DE FALSU CREDITU
Lapo Emanuelli Treves
Comodini imprevedibili
Alte Kagion - Vaduna , Pag. 138 Euro 13,50
Mirabile, questo saggio del Treves, sulle "avventure terrone" di Silvio Sarno: mirabile sin dall'inizio, con quel suo incipit - "niente che non abbia una scoria può essere vero" - ammesso che una scoria, per solito usa a occultare l'esistenza con il suo traslucido vetrino, possa con fenomeno strano garantirgli anche tre anni di verità a tasso zero. Nel fondo, narrare vuol dire non chiedere mai altro spazio sulla lingua perché ogni significanza stinga nel mistero, ogni scoria appunto dischiuda la sua sapida bellezza, piegandosi sotto un piccolo peso, un pesello direbbe il Comaroni (vero cognome di Sarno), che eccede le sue pur mirabili ma scarse forze.
Nel testo, allora, si disegna il perimetro di un'epifania, con - a far da ipotenusa - la ricchezza d'una formulaica laica seppur magica (un costrutto moravio-morantiano); e per cateti la turgida disciplina dell'evocazione, e la sua plastica finemente lavorata che assieme ritarda l'esegesi e la stimola. A questo doppio ritardante-stimolante non può che seguitare l'ascesi, pure se la di lei eccellenza e copiosità non viene recepita nel vaso debito d'una filo-topologia, che perciò rischierebbe di rimanere sterile se non intervenissero coupures tanto necessarie quanto indesiderate - e allora talvolta i lavori plastici rimangono su quegli chévets, su quei comodini che giustamente l'Autore scopre imprevedibili.
E, però: sia pure in loro presenza, dei lavori dico, il sospetto di manierismo, che pesa egualmente e sullo Sarno e in qualche modo sul suo esegeta, non scompare: e se in D'Annunzio il ricorso pesante e pedante alla maniera introduceva una "poetica delle mani", in Sarno e nelle sue "terrone" ve n'è piuttosto una commedia: "io non posso stare fermo con le mani nelle mani", dichiara nel terzo del racconto breve Coso d'altri, annunciando così che ogni gesto, ogni prossemica, meglio se incompiuta, riporta a un mondo di reciprocità che, palesandosi magari sotto il velame della cartapesta di citazione (post- ante litteram), si conducono come luoghi d'un'autenticità goduta come richiamo, già-visto, vecchio-gioco - con vera sensibilità kamp, dunque.
La mascherata sfugge, così, a ogni tentativo d'allegoria, pur inscrivendovisi sin dal primo movimento: è, piuttosto, quella dei bimbi del Gland Meaulnes, un'illusiva innocenza che, inserendosi, traccia il profilo d'un'infanzia già rigida, soda, dura, in questo sottratta alle necessità del divenire. Ecco dunque che Sarno e i suoi personaggini, più volte ripresi a traguardare soffitti ove, lepoardianamente, stazionano "alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d'una mia stanza", di queste villanìe fan gioco di mano, e dunque umana commedia. Che si trasferisce, pure e pura, a quei loro rapporti fervidi e capricciosi, come si conviene a ogni attimo della vita che conviene vivere col sole in fronte, scrutando le mutande rotte del presente, non anticipatrici dell'avvenire ma esaurite nel breve spazio della maniera, salvaguardate dalla valida plastica dell'azione.
Sì: la narrativa di Sarno-Comaroni ruota su questo perno - esibito o penetrante -, e vi ruota a vuoto. Da queste manierate manipolazioni ricava una potente non-allegoria, una zona ombrosa della nostra prima stagione: l'impossibilità diuna educazione sentimentale. E, insieme, la fremente cosapevolezza che la vita passa senza che noi riusciamo a capirne nulla. E qui il Nostro e fraterno ci comunica il grande dubbio: non ne capiamo nulla in quanto "la vita è adesso", inesplorato nostro presente; o per via di quella plastica che, nella maniera-manipolazione, invece di cingere e incanalare il succo di quella turgida ascesi ch'è l'umano strumento dei personaggi, dell'Autore e del Treves infino, finisce per coinvolgere avvolgente la ratio di ogniuno, e perderla in percezione, abbassarne la vista?
Pietrificato così gnosticamente nella condizione dell'ineluttabile, Sarno dunque affronta l'incompiutezza propria e altrui attraverso una prassi - il gesto manipolatorio - ch'è da subito seduzione-arte, ma arte innaturalistica, in cui lo sguardo sarebbe possibilità di senso, se non venisse obnubilato dai valori-velarii (plastici) che essi medesimi e il gran testo e le gran teste e le teste appena più piccole avvolgono facendosi.
