INTERVISTE
Flavio Santi
Santi, poeta e narratore. E bravo critico letterario; e richiestissimo traduttore. Un formidabile uomo di Lettere, onesto e competente. Grande lavoratore. Oggi ti festeggiamo come miglior narratore italiano del 2011, per il tuo coraggioso e crudo "Aspetta primavera, Lucky" [Socrates; collana "Luminol", 1]. Ti siamo grati per quel che hai scritto. Consideriamo il tuo libro degno erede della "Vita agra" di Bianciardi. Accetti l'eredità?
Io ci provo, ma è molto dura...
Pier Paolo Pasolini, Amedeo Giacomini, Carlo Sgorlon: è stato un grande Novecento per i letterati friulani. Chi senti più vicino dei tre? In generale: cosa senti più vicino nella letteratura di Pasolini, e cosa in quella di Giacomini, e cosa in quella di Sgorlon?
Partiamo dall'ultimo. Sgorlon lo conosco pochissimo, però mi è sempre piaciuta la frase di Balzac che citava spesso: "Beato chi ha una provincia da raccontare". Di Giacomini ho avuto l'onore di essere amico intimo: un uomo straordinario, un grande testimone del Novecento (conosceva tutti, da Gadda a Luzi, da Porta a Turoldo), eppure di un candore e una semplicità estreme, commoventi. Pasolini è Pasolini: un faro, una guida. Pasolini ci insegna l'assoluta disciplina con noi stessi e gli altri.
Qual è stata la storia editoriale di "Aspetta primavera, Lucky"? Raccontaci tutto. Sei contento di essere parte di un catalogo di prestigio come quello delle Edizioni Socrates, in compagnia di inediti di Manganelli, romanzi di Trocchi e grandi saggi come quello di McCoy?
Alessandro De Santis mi contattò in un piovoso dicembre del 2009: era appena morto il poeta Simone Cattaneo, mio carissimo amico; ero tornato a casa dicendomi "Luciano Bianciardi mi fa una pippa" (frase poi scivolata nel romanzo) e accettai subito. C'era – e c'è – gente che muore di arte, dovevo fare qualcosa, nel mio piccolo. Era un chiaro segno del destino – io credo nel destino...
Santi, hai scritto: "Oggi le classi meno agiate sono spesso quelle che hanno il più alto grado di istruzione. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere". A cosa può portare una condizione del genere? Cosa può implicare, in prospettiva, questo stato di cose?
Inutile girarci intorno: a uno strappo. Per dirla con Lucky Luciano Bianciardi: a una solenne incazzatura. Se poi questa solenne incazzatura si tradurrà in una rivoluzione, o in microframmenti di una guerra civile liquida, non lo so. Non è nemmeno detto che avvenga nei termini novecenteschi a cui siamo abituati.
Magnifiche le tue parole sul potere: «Il potere non è utile, non nobilita, non migliora, semplicemente credo che avvicini l'uomo al più basso livello di bestialità. Non esistono poteri buoni». Sei sempre convinto di questa posizione? Come vorresti fossimo governati? Ti sto chiedendo in cosa credi.
"Non esistono poteri buoni" è un verso di De André. Sono sempre più convinto che una profonda riflessione sul potere potrebbe migliorare la nostra società. Il percorso naturalmente è lungo e faticoso, ma ne varrebbe la pena. Certo, richiederebbe che tutti si mettessero in gioco seriamente. Per sintetizzare invece la tua domanda finale, in cosa credo, cito sempre la teoria della cosiddetta we-rationality di Robert Sugden, secondo cui per decidere quali azioni intraprendere non bisogna pensare "questa azione ha buone conseguenze per me", ma "questa azione è la mia parte di una nostra azione che ha buone conseguenze per noi".
Qualche giorno fa un ragazzo mi ha scritto dicendo che voleva fare lo scrittore, da grande. Proprio così, come in un film. Mi sarebbe piaciuto dirgli di leggere il tuo libro, per capire cosa significa. Santi: se tu potessi tornare indietro, accetteresti daccapo di consacrarti alle patrie lettere, anima e corpo? Qual è il prezzo da pagare per vivere di letteratura? Quanti mestieri servono, e quanti ruoli si devono avere?
Io rifarei tutto perché altro non so fare. La parola è una beatitudine e una dannazione, e io sono legato a triplice filo al mio boia-seduttore. Benissimo fare lo scrittore, però sempre nella duplice accezione di scrittore-lettore. Certe forme nuove – penso al self publishing, agli stessi social network ecc. – alimentano una forte tensione, molto narcisistica, a essere scrittore. Però se tutti sono scrittori, poi chi ci legge? Non vorrei che si andasse verso un'eccessiva autoreferenzialità. Tutti scrivono, nessuno legge.
Tutto sul tuo prossimo libro: sui tuoi prossimi libri.
FS: A fine marzo esce per Scheiwiller il mio "raccoltone" poetico Mappe del genere umano: vecchie e nuove poesie in italiano. Lo dovevo anche per chi mi ha seguito in poesia ed erano anni che aspettava qualcosa di mio. Poi, ci saranno libri legati al Friuli, sempre di più. Lì ci sono le mie radici, lì mi devo mettere in gioco. L'ho capito solo adesso – sono un po' lento, ci arrivo sempre dopo: ho smesso di scrivere poesie in friulano, ma il rapporto con quella terra continuerà in prosa.
Carta bianca. Dì tutto quello che vuoi.
