RECENSIONI
Maurizio Chiararia
Alfabetario
Campanotto Editore, Pag. 96 Euro 12,00
La mia espressione deriva forse proprio da un'incapacità ad esprimermi. Non impossibilità, ma incapacità (...) Sono sempre arretrato rispetto al reale, mi devo arrampicare per raggiungere una forma, quale che essa sia, non poggiando su nulla di concreto, né risultati né prospettive.
La percezione dolorosa – quasi fisicamente dolorosa – del divario fra pensiero e parola, fra parola e realtà, sembra essere il filo conduttore di questo libro. Libro che non è tanto un diario, quanto la riscoperta di un diario.
Si tratta di un diario giovanile, lungo quanto la sequenza dei giorni di un anno, e però scritto nell'arco di dieci anni, dal 1962 al 1972. Datato, ma proprio l'atto di darlo alle stampe appare, nelle intenzioni dell'Autore, non la pura conclusione di un progetto a suo tempo accantonato o sospeso, non il rimedio a un atto mancato, bensì la scelta attiva di praticare un'archeologia di sé, fra esperimento e memoria, quindi un ulteriore passo di una ricerca mai interrotta.
Devo distaccarmi sempre di più dall'atto di scrivere per vivere nelle parole reali. Questi vaneggiamenti di realtà, questi scatti della mente si raccolgono in parole troppo nude per contenere un ritmo così grande. L'attrito tra la vita e me è lo stesso che tra me e le parole.
Ho parlato di diario forse impropriamente (e soprattutto per la struttura, in 365 punti, assimilabili ai giorni dell'anno). Ma non troverete, in questo sfogo giovanile, né il giovane Werther né il giovane Holden, perché il dato biografico è assolutamente secondario rispetto al travaglio del pensiero.
Vivo di accostamenti, di approssimazioni alla realtà. Io non creo, delimito,non suscito,astraggo. Ormai il mio cammino è in questa correzione di temi della vita e com'è pesante correggere sapendosi corretto fin nel profondo della propria conoscenza (...) Ogni cosa che mi passa davanti non ha più la sua vergine forza, è stata contagiata dal mio sguardo.
Vi compaiono poesie, riflessioni, aforismi. A tratti lampi di genialità assoluta:
Lo scrivere è convalescenza dalla realtà.
Spesso lo scrittore cita brani o frasi di altri scrittori, e non è certo uno sterile esercizio. Sembra piuttosto quel processo per cui – e lo dico in termini ottocenteschi perché si addicono all'idea – questi scritti danno nutrimento allo spirito del giovane in formazione.
Viene spontaneo domandarsi se questo recupero integrale di uno scritto giovanile come se fosse una scoperta, un inedito di un autore famoso, non sia altro che espressione di un mostruoso narcisismo che porta a fare di sé il soggetto e l'oggetto del proprio lavoro, in una spirale solipsistica. Bene, mi sono venute in mente tre risposte. Primo: solipsistico non è, perché comunque non si può negare che tratti di temi universali sempre attuali perché mai risolti. Secondo: il narcisismo è fisiologico, perché ogni artista ha come primo strumento se stesso, e non può parlare al mondo se non attraverso la propria esperienza individuale, che proprio perché irripetibile definisce la creazione artistica rispetto alla produzione seriale. Infine la terza considerazione, che mi pare la più interessante: ho l'impressione che l'Autore si sia accostato ai suoi scritti giovanili con la commozione e la sacralità di chi sente che esiste nella vita di ognuno un'età privilegiata, in cui ancora le esigenze del quotidiano non hanno riscosso il loro tributo, e in cui un particolare stato di grazia favorisce l'intuizione, consentendo di avvicinarsi (in un modo che mai più sarà possibile) all'essenza della realtà. E' un momento in cui si è in grado di sopportare, sia pure con dolore, la tensione verso risposte che già si avvertono irraggiungibili, e da cui poi, dopo un po' di anni, ci salverà la routine e l'adozione di schemi consolidati.
Dice bene nella presentazione:
Ogni pagina del diario cerca di descrivere le circostanze astratte e concrete entro le quali la parola nasce e prende forma, riflessioni a freddo sullo stesso fare poetico, senza fare poesia, ma subendola soltanto, quasi fosse un altro ad aver scritto quei testi, o meglio il tempo che li ha custoditi e ritrovati. Come fossero frammenti di un diario più ampio di uno scrittore sconosciuto, magari scoperto e tradotto da una lingua straniera, il cui linguaggio non abbia trovato una compiuta forma letteraria, ma abbia subito un'amputazione di significato, viva e scorra adesso senza senso e senza sensi sotto gli occhi del lettore.
