CLASSICI
Alfredo Ronci
Uno scrittore che si è voluto censurare: “I superflui” di Dante Arfelli.
Diceva Arfelli in una intervista rilasciata in età avanzata: Rimasi solo, ma continuai a scrivere e a mandare racconti ai giornali… che me li respingevano regolarmente. Dicevano grazie, ma avevano già i loro collaboratori! Mi stancai. Adesso, dissi, scrivo un romanzo; se ci riesco bene, se no smetto di scrivere.
Quel romanzo, che inizialmente si chiamava La sera, era effettivamente I superflui. Sempre Arfelli dice d’averlo scritto in dieci giorni e che in mente aveva, anche se parzialmente, i nomi di Hemingway, di Tennessee Williams e del nostro Giuseppe Berto, soprattutto del suo romanzo Il cielo è rosso.
Il romanzo non solo è ben visto da una parte della critica italiana (se ne interessò inizialmente Gino Montesanto, in seguito arrivò il benestare di Aldo Palazzeschi e Piero Pancrazi), ma addirittura nel 1949 vince il premio letterario Venezia (precursore del Campiello). Di più: ottiene la traduzione negli Stati Uniti vendendo circa un milione di copie e diventando uno dei nomi più in vista della nostra letteratura.
Arfelli andò ancora avanti; pubblicò, nonostante varie critiche da parte di altri intellettuali italiani (Barberi Squarotti scrive… più apparente che autentica, in confronto con la consueta linearità delle descrizioni di guerra) La quinta generazione, ma dopo questo lavoro iniziò la fase discendente dell’autore fino alla quasi completa scomparsa.
I motivi? Già alle critiche degli intellettuali, in una intervista a Mario Picchi diceva: Pare proprio che i più conosciuti all’estero siano i più ignorati da noi. Poi insiste affermando che è tutto fumo e che gli dei sono fantocci di cartapesta, sono tranquillo, lavoro con calma, bado a me stesso e a far meglio che posso. Se non fosse un vizio o una malattia, smetterei anche di scrivere. Si starebbe così bene a fare altre cose. Chi ci inchioda al tavolino?
In realtà quello che lui chiama vizio o addirittura malattia lo prende a tal punto che dopo il secondo libro non pubblica più. Il suo lungo silenzio terminerà nel 1975 con la raccolta di racconti Quando c’era la pineta (oggetto praticamente introvabile) e nel 1993 con lo straziante resoconto autobiografico Ahimé, povero me.
Cos’è allora che convinse molti italiani (al milione di copie vendute negli USA si aggiungano le centoventimila copie del panorama nazionale) a confrontarsi con I superflui e a farlo diventare uno straordinario libro di prestigio?
Fondamentalmente è un’opera del dopoguerra, che racconta dei problemi che affronta un giovane alle prese col lavoro: Luca abbandona la provincia ed emigra a Roma nella speranza di fuggire alla miseria. Ha con sé due lettere di raccomandazione (una del parroco e l’altra di un politico socialista del suo paese) con le quali spera di fare qualcosa. Quel qualcosa che non arriva, nonostante l’appoggio di Lidia, una ragazza che fa la prostituta e che lo accoglie appena sceso dal treno che lo ha portato a Roma e di altri due amici, l’utopista politico Luigi e l’attivista Alberto che lo introduce in un ambiente borghese che sembra fatto apposta perché si creino delle condizioni, condizioni che poi non si realizzeranno.
Ma non c’è rimedio alla noia e alla disperazione. Dice Lidia, la ragazza… Sono già due volte che spero nell’anno nuovo – disse Lidia – Voglio dire che spero di arrivare a un risultato. Prima, da ragazza, speravo negli anni nuovi, così senza sapere niente di preciso.
La morte la sorprenderà alla fine, quando farà capire a Luca di esserne innamorata.
Dice ancora Arfelli a Paolo Crepet in una intervista nel 1994… Il mio tempo si è riempito di fobie… fobie di morte senza aver paura di morire… giravo da un dottore all’altro da una clinica all’altra.
Siamo di fronte, nuovamente, ad uno scrittore che meritava (per carità, siamo lontani da una statura da Oscar), che avrebbe sicuramente offerto qualcosa di più di questa misera bibliografia che c’è rimasta. Va riletto, cominciando proprio da I superflui, che forse ha ottenuto il grande successo che ha avuto per una elementare visione della vita.
