RECENSIONI
Gordiano Lupi
Fidel Castro – Biografia non autorizzata
A.Car , Pag. 250 Euro 15,00
La biografia dedicata a Fidel Castro da Gordiano Lupi non sarà autorizzata ma merita il credito che si deve a chi Cuba l'ha raccontata per anni, in tanti libri e salse diverse, e insomma la conosce non per sentito dire o letto sui giornali. Premessa necessaria per affrontare questo libro che inizia com'è ovvio dall'infanzia del lider maximo, figlio di un contadino destinato a fare fortuna. Educato al cattolicesimo e subito rivelatosi un caratterino niente male, durante gli anni di studio Fidel dimostra presto come quella politica sia destinata a diventare la sua "passion predominante". Essa crescerà di pari passo a una personalità imperiosa, autoritaria, carismatica.
La vera spinta iniziale, già negli anni degli studi di diritto, più che ideologica (il comunismo, e soprattutto il marxismo-leninismo c'entrerà poco, e sarà un "aggiustamento" in corsa) si basa su un forte ideale di giustizia sociale e un non troppo velato indipendentismo. Cuba era un puttanaio controllato dagli americani, le disuguaglianze sociali gigantesche – lo sanno tutti. L'assalto alla caserma Moncada (la "madre delle rivoluzioni") e la spedizione del Granma si inscrivono in una storia di liberazione dalla corrotta dittatura latifondista asservita agli americani. Prima della rivoluzione decisiva, nel '59, scrive Lupi, Castro era ancora lontano dalla deriva ideologica successiva, e, senza giustificarlo, l'autore trova che gli americani ci misero del loro per favorire quella piega. Per curioso che possa sembrare ai meno informati, l'opzione comunista fu l'esito più a portata di mano sì di una condizione storica, ma anche del pragmatismo di Fidel: quella che gli garantiva la tenuta più solida della rivoluzione. Una scelta come quella della democrazia liberale "lo avrebbe distrutto", scrive Lupi. Così, se è possibile rubricare la Baia dei Porci e la cosiddetta "crisi dei missili" sovietici impiantati a Cuba - a un passo dal conficcarsi in terra americana - nel contesto macrostorico della Guerra Fredda, a Lupi interessa innanzitutto mostrare quella di Fidel e Cuba come una faccenda di orgogliosa e testarda autonomia nazionale.
Il pregio del libro, non privo di dettagli interessanti, è che Lupi sa mantenersi a una giusta distanza dal tifo o dalla denigrazione del personaggio. Dice quello che sa, riconosce a Fidel i suoi meriti, ricorda le sue capacità di oratore trascinante, di capo "naturale", di politico ambizioso e insofferente, sul quale poteva intervenire solo l'amante e sodale rivoluzionaria Celia Sánchez (le amanti non le sono mai mancate).
Pragmatico, lo definisce, e opportunista spesso e volentieri. Giustamente non gli risparmia nulla, ché parliamo di un classico caudillo latinoamericano. La dittatura di Castro è stata spietata, contro gli oppositori, la stampa libera, i sospetti di attività antirivoluzionarie, preti e santéros che facevano spesso una brutta fine nelle UMAP (lager per "antisociali"). E i fuggiaschi (un capitolo intero è dedicato all'eccidio del 13 luglio 1994 quando trentasette persone, bambini compresi, furono uccisi in tentativo di fuga alla volta di Miami). Ma non dite a Lupi che Castro avrebbe fatto uccidere il Che: fareste una brutta figura.
di Michele Lupo
La vera spinta iniziale, già negli anni degli studi di diritto, più che ideologica (il comunismo, e soprattutto il marxismo-leninismo c'entrerà poco, e sarà un "aggiustamento" in corsa) si basa su un forte ideale di giustizia sociale e un non troppo velato indipendentismo. Cuba era un puttanaio controllato dagli americani, le disuguaglianze sociali gigantesche – lo sanno tutti. L'assalto alla caserma Moncada (la "madre delle rivoluzioni") e la spedizione del Granma si inscrivono in una storia di liberazione dalla corrotta dittatura latifondista asservita agli americani. Prima della rivoluzione decisiva, nel '59, scrive Lupi, Castro era ancora lontano dalla deriva ideologica successiva, e, senza giustificarlo, l'autore trova che gli americani ci misero del loro per favorire quella piega. Per curioso che possa sembrare ai meno informati, l'opzione comunista fu l'esito più a portata di mano sì di una condizione storica, ma anche del pragmatismo di Fidel: quella che gli garantiva la tenuta più solida della rivoluzione. Una scelta come quella della democrazia liberale "lo avrebbe distrutto", scrive Lupi. Così, se è possibile rubricare la Baia dei Porci e la cosiddetta "crisi dei missili" sovietici impiantati a Cuba - a un passo dal conficcarsi in terra americana - nel contesto macrostorico della Guerra Fredda, a Lupi interessa innanzitutto mostrare quella di Fidel e Cuba come una faccenda di orgogliosa e testarda autonomia nazionale.
Il pregio del libro, non privo di dettagli interessanti, è che Lupi sa mantenersi a una giusta distanza dal tifo o dalla denigrazione del personaggio. Dice quello che sa, riconosce a Fidel i suoi meriti, ricorda le sue capacità di oratore trascinante, di capo "naturale", di politico ambizioso e insofferente, sul quale poteva intervenire solo l'amante e sodale rivoluzionaria Celia Sánchez (le amanti non le sono mai mancate).
Pragmatico, lo definisce, e opportunista spesso e volentieri. Giustamente non gli risparmia nulla, ché parliamo di un classico caudillo latinoamericano. La dittatura di Castro è stata spietata, contro gli oppositori, la stampa libera, i sospetti di attività antirivoluzionarie, preti e santéros che facevano spesso una brutta fine nelle UMAP (lager per "antisociali"). E i fuggiaschi (un capitolo intero è dedicato all'eccidio del 13 luglio 1994 quando trentasette persone, bambini compresi, furono uccisi in tentativo di fuga alla volta di Miami). Ma non dite a Lupi che Castro avrebbe fatto uccidere il Che: fareste una brutta figura.
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