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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Andrea Bricchi

Il boia e l'immortale

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Pochi, se non proprio nessuno, conoscono un evento terribile accaduto nel primo Ottocento a Roma. L’episodio era riportato in un libro di memorie: un testo di epoca risorgimentale, fonte indiretta dominata dallo scetticismo e che purtroppo non scendeva mai troppo nei particolari, che seguirò per la mia ricostruzione.
Devo anzitutto far presente a chi mi legge come, nel corso delle mie ricerche presso un’antica biblioteca romana – taccio il nome per discrezione – io sia stato fatto oggetto di inquietanti pedinamenti e addirittura, o almeno questa è oggi la mia convinzione, di attentati alla mia persona, compiuti in due occasioni mentre mi trovavo per strada. Ma non è questa la sede per dettagliare simili incidenti. Ho d’altronde provveduto a farlo a chi di dovere.
Non mancherò tuttavia di accennare almeno a una circostanza a dir poco grave e sospetta, tale cioè da farmi unire i puntini fra i vari indizi e dare a me stesso una spiegazione logica. Si dà il caso, infatti, che le pagine del manoscritto da me consultato siano state strappate.
I lettori si faranno una loro idea. La mia opinione è che questi incidenti misteriosi siano collegati fra loro e che dietro ci sia un unico individuo o un gruppo di persone ben organizzate, intenzionate a far sparire delle informazioni o di mettere fuori gioco chi vi venga a conoscenza. La ragione per cui costui o costoro siano stati mossi a compiere azioni di tal fatta il lettore in prima persona, d’altronde, la potrà evincere direttamente dalla seguente ricostruzione del clamoroso fatto riferito, basata peraltro sugli appunti presi nella sala di lettura della biblioteca e sui ricordi del testo contenuto nelle pagine ormai perdute.
Ora, proviamo a fare un salto con l’immaginazione a questo centro della cristianità negli anni Trenta del diciannovesimo secolo. La città uscita dall’esperienza napoleonica. Le scenario in cui passeggia Stendhal e in cui Dumas fa muovere Edmond Dantès. L’urbe dei ruderi avvolti dalla vegetazione, delle greggi davanti al Colosseo, delle carrozze, dei nobili e degli straccioni, di quel popolo cui ha dato mirabilmente voce il Belli, del Babuino e del Pasquino, del budello inestricabile di vicoli, delle chiese che rigurgitano mendicanti e fedeli e delle piazze affollate di cavalli e prostitute. Quella Roma papalina che si intuisce nelle fotografie uscite dalle prime camere oscure e che, talora in reinvenzioni pittoresche, si contempla, in un’apoteosi dei colori verde cinabro scuro, bruno di Marte e terra di Siena, nei dipinti dei suoi vedutisti.
In questa Roma, dunque, un giorno la polizia pontificia catturò un uomo trovato in un casolare fuori dalle mura. Era innocente, ma aveva la colpa di assomigliare in modo straordinario a un brigante che infestava l’Agro romano in quegli anni. Per crimini come quelli imputatigli non si andava tanto per il sottile all’epoca, nemmeno nei territori sotto la giurisdizione del papa, che all’epoca cui ci riferiamo era Gregorio XVI. La pena era la mannaia capitolina, equivalente romano della ghigliottina francese.
Mentre i carcerieri conducevano l’uomo sul patibolo a Campo de’ Fiori, costui ostentava un’espressione impassibile sul volto. Come da rito, lo accompagnava un’intera processione di religiosi vestiti di un saio nero dal cappuccio a punta. Un esponente di questa confraternita gli offrì i soliti conforti in uso in queste circostanze: un sorso di vino, la vista di qualche immagine sacra. L’innocente rifiutò il vino e scacciò da sé la vista di quei santini, con grande scandalo dei frati incappucciati.
Il boia gli si avvicinò e gli rivolse qualche parola di rito. L’altro gli rispose in tono sommesso, bisbigliando. Questo fu pressappoco ciò che, da quelle formulette di rito in poi, i due si dissero a bassa voce in quei momenti così carichi di tensione per tutti tranne che per il condannato, come risultava evidente a tutti i presenti, i quali poterono osservare l’espressione calma stampata sul suo viso.
«Eccovi giunto sul patibolo del Santo Padre» fece il boia. «Avete qualcosa da dichiarare?»
«Sì. Evitiamo questa ridicola messa in scena…»
«Evitare! E perché, di grazia?»
«Sono immortale.»
«Che cosa?» domandò l’altro scoppiando a ridere. «Questa giuro che non l’avevo mai sentita. Mi felicito con voi, che avete lo spirito per fare una battuta in un momento del genere.»
«Un illuso. Sono un illuso! Speravo che non reagiste come i secondini ai quali, poc’anzi, ho riferito le stesse parole. Ma tant’è… L’illusione è come una pena: in genere ognuno ne ha qualcuna, e chi non ce l’ha, la dà.»
«Non capisco se fate lo spiritoso o se siete pazzo. Se non avete perso la testa, comunque, sappiate che fra poco non l’avrete più.»
«Se c’è un pazzo, è colui che non vuole sentire ragioni e non fa che obbedire ciecamente al suo officio o alla sua furia. Vi ripeto che la condanna a morte non avrà alcun effetto su di me, poiché sono immortale.»
