto nell’umanità e nell’universo.
O forse siamo di fronte ad un pacifismo socialista? Da una parte, in verità ci sono ancora gli appigli di un vitalismo dannunziano. Dall’altra sta maturando la teorizzazione della violenza futurista. Per non parlare poi di quel movimento che avrebbe depredato qualsiasi evoluzione: il fascismo.
Anche la fine che l’eroe della storia ha deciso di effettuare (suicidarsi cioè, facendosi travolgere dalla macchina del re) ha veramente poco di socialista. E a questo proposito va ricordato che tale fine fu anche riconsiderata dal Cena, tanto che, in alcune edizioni del libro, a cominciare da questa curata da Calvino, non c’è, o meglio, passa in secondo piano.
Cena fu molto attivo politicamente. Per esempio, accanto a Sibilla Aleramo percorse l’Agro Pontino, allora poverissimo e infestato dalla malaria, svolgendo un’attività pedagogica e assistenziale che si concretizzò nella realizzazione di oltre settanta scuole in quella regione sottosviluppata.
Ci chiediamo chissà come il Cena avrebbe reagito all’arrivo della marcia su Roma. Non lo possiamo dire, anche se le sue posizioni umane e pacifiste di sicuro si sarebbero scontrate col decisionismo violento e affaristico del regime. Morì a Roma nel 1917, colpito da polmonite fulminante, mentre organizzava i soccorsi e l’assistenza per i profughi serbi.
L’edizione da noi considerata è:
Giovanni Cena
Gli Ammonitori
Einaudi - Centopagine
Cosa diceva del suo libro Giovanni Cena? In una lettera che scrisse ad un suo critico-lettore affermava: … Riceverà a giorni il mio romanzo Gli Ammonitori. Lo si troverà socialista, individualista, anarchico, ecc, ecc., esso non è che mio. Non glielo raccomando come si raccomanda un libro a chi scrive di essi. Per chi lo capirà è una parola di rinnovamento; per gli amatori di lettere amene è un romanzo sbagliato. Si condanni il romanzo, se si vuole, ma se ne adottino le idee. Mi basta.
Vediamo dunque i suoi contenuti. L’ambiente è quello di alcune soffitte di una casa di un rione popolare di Torino, in un’epoca non determinata, ma che la si colloca all’inizio del ventesimo secolo. Il narratore (attenzione: il testo è in prima persona e viene usato l’espediente classico del manoscritto ritrovato) è una specie di Jacopo Ortis, un pochino meno individualista, che tenta di riparare alle assenze e alle mancanze di altri personaggi, tra i quali un poeta tisico, la di lui compagna, un pittore e una dottoressa filantropa che molto probabilmente, nella Torino positivista, si rifà a Gina, la figlia di Cesare Lombroso, che svolge il suo apostolato nelle miserrime soffitte della città.
C’è dunque tutto un dramma in questo ambiente (per esempio morirà il poeta tisico e morirà di parto pure la ragazza sedotta, per non parlare della galera per il pittore) ma quello che in qualche modo più sconvolge la narrazione, come avrebbe detto Calvino, che curò la presente edizione è soprattutto una vibrazione speciale in cui si riconosce, tra la disperazione esistenziale e sociale, lo stoicismo volontaristico che, al di là delle espressioni declamatorie di questo testo, può essere inteso come una chiave dello spirito di Torino, e resterà come un sottofondo implicito dietro a voci ben più secche e lucide.
Tra l’altro si è parlato molto della vicinanza di Cena alle istanze socialiste: al di là della lettera che abbiamo già riportato, nello stesso romanzo vi sono degli appunti che fanno pensare ad un pensiero più umanista che socialista del protagonista. Tipo: Io credo che desiderare la pace non significhi viltà, ma elevazione nel tipo umano. Il pugno massiccio è dell’antropopiteco.
Oppure: Delle diverse sorta di socialismo avevo poca conoscenza, ma soprattutto mi scontentava in esse l’importanza eccessiva accordata al denaro, a tutto quello che forma bensì la condizione sine qua non dell’esistenza, ma che di per sé è troppo poco.
Per concludere, l’appunto conclusivo che fa il doppio col contenuto della lettera all’amico critico riportato all’inizio: Sono io socialista o individualista? Non lo so. Soni io. Ecco un’umile affermazione che non intende punto esagerare il mio posto nell’umanità e nell’universo.
O forse siamo di fronte ad un pacifismo socialista? Da una parte, in verità ci sono ancora gli appigli di un vitalismo dannunziano. Dall’altra sta maturando la teorizzazione della violenza futurista. Per non parlare poi di quel movimento che avrebbe depredato qualsiasi evoluzione: il fascismo.
Anche la fine che l’eroe della storia ha deciso di effettuare (suicidarsi cioè, facendosi travolgere dalla macchina del re) ha veramente poco di socialista. E a questo proposito va ricordato che tale fine fu anche riconsiderata dal Cena, tanto che, in alcune edizioni del libro, a cominciare da questa curata da Calvino, non c’è, o meglio, passa in secondo piano.
Cena fu molto attivo politicamente. Per esempio, accanto a Sibilla Aleramo percorse l’Agro Pontino, allora poverissimo e infestato dalla malaria, svolgendo un’attività pedagogica e assistenziale che si concretizzò nella realizzazione di oltre settanta scuole in quella regione sottosviluppata.
Ci chiediamo chissà come il Cena avrebbe reagito all’arrivo della marcia su Roma. Non lo possiamo dire, anche se le sue posizioni umane e pacifiste di sicuro si sarebbero scontrate col decisionismo violento e affaristico del regime. Morì a Roma nel 1917, colpito da polmonite fulminante, mentre organizzava i soccorsi e l’assistenza per i profughi serbi.
L’edizione da noi considerata è:
Giovanni Cena
Gli Ammonitori
Einaudi - Centopagine
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