CINEMA E MUSICA
Stefano Torossi
Il festival di 'Musicultura'.
Macerata, bella piccola città delle Marche; c'è un notevole museo di pittura del novecento. Patria di Matteo Ricci (1552-1610), missionario gesuita in Cina e di Sante Monachesi (1910-1991), pittore futurista. E' curioso il fatto che gli antichi romani, quando incontravano un dislivello non si spaventavano. Prima rendevano tutto piano con enormi terrapieni e contrafforti, poi ci costruivano sopra. Dal medioevo in poi, finiti i soldi e il materiale, il mondo ha fatto un passo indietro. Perciò, come le altre città nate in quel periodo, anche Macerata è tutta scale e salite.
Ogni anno a metà giugno qui avviene un fatto importante: il Festival di Musicultura. Ma importante a livello nazionale, secondo solo a Sanremo per il lancio di nuovi cantanti, con in più l'attenzione alla poesia (Leopardi era di queste parti).
Dunque, il festival è diviso in tre: la parte spettacolare-mondana con ospiti normali e super, la sera nello Sferisterio; quella più intellettuale e minimalista, che si chiama la controra, nel pomeriggio in assolati cortili dove fa di solito molto caldo, e si ha di solito molto sonno perché la sera prima si è fatto molto tardi; e la gara dei ragazzi. Una parola sul magnifico Sferisterio, grande semicerchio all'aperto con un immenso palcoscenico addossato a un alto muro di mattoni, e tre livelli di palchi che formano un ventaglio intorno a una vasta platea d'erba. Magnifico davvero.
La controra. Arriviamo il venerdì pomeriggio, e ci precipitiamo al primo appuntamento nel cortile del municipio: una poetessa siriana che ora vive in Europa, Maram al-Masri. Belle poesie, ben recitate, ma la delizia di questa donna è quando racconta il suo primo gesto di libertà appena scappata dalla costrizione islamica. Si compra una bicicletta e ci va in giro. Nel suo paese una donna non può andare in bicicletta perché, ascoltate bene, il veicolo è innocente, ma sopra c'è il sellino, ed è lì che si nasconde il diavolo. Come mai? Ma è chiaro: il sellino è troppo vicino alle parti intime delle signore; e allora, niente bici per loro. No comment. Ma c'è un seguito, continua lei con la più grande innocenza. Nella città europea in cui vive ora, le hanno rubato una dozzina di sellini. La bici no, i sellini, sì...forse un integralista, forse un feticista, come va smaliziando Ennio Cavalli, poeta e curatore letterario della controra.
Altro cortile, sempre caldo, dove, punzecchiato da Michela Pallonaro, un altro ospite si espone. Si tratta di un personaggio che ci è sempre stato antipatico per la sua goliardia toscana, per quel testone esagerato che ha. Invece, sorpresa; il mascherone è in realtà garbato, spiritoso, e soprattutto, cosa che da sempre ci attrae, leggero. Bene, abbiamo recuperato Alessandro Benvenuti al nostro archivio personale.
Sabato. Mark Strand, poeta americano (e strafico alla Gary Cooper nella fotografia sul programma), in realtà, just an old man, come lui stesso riconosce, pur ammettendo la civetteria della foto di vent'anni prima. Ottimamente scortato dal suo traduttore Damiano Abeni e squisitamente accompagnato da Concia Lucente, madrina della manifestazione dall'inizio dei tempi, Strand legge le sue belle poesie grondanti sconsolazione e morte, però anche, e può sembrare insensato, humour.
Domenica il pezzo forte: Paolo Villaggio. Molto pittoresco. Avvolto in un abbondante kaftano lungo fino ai piedi, con elegante giacca di lino bianco, fa il nonno un po' svanito, borbotta, finge di dimenticare le domande, o forse le dimentica davvero, cambia argomento cento volte e non arriva al punto, ma poi alla fine rimane quel bravo raccontatore che conosciamo. Anche se questa sua caratterizzazione da vecchio cinico un po' rinco comincia a essere ripetitiva.
La gara. I ragazzi in concorso aprono le tre serate allo Sferisterio. Ci sembra che abbiano vinto quelli che hanno identificato meglio il bersaglio da centrare: il gruppo L'Orage. Ci sono stati momenti di tesa incertezza prima della finale, e dobbiamo confessare che avremmo preferito qualcun altro. Privi fortunatamente di ogni potere, non ci è riuscito di fare danni appoggiando proposte troppo ricercate o snob. Perché questa, come da sempre dimostra il voto, è una gara popolare.
Gli ospiti. Via con la mondanità. Ore 21.30, seduti in prima fila nello spazio davvero speciale dello Sferisterio, con un Negroni ben ghiacciato che come per incanto ci troviamo in mano un attimo prima dell'inizio. Questa si chiama ospitalità.
