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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Massimo Grisafi

Giulia

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L'ultima volta che la vidi fu a Covent Garden nell'ora dei suonatori di strada.
C'era la luce del tramonto e i palazzi della piazza cominciavano appena allora a illuminarsi. L'estate era passata da un pezzo ma non faceva ancora troppo freddo. Lei indossava un cappellino calato sopra i capelli, una giacca nera sopra una t-shirt e dei jeans sdruciti alle ginocchia che le fasciavano molto bene le gambe. E sorrideva, come lei sola era in grado di fare.
Mi sembrò che fosse dimagrita dall'ultima volta in cui c’eravamo incontrati, e anche così, da lontano, mi parve di scorgerle delle occhiaie abbastanza profonde. Si muoveva a semicerchio in un angolo della piazza, tenendo in una mano una scatoletta di latta mentre alle sue spalle, quello che a prima vista aveva tutta l'aria di essere il suo uomo, stava suonando dei pezzi famosi alla chitarra. Con una Eko nera a tracolla e un amplificatore da pochi watt ai suoi piedi, nel momento in cui la vidi lui stava suonando Shooting star di Bob Dylan. Me lo ricordo bene perché pensai, ancora prima di vederla, che quella era la sua canzone preferita.
Il suonatore aveva la stessa voce struggente di Dylan, un pastrano nero lungo fino ai piedi, le mani guantate tranne che per le falangi e un cappellaccio da gringo dietro le spalle. Sembrava più vecchio di lei, o forse erano solo il suo aspetto e la sua voce arrochita dal fumo a farmi pensare che potesse esserlo. Non guardava Giulia mentre suonava, ma si capiva da come muoveva le mani e anche il corpo che stava suonando solo per lei.
Quando Giulia passò dalle mie parti senza notarmi e allungò la scatola di latta muovendola affinché i pochi spiccioli che c'erano al suo interno tintinnassero, ci ficcai dentro una banconota da dieci pounds. Quella col faccione di Darwin, per intenderci. Non era mia intenzione di fare lo sbruffone né tanto meno di farmi vedere da lei, ma naturalmente il foglio da dieci sterline all'interno di una scatola quasi vuota non passò inosservato. A quel punto Giulia alzò lo sguardo e incrociò il mio. Lei mi fissò, probabilmente mi riconobbe subito. Io la guardai. Niente da dire, era dimagrita parecchio. Perfino le guance erano solcate da due piccole rughe e il seno le si era rimpicciolito. Sorrisi, leggermente imbarazzato. Lei fece lo stesso, ma poiché doveva continuare il giro mi fece con l'indice il segno del ci vediamo poi e si avvicinò agli altri ascoltatori. Prima, però, fece sparire le dieci sterline facendosele scivolare dentro una tasca dei pantaloni. Terminato il giro, sempre agitando la scatoletta, si spostò verso il bar che fa angolo col mercato e si mise a sedere a un tavolino libero. Da lì mi cercò con lo sguardo e, poiché mi ero scostato dalla folla, mi vide e mi fece cenno di raggiungerla. Il suo uomo aveva appena attaccato Jesus don't want me for a sunbeam, un'altra delle sue favorite.
Mi accostai a lei con un certo timore, quello di poter essere frainteso, che la mia presenza lì, cioè, potesse generare un equivoco. Così, giusto per prender tempo, mi chinai verso di lei e le domandai se avesse voglia di un cappuccino e di una pasta, poi andai a ordinarle. La guardai per tutto il tempo che la donna dietro al banco impiegò per mandare a temperatura il latte e per sistemare il dolce sul vassoio. Sedeva ritta sulla sedia ed era proprio una bella figura, tutta nera in contrasto con le luci della piazza che erano gialle ed arancioni; adesso c'era un chiasso che giungeva dal mercato e in più la ragazza del bar mi stava strillando qualcosa a proposito delle ordinazioni. Mi girai verso di lei, pagai quel che dovevo e mi portai via il vassoio.
               Sedendomi di fronte a Giulia scoprii che non aveva perduto nulla della sua bellezza languida. Ciglia morbide, fossette sulle guance, sorriso che le lasciava la bocca aperta a metà come in un gesto d’infinito stupore. Si era sfilata la giacca e notai che aveva due nuovi tatuaggi; uno piccolo sul collo, una rosa purpurea che le si snodava fino alla scapola destra, e una scritta in lingua araba che le girava tutto intorno al braccio sinistro.
Indicai quest'ultimo col dito mentre lei prendeva il suo cappuccino.
- Bello – dissi. – Che cosa significa?
- È una frase di De André in iraniano – spiegò come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non disse altro. Non aveva perso l'antica abitudine di dare delle risposte a metà, ma io non mi scoraggiai e continuai a insistere.
- Che frase?
Questa volta alzò lo sguardo dal cappuccino e mi fissò in faccia. Non poteva certo stupirsi che conoscessi Faber, perciò esitò solo un attimo prima di rispondermi.
- Il suonatore Jones. "Libertà l'ho vista dormire nei campi coltivati". Ti ricordi?
- Molto bello – commentai concentrandomi sulla mia parte di dolce. Come ai vecchi tempi avevo lasciato il piattino con la fetta di torta in mezzo al tavolo e mi ero fatto dare due cucchiaini che avevo messo uno dalla mia parte e uno dalla sua.