«Ma certo, ma certo… Però se anche fosse, dico io, con questo rasoio non vi taglierò forse la testa di netto?»
«Nient’affatto. Tutto ciò che potrete farmi, caro signor boia, è un misero taglietto, un’infima scalfittura della pelle della mia nuca, la quale d’altra parte si rimarginerà rapidamente, come un bagnasciuga a cui qualche onda tolga in pochi istanti le tracce dei passi umani che lo avevano calcato. Evitiamo perciò l’assurda pagliacciata dei vostri ripetuti tentativi di uccidermi, di sicuro insuccesso. Liberatemi e facciamola finita qui.»
Il boia si mise di nuovo a ridacchiare.
«Ma sentilo! Senti tu come le spara grosse questo!» esclamò trattenendosi a stento dal ridere. Quindi, riportatosi alla serietà adeguata al suo compito, con aria seria lo apostrofò: «Adesso basta ciance, bandito. Guardie, disponete il condannato sulla macchina per la decapitazione.»
Così fecero le guardie, ma dopo quegli attimi interminabili e pieni di silenzio e orrore che precedono la morte di un condannato accadde qualcosa di anomalo: la ghigliottina si arrestò, come inceppata, sul dorso del collo dell’uomo, appoggiandovisi appena e ferendolo lievemente, il che non poté che provocare lo stupore di tutti, ivi compreso il boia. Il condannato a morte assunse a quel punto un’espressione seccata.
Nella mente del boia, intanto, era cominciato a balenare il dubbio se ciò che gli aveva confidato l’uomo non corrispondesse a verità. Sentì il cuore battergli più forte nel petto. Ma, come per tranquillizzarsi e riportarsi da sé alla ragione, rifletté sulle infinite possibilità del caso e diede alla lama, fino allora sua fida compagna, un’altra possibilità.
Le guardie provarono a sollevare la mannaia, ma non riuscirono. Era rimasta incastrata. Una mormorante onda di stupore si propagò lungo tutto il mare di folla che assisteva all’esecuzione. Sul volto dell’uomo qualcuno poté scorgere l’ombra vagamente diabolica di un sorriso.
Un fremito improvviso e implacabile investì il boia, il cui cuore non cessava di martellargli vigorosamente nel petto. Deglutì, fece un respiro profondo e decise di far decapitare il condannato con una sega al posto della ghigliottina. Dappertutto, in quella piazza gremita, regnava un silenzio figlio ora dello sconcerto.
Prima di tutto gli tapparono la bocca, per impedirgli di gridare. Quindi gli esecutori riuscirono infine, dopo immani fatiche, a segargli la testa. Presala per i capelli, il giustiziere la mostrò al nutrito pubblico di quello spettacolo ancora più cruento del solito. Il volto apparve deformato da una smorfia orrenda.
Il capo del giustiziato, al quale fu tolta la patata di bocca, fu messo in una cesta, dopodiché questa e il corpo furono portati via. La plebaglia, sazia di sangue, si disperse.
Scesi dal patibolo, il boia e i suoi assistenti ebbero un sussulto improvviso quando successe qualcosa che non avrebbero mai immaginato: sentirono una voce, ma più che una voce un verso indistinto, provenire dalla cesta. Il terrore li afferrò al collo, tolse loro per qualche momento il respiro. Non senza una certa reticenza uno dei suoi due aiutanti eseguì l’ordine del superiore di controllare il contenuto. Erano passati diversi minuti dall’esecuzione: da pazzi anche solo ipotizzare che il giustiziato potesse ancora lamentarsi. Che vi fosse rimasto intrappolato qualche gatto randagio?
Il contenitore di quel macabro resto, alla fine, fu scoperchiato. Appena ciò venne fatto, di colpo ne saltò fuori la testa, che piombò, aggrappandovisi con i denti e mordendolo con ferocia, sul viso del boia, che nel frattempo si era tolto il cappuccio.
Il corpo decapitato, contemporaneamente, si levò in piedi e, dotato di una forza sovrumana, spezzò subito il collo di uno dei due assistenti del boia, quindi passò a strangolarne un altro, che gli stava accanto, immobilizzato dal terrore.
Intanto la testa, spinta da una forza oscura, continuava una lotta micidiale con colui che aveva cercato di esserne il carnefice. Il boia, il volto coperto di sangue, cercava di respingerla, e un paio di volte ci riuscì, ma quella testa orribile si avventava di nuovo su di lui azzannandolo con ancora maggior ferocia. Infine lo morse alla giugulare, provocandone rapidamente la morte.
I tre esecutori giacevano morti per terra. Il corpo raccolse a quel punto la propria testa e se la riattaccò al collo. Farla saldare nuovamente era un’operazione non facile, ma dopo qualche istante di concentrazione ci riuscì. Quindi, senza perdere tempo, si infilò nel vicolo più vicino in direzione del Rione Pigna. Di lì a poco la gente avrebbe scoperto i cadaveri del boia e delle due guardie.
Mentre andava per quelle stradine, l’Immortale aveva l’espressione impassibile di un fantasma e, simile a un demone, acquistò vigore a ogni passo che faceva. Se ne perse ben presto la vista, come di una nave che proceda, tacita e inesorabile, in mezzo a un banco di nebbia.



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