La creazione del libro si gioca dunque su piani sovrapposti: il giovane che ha scritto, l'Autore che, nella maturità, recupera e ripropone il testo, e il lettore che può, volendo, leggere i brani in modo discontinuo, alternandoli a suo piacere, e così facendo arricchirli della sua stessa creatività.
di Giovanna Repetto
La percezione dolorosa – quasi fisicamente dolorosa – del divario fra pensiero e parola, fra parola e realtà, sembra essere il filo conduttore di questo libro. Libro che non è tanto un diario, quanto la riscoperta di un diario.
Si tratta di un diario giovanile, lungo quanto la sequenza dei giorni di un anno, e però scritto nell'arco di dieci anni, dal 1962 al 1972. Datato, ma proprio l'atto di darlo alle stampe appare, nelle intenzioni dell'Autore, non la pura conclusione di un progetto a suo tempo accantonato o sospeso, non il rimedio a un atto mancato, bensì la scelta attiva di praticare un'archeologia di sé, fra esperimento e memoria, quindi un ulteriore passo di una ricerca mai interrotta.
Devo distaccarmi sempre di più dall'atto di scrivere per vivere nelle parole reali. Questi vaneggiamenti di realtà, questi scatti della mente si raccolgono in parole troppo nude per contenere un ritmo così grande. L'attrito tra la vita e me è lo stesso che tra me e le parole.
Ho parlato di diario forse impropriamente (e soprattutto per la struttura, in 365 punti, assimilabili ai giorni dell'anno). Ma non troverete, in questo sfogo giovanile, né il giovane Werther né il giovane Holden, perché il dato biografico è assolutamente secondario rispetto al travaglio del pensiero.
Vivo di accostamenti, di approssimazioni alla realtà. Io non creo, delimito,non suscito,astraggo. Ormai il mio cammino è in questa correzione di temi della vita e com'è pesante correggere sapendosi corretto fin nel profondo della propria conoscenza (...) Ogni cosa che mi passa davanti non ha più la sua vergine forza, è stata contagiata dal mio sguardo.
Vi compaiono poesie, riflessioni, aforismi. A tratti lampi di genialità assoluta:
Lo scrivere è convalescenza dalla realtà.
Spesso lo scrittore cita brani o frasi di altri scrittori, e non è certo uno sterile esercizio. Sembra piuttosto quel processo per cui – e lo dico in termini ottocenteschi perché si addicono all'idea – questi scritti danno nutrimento allo spirito del giovane in formazione.
Viene spontaneo domandarsi se questo recupero integrale di uno scritto giovanile come se fosse una scoperta, un inedito di un autore famoso, non sia altro che espressione di un mostruoso narcisismo che porta a fare di sé il soggetto e l'oggetto del proprio lavoro, in una spirale solipsistica. Bene, mi sono venute in mente tre risposte. Primo: solipsistico non è, perché comunque non si può negare che tratti di temi universali sempre attuali perché mai risolti. Secondo: il narcisismo è fisiologico, perché ogni artista ha come primo strumento se stesso, e non può parlare al mondo se non attraverso la propria esperienza individuale, che proprio perché irripetibile definisce la creazione artistica rispetto alla produzione seriale. Infine la terza considerazione, che mi pare la più interessante: ho l'impressione che l'Autore si sia accostato ai suoi scritti giovanili con la commozione e la sacralità di chi sente che esiste nella vita di ognuno un'età privilegiata, in cui ancora le esigenze del quotidiano non hanno riscosso il loro tributo, e in cui un particolare stato di grazia favorisce l'intuizione, consentendo di avvicinarsi (in un modo che mai più sarà possibile) all'essenza della realtà. E' un momento in cui si è in grado di sopportare, sia pure con dolore, la tensione verso risposte che già si avvertono irraggiungibili, e da cui poi, dopo un po' di anni, ci salverà la routine e l'adozione di schemi consolidati.
Dice bene nella presentazione:
Ogni pagina del diario cerca di descrivere le circostanze astratte e concrete entro le quali la parola nasce e prende forma, riflessioni a freddo sullo stesso fare poetico, senza fare poesia, ma subendola soltanto, quasi fosse un altro ad aver scritto quei testi, o meglio il tempo che li ha custoditi e ritrovati. Come fossero frammenti di un diario più ampio di uno scrittore sconosciuto, magari scoperto e tradotto da una lingua straniera, il cui linguaggio non abbia trovato una compiuta forma letteraria, ma abbia subito un'amputazione di significato, viva e scorra adesso senza senso e senza sensi sotto gli occhi del lettore.
La creazione del libro si gioca dunque su piani sovrapposti: il giovane che ha scritto, l'Autore che, nella maturità, recupera e ripropone il testo, e il lettore che può, volendo, leggere i brani in modo discontinuo, alternandoli a suo piacere, e così facendo arricchirli della sua stessa creatività.
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