Certo che ricordavo la canzone. Del resto, quella frase le si addiceva pienamente: la libertà era un concetto che stava a Giulia come l'arancione a certi tramonti e il tu-tun  del treno ai giunti della ferrovia. Sin da piccola aveva avuto il sogno della libertà, la libertà completa, quel fastidio interiore che l'aveva portata a essere scostante e scontrosa con chiunque non dividesse con lei quel desiderio. C'era stato un tempo, perfino, in cui lei aveva litigato con tutti noi per via di quel sogno.
- Che ci fai da queste parti? – mi chiese a un certo punto.
- Sto girando l'Europa del nord – risposi. – Una tappa a Londra era obbligata.
- Da solo?
- Da solo.
Sembrava sempre più stupita e non me lo nascose.
- Quasi sessant'anni e giri l'Europa da solo. E Claudia che dice?
- Claudia che dice – ripetei per prendere tempo. Finii la mia parte di briciole con cura prima di risponderle che tra me e Claudia c'era qualche problema.
- Mi dispiace – fu il suo semplice commento. Alzò la testa e porse l'orecchio alla musica che proveniva dalla strada; il suo lui stava suonando Stairway to heaven con il solito trasporto.
- Questo è il suo ultimo pezzo per stasera – disse finendo di bere.
- Tempo scaduto? – scherzai allora, alludendo al fatto che dovesse lasciarmi.
- Tempo scaduto – confermò lei. Prima però si arrotolò una sigaretta e la accese. Mi sbuffò il fumo diritto in faccia, forse ricordando quanto faceva piacere a me, ex fumatore, assaporare di nuovo il gusto della cicca. Non scansai la nuvoletta, anzi l'aspirai profondamente.
- Dimmi dove vivi.
- Da queste parti. Credimi, un nome davvero impronunciabile – si schermì lei.
Le allungai un foglietto di carta e una penna.
- Prova a scriverlo.
Lei non fece nulla, tranne continuare a fumare.
- Hai paura che poi lo dica ai tuoi?
- Non ho paura di niente – rispose lei dopo due o tre tiri di fumo. – Tanto meno di te. Continua pure il tuo giro e salutami l'Europa, perché io adesso devo proprio andare.
Fece per alzarsi e infilare la giacca, ma io la fermai.
- Aspetta! – le dissi alzando la voce. – Che cosa fai di preciso con lui?
Giulia si rimise a sedere e mi lanciò un'occhiataccia.
- Che vuol dire che faccio con lui? Lo aiuto con i soldi – rispose. – Poi ogni tanto tiro in aria le palle…
- Tiri in aria le palle?
- Sì, dai, non ricordi? – fece il gesto del giocoliere muovendo i palmi delle mani all'in su. – Sono arrivata a farne girare quattro – mi confidò con un mezzo sorriso e una punta d'orgoglio.
- Però… Quattro palle! – Il mio tono sarcastico la colpì come un pugno nello stomaco e la sua reazione non tardò ad arrivare.
- Senti un po', non hai nessun diritto di prendermi per il culo – mi strillò dritto in faccia.
Per un momento temetti quasi che volesse schiaffeggiarmi, ma lei si limitò ad insultarmi.
- Parli tu che alla tua età lasci moglie e figli e te ne parti per l'Europa! – disse Europa con un tale disprezzo che mi venne quasi voglia di fare dietro-front e riprendere il primo volo per l'Italia. – E hai già dimenticato tutti quei discorsi che mi facevi un tempo sul fatto che ognuno di noi deve vivere la sua vita prima che sia troppo tardi? Hai la memoria corta, eh? Ebbene, io l'ho fatto! Io-l'ho-fatto! – Scandì bene le ultime parole e mi lanciò di nuovo uno sguardo carico di disprezzo, quasi volesse sottolineare quanto fossi stato un cattivo maestro.
- Pensavo solo che non fosse questa la tua vita – spiegai cercando di non farmi coinvolgere nella rissa. – Ti chiedo scusa se ho sbagliato.
Lei raccolse in fretta le sue cose, le ficcò tutte nella giacca, poi prese la scatola di latta con gli spiccioli.
- Aspetta – dissi di nuovo io. Presi un'altra banconota, stavolta da venti sterline, e la infilai dentro. – Vi potrebbe far comodo.
- Non abbiamo niente da darti in cambio – disse, ritrovando la calma di prima.
Indicai il suonatore alle nostre spalle che stava tirando gli ultimi accordi della canzone.
- Portami un suo disco – le dissi – e fammelo firmare da lui. Così saremo pari.
Giulia non sembrava del tutto convinta, ma alla fine si arrese. Non la guardai mentre raggiungeva il suo uomo. Probabilmente doveva aspettare che staccasse l'amplificatore e lasciasse il posto al suonatore di turno per chiedergli l'autografo. Me la immaginai mentre dava una mano ad arrotolare i fili e a riporli nella custodia rigida.
A quel punto presi il telefono. Cercai il numero di Andrea e scrissi: "Trovata Giulia a Londra in zona Covent Garden. Fai in fretta a venire, non so quanto ancora potrà rimanere da queste parti".
Fatto. Mi sentivo un verme, adesso, oltre che un cattivo maestro, ma quello che avevo fatto lo dovevo al mio amico Andrea. Troppi anni passati assieme per lasciarlo col dubbio che sua figlia fosse scomparsa per sempre. Mi alzai prima che Giulia fosse di ritorno con il disco perché non volevo che guardasse in faccia il suo traditore. Riportai il vassoio alla barista dentro il baracchino, lei mi ringraziò con un tono di voce davvero spigoloso e senza concentrarsi su di me. Scivolai attraverso la folla, in un minuto fui fuori dalla vista di Giulia e dal chiasso irresistibile della piazza. Raggiunsi la fermata della "tube" più vicina e mi lasciai inghiottire dalle viscere di Londra.
Giù, giù, fino al livello inferiore.



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