Ecco allora che per Sarno la letteratura è questa gioia repentina, questo moto rapinoso e segreto, quest'azione indubbia - ma come fantasmi: còlti nei loro avatara, nei loro ectoplasmi, nella loro casualità lucreziana nel disgregarsi e riaggregarsi. Simile in questo - e perciò terrona - alle avventure di chi, avendo definitivamente squarciato il velo col quale la pratica involge plasticamente ogni membro dell'ascesi, si trova a rovesciarne il succo sulla terra eliotianamente desolata. O, talvolta, sulle bestie che abitano il mondo. Ma questo è, per davvero, "un altro reparto dell'amore".
Nel testo, allora, si disegna il perimetro di un'epifania, con - a far da ipotenusa - la ricchezza d'una formulaica laica seppur magica (un costrutto moravio-morantiano); e per cateti la turgida disciplina dell'evocazione, e la sua plastica finemente lavorata che assieme ritarda l'esegesi e la stimola. A questo doppio ritardante-stimolante non può che seguitare l'ascesi, pure se la di lei eccellenza e copiosità non viene recepita nel vaso debito d'una filo-topologia, che perciò rischierebbe di rimanere sterile se non intervenissero coupures tanto necessarie quanto indesiderate - e allora talvolta i lavori plastici rimangono su quegli chévets, su quei comodini che giustamente l'Autore scopre imprevedibili.
E, però: sia pure in loro presenza, dei lavori dico, il sospetto di manierismo, che pesa egualmente e sullo Sarno e in qualche modo sul suo esegeta, non scompare: e se in D'Annunzio il ricorso pesante e pedante alla maniera introduceva una "poetica delle mani", in Sarno e nelle sue "terrone" ve n'è piuttosto una commedia: "io non posso stare fermo con le mani nelle mani", dichiara nel terzo del racconto breve Coso d'altri, annunciando così che ogni gesto, ogni prossemica, meglio se incompiuta, riporta a un mondo di reciprocità che, palesandosi magari sotto il velame della cartapesta di citazione (post- ante litteram), si conducono come luoghi d'un'autenticità goduta come richiamo, già-visto, vecchio-gioco - con vera sensibilità kamp, dunque.
La mascherata sfugge, così, a ogni tentativo d'allegoria, pur inscrivendovisi sin dal primo movimento: è, piuttosto, quella dei bimbi del Gland Meaulnes, un'illusiva innocenza che, inserendosi, traccia il profilo d'un'infanzia già rigida, soda, dura, in questo sottratta alle necessità del divenire. Ecco dunque che Sarno e i suoi personaggini, più volte ripresi a traguardare soffitti ove, lepoardianamente, stazionano "alcuni pastori e pecorelle dipinte sul cielo d'una mia stanza", di queste villanìe fan gioco di mano, e dunque umana commedia. Che si trasferisce, pure e pura, a quei loro rapporti fervidi e capricciosi, come si conviene a ogni attimo della vita che conviene vivere col sole in fronte, scrutando le mutande rotte del presente, non anticipatrici dell'avvenire ma esaurite nel breve spazio della maniera, salvaguardate dalla valida plastica dell'azione.
Sì: la narrativa di Sarno-Comaroni ruota su questo perno - esibito o penetrante -, e vi ruota a vuoto. Da queste manierate manipolazioni ricava una potente non-allegoria, una zona ombrosa della nostra prima stagione: l'impossibilità diuna educazione sentimentale. E, insieme, la fremente cosapevolezza che la vita passa senza che noi riusciamo a capirne nulla. E qui il Nostro e fraterno ci comunica il grande dubbio: non ne capiamo nulla in quanto "la vita è adesso", inesplorato nostro presente; o per via di quella plastica che, nella maniera-manipolazione, invece di cingere e incanalare il succo di quella turgida ascesi ch'è l'umano strumento dei personaggi, dell'Autore e del Treves infino, finisce per coinvolgere avvolgente la ratio di ogniuno, e perderla in percezione, abbassarne la vista?
Pietrificato così gnosticamente nella condizione dell'ineluttabile, Sarno dunque affronta l'incompiutezza propria e altrui attraverso una prassi - il gesto manipolatorio - ch'è da subito seduzione-arte, ma arte innaturalistica, in cui lo sguardo sarebbe possibilità di senso, se non venisse obnubilato dai valori-velarii (plastici) che essi medesimi e il gran testo e le gran teste e le teste appena più piccole avvolgono facendosi.
Ecco allora che per Sarno la letteratura è questa gioia repentina, questo moto rapinoso e segreto, quest'azione indubbia - ma come fantasmi: còlti nei loro avatara, nei loro ectoplasmi, nella loro casualità lucreziana nel disgregarsi e riaggregarsi. Simile in questo - e perciò terrona - alle avventure di chi, avendo definitivamente squarciato il velo col quale la pratica involge plasticamente ogni membro dell'ascesi, si trova a rovesciarne il succo sulla terra eliotianamente desolata. O, talvolta, sulle bestie che abitano il mondo. Ma questo è, per davvero, "un altro reparto dell'amore".
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