Prima serata: De Gregori con chitarra e armonica al collo. L'impressione, con tutto il rispetto per il personaggio che ormai è storico, è che quel sound (e quel cappello) siano ormai fuori tempo massimo.
Seconda serata: molto pane per i nostri denti avvelenati. Un Pino Daniele, talmente superlativo alla chitarra che dovrebbe finalmente decidersi, per il nostro e il suo bene, a smettere di cantare e dedicarsi solo allo strumento. Poi arriva Pacifico, e qui il nostro vicino di poltrona, con inconfondibile accento marchigiano, sibila: "Quello non è pacifico, è moscio". E finalmente Fabio Concato. Concato, noi lo amiamo. E' bravo, raffinato, intelligente, canta e compone bene. Ma dovevate vederlo. Siamo tutti d'accordo, credo, sul fatto che salire in palcoscenico significa partecipare a una cerimonia. E quindi ci si deve vestire in modo appropriato. Anche esagerato, intendiamoci (Villaggio col kaftano), basta che sia il risultato di un progetto, e non del caso. Il nostro artista, che non è aiutato dalla gioventù, a cui tutto è permesso (basta un'occhiata ad alcuni dei ragazzi in concorso; zozzi e trasandati fanno comunque simpatia), o da un fisico particolarmente generoso, si presenta che neanche un pulitore di cantine. Un vecchio giubbottino che, siamo sicuri, era brutto anche da nuovo, una magliettaccia con esposizione di collo rugoso, un pantalone rossastro stinto e sbracalone, occhialetti scuri da cieco. E per concludere, una bottiglietta di acqua, aperta, che ha tenuto in mano tutto il tempo, tristissima coperta di Linus. Alla fine dell'esibizione un inappuntabile Frizzi in completo scuro e cravatta, gli restituisce garbatamente il tappo rimastogli in tasca (a Frizzi).
Terza serata: niente da punzecchiare. Premiazione, baci e abbracci. E' andato tutto bene. Al prossimo anno.
Non finiremo così bruscamente la nostra cronaca senza parlare delle cene dopofestival. Appuntamenti ben congegnati dentro un meccanismo di accoglienza impeccabile, che radunano in situazioni piacevolmente enogastronomiche tutti: artisti, organizzatori, sindaco e assessori. I quali, stanchi, qualcuno deluso, ma comunque con addosso quella sensazione di lavoro ben fatto che gratifica chi ha contribuito a creare lo spettacolo, si rilassano, si incontrano e si conoscono. Che la cosa fun-ziona è chiaro dalla durata degli eventi. Domenica sera, anzi lunedì mattina siamo tornati a casa all'alba.
Ogni anno a metà giugno qui avviene un fatto importante: il Festival di Musicultura. Ma importante a livello nazionale, secondo solo a Sanremo per il lancio di nuovi cantanti, con in più l'attenzione alla poesia (Leopardi era di queste parti).
Dunque, il festival è diviso in tre: la parte spettacolare-mondana con ospiti normali e super, la sera nello Sferisterio; quella più intellettuale e minimalista, che si chiama la controra, nel pomeriggio in assolati cortili dove fa di solito molto caldo, e si ha di solito molto sonno perché la sera prima si è fatto molto tardi; e la gara dei ragazzi. Una parola sul magnifico Sferisterio, grande semicerchio all'aperto con un immenso palcoscenico addossato a un alto muro di mattoni, e tre livelli di palchi che formano un ventaglio intorno a una vasta platea d'erba. Magnifico davvero.
La controra. Arriviamo il venerdì pomeriggio, e ci precipitiamo al primo appuntamento nel cortile del municipio: una poetessa siriana che ora vive in Europa, Maram al-Masri. Belle poesie, ben recitate, ma la delizia di questa donna è quando racconta il suo primo gesto di libertà appena scappata dalla costrizione islamica. Si compra una bicicletta e ci va in giro. Nel suo paese una donna non può andare in bicicletta perché, ascoltate bene, il veicolo è innocente, ma sopra c'è il sellino, ed è lì che si nasconde il diavolo. Come mai? Ma è chiaro: il sellino è troppo vicino alle parti intime delle signore; e allora, niente bici per loro. No comment. Ma c'è un seguito, continua lei con la più grande innocenza. Nella città europea in cui vive ora, le hanno rubato una dozzina di sellini. La bici no, i sellini, sì...forse un integralista, forse un feticista, come va smaliziando Ennio Cavalli, poeta e curatore letterario della controra.