Oddio... Be', ecco, vorrei che ci fossero più candore e ingenuità... Di solito più si cresce più si diventa cinici e disillusi... Ecco, vorrei che si conservasse un po' di semplicità e di stupore...
Viva Santi.
Io ci provo, ma è molto dura...
Pier Paolo Pasolini, Amedeo Giacomini, Carlo Sgorlon: è stato un grande Novecento per i letterati friulani. Chi senti più vicino dei tre? In generale: cosa senti più vicino nella letteratura di Pasolini, e cosa in quella di Giacomini, e cosa in quella di Sgorlon?
Partiamo dall'ultimo. Sgorlon lo conosco pochissimo, però mi è sempre piaciuta la frase di Balzac che citava spesso: "Beato chi ha una provincia da raccontare". Di Giacomini ho avuto l'onore di essere amico intimo: un uomo straordinario, un grande testimone del Novecento (conosceva tutti, da Gadda a Luzi, da Porta a Turoldo), eppure di un candore e una semplicità estreme, commoventi. Pasolini è Pasolini: un faro, una guida. Pasolini ci insegna l'assoluta disciplina con noi stessi e gli altri.
Qual è stata la storia editoriale di "Aspetta primavera, Lucky"? Raccontaci tutto. Sei contento di essere parte di un catalogo di prestigio come quello delle Edizioni Socrates, in compagnia di inediti di Manganelli, romanzi di Trocchi e grandi saggi come quello di McCoy?
Alessandro De Santis mi contattò in un piovoso dicembre del 2009: era appena morto il poeta Simone Cattaneo, mio carissimo amico; ero tornato a casa dicendomi "Luciano Bianciardi mi fa una pippa" (frase poi scivolata nel romanzo) e accettai subito. C'era – e c'è – gente che muore di arte, dovevo fare qualcosa, nel mio piccolo. Era un chiaro segno del destino – io credo nel destino...
Santi, hai scritto: "Oggi le classi meno agiate sono spesso quelle che hanno il più alto grado di istruzione. Senza soldi, senza futuro e senza nulla da perdere e da rimpiangere". A cosa può portare una condizione del genere? Cosa può implicare, in prospettiva, questo stato di cose?
Inutile girarci intorno: a uno strappo. Per dirla con Lucky Luciano Bianciardi: a una solenne incazzatura. Se poi questa solenne incazzatura si tradurrà in una rivoluzione, o in microframmenti di una guerra civile liquida, non lo so. Non è nemmeno detto che avvenga nei termini novecenteschi a cui siamo abituati.
Magnifiche le tue parole sul potere: «Il potere non è utile, non nobilita, non migliora, semplicemente credo che avvicini l'uomo al più basso livello di bestialità. Non esistono poteri buoni». Sei sempre convinto di questa posizione? Come vorresti fossimo governati? Ti sto chiedendo in cosa credi.
"Non esistono poteri buoni" è un verso di De André. Sono sempre più convinto che una profonda riflessione sul potere potrebbe migliorare la nostra società. Il percorso naturalmente è lungo e faticoso, ma ne varrebbe la pena. Certo, richiederebbe che tutti si mettessero in gioco seriamente. Per sintetizzare invece la tua domanda finale, in cosa credo, cito sempre la teoria della cosiddetta we-rationality di Robert Sugden, secondo cui per decidere quali azioni intraprendere non bisogna pensare "questa azione ha buone conseguenze per me", ma "questa azione è la mia parte di una nostra azione che ha buone conseguenze per noi".
Qualche giorno fa un ragazzo mi ha scritto dicendo che voleva fare lo scrittore, da grande. Proprio così, come in un film. Mi sarebbe piaciuto dirgli di leggere il tuo libro, per capire cosa significa. Santi: se tu potessi tornare indietro, accetteresti daccapo di consacrarti alle patrie lettere, anima e corpo? Qual è il prezzo da pagare per vivere di letteratura? Quanti mestieri servono, e quanti ruoli si devono avere?
Io rifarei tutto perché altro non so fare. La parola è una beatitudine e una dannazione, e io sono legato a triplice filo al mio boia-seduttore. Benissimo fare lo scrittore, però sempre nella duplice accezione di scrittore-lettore. Certe forme nuove – penso al self publishing, agli stessi social network ecc. – alimentano una forte tensione, molto narcisistica, a essere scrittore. Però se tutti sono scrittori, poi chi ci legge? Non vorrei che si andasse verso un'eccessiva autoreferenzialità. Tutti scrivono, nessuno legge.
Tutto sul tuo prossimo libro: sui tuoi prossimi libri.
FS: A fine marzo esce per Scheiwiller il mio "raccoltone" poetico Mappe del genere umano: vecchie e nuove poesie in italiano. Lo dovevo anche per chi mi ha seguito in poesia ed erano anni che aspettava qualcosa di mio. Poi, ci saranno libri legati al Friuli, sempre di più. Lì ci sono le mie radici, lì mi devo mettere in gioco. L'ho capito solo adesso – sono un po' lento, ci arrivo sempre dopo: ho smesso di scrivere poesie in friulano, ma il rapporto con quella terra continuerà in prosa.
Carta bianca. Dì tutto quello che vuoi.
Oddio... Be', ecco, vorrei che ci fossero più candore e ingenuità... Di solito più si cresce più si diventa cinici e disillusi... Ecco, vorrei che si conservasse un po' di semplicità e di stupore...
Viva Santi.
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