RECENSIONI
Dennis Lehane
L'isola della paura
Piemme, Pag.379 Euro 5,90
1954, settembre. L'agente federale Teddy Daniels viene inviato sull'isola di Shutter, al largo di Boston, dove si trova l'Ashecliffe Hospital, destinato alla detenzione e alla cura dei criminali psicopatici. Deve trovare una detenuta scomparsa, Rachel Salando, condannata per omicidio, ma un uragano si abbatte sull'isola, impedendo qualsiasi collegamento con il resto del mondo. Ma sull'isola, niente è davvero quello che sembra, e gli interrogativi si accavallano: come ha fatto la Salando a sparire nel nulla? Chi semina strani indizi in codice? E cosa sta cercando Teddy Daniels? Una detenuta scomparsa, oppure le prove che all'Ashecliffe Hospital si fanno esperimenti sugli esseri umani, o ancora qualcosa di più profondo, che lo tocca personalmente?
Diciamocelo (o come direbbe Fiorello... digiamogelo) la traduzione del titolo in italiano, rispetto all'originale (Shatter Island) sa molto delle porcheriole pseudofantascientifiche del dottor Moreau di wellsiana memoria.
Tant'è: il romanzo è di tutt'altra pasta. Poi, voi che ci seguite (e sappiamo che ci seguite) sapete con quanto amore e considerazione sosteniamo Dennis Lehane, uno dei grandi del noir contemporaneo.
Qui però dimentichiamoci Pat Kenzie e Angie Gennaro e le loro indagini sulle molestie ai bambini, l'atmosfera è completamente diversa e per certi versi inusuale: ricorda quasi il clima rarefatto di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (a cominciare dall'iniziale scena del traghetto e dell'isola che appare da lontano).
Ricorda anche i capovolgimenti di fronte dei film di Hitchcock e dei telefilm ai confini della realtà.
Direte: un esercizio di stile lontano dalle miserie ed efferatezze bostoniane? Probabile: ma in Lehane, abituati come siamo, abbiamo cercato un aggancio più di questa terra e se all'inizio pensavamo ad una metafora della condizione americana (perché non metterci anche Guantanamo e l'isolazionismo bushiano?) e dunque una sottile vena anti-autoritaria, con l'andare delle pagine ahinoi (beh sì, m'è dispiaciuto assai abbandonare la pista più meramente politica) ci siamo accorti che l'intento, pur se civile, era diverso.
Siamo nel campo delle terapie farmacologiche e dei loro abusi, ma anche delle sacrosante rivendicazioni: Uomini che credono che il modo per raggiungere la mente umana non siano punte di ghiaccio o dosaggi elevati di farmaci pericolosi, ma un onesto riconoscimento del sé (pag.353).
In Italia, purtroppo,il dibattito s'è afflosciato. In televisione ci tocca ancora sopportare il "prode" Cassano che disquisisce sull'utilità, nel 2006, dell'elettrochoc.
Lehane ha invece costruito un thriller efficace e sentito (lo si capisce dai ringraziamenti a fine romanzo), stravolgendo la sua geografia noir per offrirci uno spaccato diverso e ambiguo. Non è la prima volta che si allontana dai suoi personaggi preferiti (chi non ricorda Mistic river, il bellissimo film di Eastwood tratto da un suo romanzo?), ma qui fa addirittura tre passi di lato. Quasi un omaggio, con gli accordi giusti, ad una letteratura e ad una cinematografia lontane dalle derive sociali, ma ligie ai meccanismi della psicologia.
di Eleonora del Poggio
Diciamocelo (o come direbbe Fiorello... digiamogelo) la traduzione del titolo in italiano, rispetto all'originale (Shatter Island) sa molto delle porcheriole pseudofantascientifiche del dottor Moreau di wellsiana memoria.
Tant'è: il romanzo è di tutt'altra pasta. Poi, voi che ci seguite (e sappiamo che ci seguite) sapete con quanto amore e considerazione sosteniamo Dennis Lehane, uno dei grandi del noir contemporaneo.
Qui però dimentichiamoci Pat Kenzie e Angie Gennaro e le loro indagini sulle molestie ai bambini, l'atmosfera è completamente diversa e per certi versi inusuale: ricorda quasi il clima rarefatto di Dieci piccoli indiani di Agatha Christie (a cominciare dall'iniziale scena del traghetto e dell'isola che appare da lontano).
Ricorda anche i capovolgimenti di fronte dei film di Hitchcock e dei telefilm ai confini della realtà.
Direte: un esercizio di stile lontano dalle miserie ed efferatezze bostoniane? Probabile: ma in Lehane, abituati come siamo, abbiamo cercato un aggancio più di questa terra e se all'inizio pensavamo ad una metafora della condizione americana (perché non metterci anche Guantanamo e l'isolazionismo bushiano?) e dunque una sottile vena anti-autoritaria, con l'andare delle pagine ahinoi (beh sì, m'è dispiaciuto assai abbandonare la pista più meramente politica) ci siamo accorti che l'intento, pur se civile, era diverso.
Siamo nel campo delle terapie farmacologiche e dei loro abusi, ma anche delle sacrosante rivendicazioni: Uomini che credono che il modo per raggiungere la mente umana non siano punte di ghiaccio o dosaggi elevati di farmaci pericolosi, ma un onesto riconoscimento del sé (pag.353).
In Italia, purtroppo,il dibattito s'è afflosciato. In televisione ci tocca ancora sopportare il "prode" Cassano che disquisisce sull'utilità, nel 2006, dell'elettrochoc.
Lehane ha invece costruito un thriller efficace e sentito (lo si capisce dai ringraziamenti a fine romanzo), stravolgendo la sua geografia noir per offrirci uno spaccato diverso e ambiguo. Non è la prima volta che si allontana dai suoi personaggi preferiti (chi non ricorda Mistic river, il bellissimo film di Eastwood tratto da un suo romanzo?), ma qui fa addirittura tre passi di lato. Quasi un omaggio, con gli accordi giusti, ad una letteratura e ad una cinematografia lontane dalle derive sociali, ma ligie ai meccanismi della psicologia.
di Eleonora del Poggio
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