Altro cortile, sempre caldo, dove, punzecchiato da Michela Pallonaro, un altro ospite si espone. Si tratta di un personaggio che ci è sempre stato antipatico per la sua goliardia toscana, per quel testone esagerato che ha. Invece, sorpresa; il mascherone è in realtà garbato, spiritoso, e soprattutto, cosa che da sempre ci attrae, leggero. Bene, abbiamo recuperato Alessandro Benvenuti al nostro archivio personale.
Sabato. Mark Strand, poeta americano (e strafico alla Gary Cooper nella fotografia sul programma), in realtà, just an old man, come lui stesso riconosce, pur ammettendo la civetteria della foto di vent'anni prima. Ottimamente scortato dal suo traduttore Damiano Abeni e squisitamente accompagnato da Concia Lucente, madrina della manifestazione dall'inizio dei tempi, Strand legge le sue belle poesie grondanti sconsolazione e morte, però anche, e può sembrare insensato, humour.
Domenica il pezzo forte: Paolo Villaggio. Molto pittoresco. Avvolto in un abbondante kaftano lungo fino ai piedi, con elegante giacca di lino bianco, fa il nonno un po' svanito, borbotta, finge di dimenticare le domande, o forse le dimentica davvero, cambia argomento cento volte e non arriva al punto, ma poi alla fine rimane quel bravo raccontatore che conosciamo. Anche se questa sua caratterizzazione da vecchio cinico un po' rinco comincia a essere ripetitiva.
La gara. I ragazzi in concorso aprono le tre serate allo Sferisterio. Ci sembra che abbiano vinto quelli che hanno identificato meglio il bersaglio da centrare: il gruppo L'Orage. Ci sono stati momenti di tesa incertezza prima della finale, e dobbiamo confessare che avremmo preferito qualcun altro. Privi fortunatamente di ogni potere, non ci è riuscito di fare danni appoggiando proposte troppo ricercate o snob. Perché questa, come da sempre dimostra il voto, è una gara popolare.
Gli ospiti. Via con la mondanità. Ore 21.30, seduti in prima fila nello spazio davvero speciale dello Sferisterio, con un Negroni ben ghiacciato che come per incanto ci troviamo in mano un attimo prima dell'inizio. Questa si chiama ospitalità.
Prima serata: De Gregori con chitarra e armonica al collo. L'impressione, con tutto il rispetto per il personaggio che ormai è storico, è che quel sound (e quel cappello) siano ormai fuori tempo massimo.
Seconda serata: molto pane per i nostri denti avvelenati. Un Pino Daniele, talmente superlativo alla chitarra che dovrebbe finalmente decidersi, per il nostro e il suo bene, a smettere di cantare e dedicarsi solo allo strumento. Poi arriva Pacifico, e qui il nostro vicino di poltrona, con inconfondibile accento marchigiano, sibila: "Quello non è pacifico, è moscio". E finalmente Fabio Concato. Concato, noi lo amiamo. E' bravo, raffinato, intelligente, canta e compone bene. Ma dovevate vederlo. Siamo tutti d'accordo, credo, sul fatto che salire in palcoscenico significa partecipare a una cerimonia. E quindi ci si deve vestire in modo appropriato. Anche esagerato, intendiamoci (Villaggio col kaftano), basta che sia il risultato di un progetto, e non del caso. Il nostro artista, che non è aiutato dalla gioventù, a cui tutto è permesso (basta un'occhiata ad alcuni dei ragazzi in concorso; zozzi e trasandati fanno comunque simpatia), o da un fisico particolarmente generoso, si presenta che neanche un pulitore di cantine. Un vecchio giubbottino che, siamo sicuri, era brutto anche da nuovo, una magliettaccia con esposizione di collo rugoso, un pantalone rossastro stinto e sbracalone, occhialetti scuri da cieco. E per concludere, una bottiglietta di acqua, aperta, che ha tenuto in mano tutto il tempo, tristissima coperta di Linus. Alla fine dell'esibizione un inappuntabile Frizzi in completo scuro e cravatta, gli restituisce garbatamente il tappo rimastogli in tasca (a Frizzi).
Terza serata: niente da punzecchiare. Premiazione, baci e abbracci. E' andato tutto bene. Al prossimo anno.
Non finiremo così bruscamente la nostra cronaca senza parlare delle cene dopofestival. Appuntamenti ben congegnati dentro un meccanismo di accoglienza impeccabile, che radunano in situazioni piacevolmente enogastronomiche tutti: artisti, organizzatori, sindaco e assessori. I quali, stanchi, qualcuno deluso, ma comunque con addosso quella sensazione di lavoro ben fatto che gratifica chi ha contribuito a creare lo spettacolo, si rilassano, si incontrano e si conoscono. Che la cosa fun-ziona è chiaro dalla durata degli eventi. Domenica sera, anzi lunedì mattina siamo tornati a casa all'alba.
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