L’edizione da noi considerata è:
Dante Arfelli
I superflui
Rizzoli
Quel romanzo, che inizialmente si chiamava La sera, era effettivamente I superflui. Sempre Arfelli dice d’averlo scritto in dieci giorni e che in mente aveva, anche se parzialmente, i nomi di Hemingway, di Tennessee Williams e del nostro Giuseppe Berto, soprattutto del suo romanzo Il cielo è rosso.
Il romanzo non solo è ben visto da una parte della critica italiana (se ne interessò inizialmente Gino Montesanto, in seguito arrivò il benestare di Aldo Palazzeschi e Piero Pancrazi), ma addirittura nel 1949 vince il premio letterario Venezia (precursore del Campiello). Di più: ottiene la traduzione negli Stati Uniti vendendo circa un milione di copie e diventando uno dei nomi più in vista della nostra letteratura.
Arfelli andò ancora avanti; pubblicò, nonostante varie critiche da parte di altri intellettuali italiani (Barberi Squarotti scrive… più apparente che autentica, in confronto con la consueta linearità delle descrizioni di guerra) La quinta generazione, ma dopo questo lavoro iniziò la fase discendente dell’autore fino alla quasi completa scomparsa.
I motivi? Già alle critiche degli intellettuali, in una intervista a Mario Picchi diceva: Pare proprio che i più conosciuti all’estero siano i più ignorati da noi. Poi insiste affermando che è tutto fumo e che gli dei sono fantocci di cartapesta, sono tranquillo, lavoro con calma, bado a me stesso e a far meglio che posso. Se non fosse un vizio o una malattia, smetterei anche di scrivere. Si starebbe così bene a fare altre cose. Chi ci inchioda al tavolino?
In realtà quello che lui chiama vizio o addirittura malattia lo prende a tal punto che dopo il secondo libro non pubblica più. Il suo lungo silenzio terminerà nel 1975 con la raccolta di racconti Quando c’era la pineta (oggetto praticamente introvabile) e nel 1993 con lo straziante resoconto autobiografico Ahimé, povero me.
Cos’è allora che convinse molti italiani (al milione di copie vendute negli USA si aggiungano le centoventimila copie del panorama nazionale) a confrontarsi con I superflui e a farlo diventare uno straordinario libro di prestigio?
Fondamentalmente è un’opera del dopoguerra, che racconta dei problemi che affronta un giovane alle prese col lavoro: Luca abbandona la provincia ed emigra a Roma nella speranza di fuggire alla miseria. Ha con sé due lettere di raccomandazione (una del parroco e l’altra di un politico socialista del suo paese) con le quali spera di fare qualcosa. Quel qualcosa che non arriva, nonostante l’appoggio di Lidia, una ragazza che fa la prostituta e che lo accoglie appena sceso dal treno che lo ha portato a Roma e di altri due amici, l’utopista politico Luigi e l’attivista Alberto che lo introduce in un ambiente borghese che sembra fatto apposta perché si creino delle condizioni, condizioni che poi non si realizzeranno.
Ma non c’è rimedio alla noia e alla disperazione. Dice Lidia, la ragazza… Sono già due volte che spero nell’anno nuovo – disse Lidia – Voglio dire che spero di arrivare a un risultato. Prima, da ragazza, speravo negli anni nuovi, così senza sapere niente di preciso.
La morte la sorprenderà alla fine, quando farà capire a Luca di esserne innamorata.
Dice ancora Arfelli a Paolo Crepet in una intervista nel 1994… Il mio tempo si è riempito di fobie… fobie di morte senza aver paura di morire… giravo da un dottore all’altro da una clinica all’altra.
Siamo di fronte, nuovamente, ad uno scrittore che meritava (per carità, siamo lontani da una statura da Oscar), che avrebbe sicuramente offerto qualcosa di più di questa misera bibliografia che c’è rimasta. Va riletto, cominciando proprio da I superflui, che forse ha ottenuto il grande successo che ha avuto per una elementare visione della vita.
L’edizione da noi considerata è:
Dante Arfelli
I superflui
Rizzoli
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