RECENSIONI
Halldór Laxness
La base atomica
Iperborea, Traduzione di Alessandro Storti, Pag. 272 Euro 16,00
«Nessuno s’illude più che sia possibile salvare il capitalismo, figuriamoci resuscitarlo; nemmeno con i sussidi di povertà che vengono dall’America. La barbarie è alle porte.» «Il comunismo è barbarie?» chiesi. «Non è quello che ho detto. Semmai è il capitalismo che, nella sua caduta, trascinerà nell’abisso la civiltà del mondo» (p. 231). Alla sua uscita, nel 1948, questo libro sparì in un giorno dagli scaffali di Reykjavík, e con lui sparì anche il contributo statale che dava il pane al suo autore, Halldór Laxness, premio Nobel per la letteratura nel 1955. La base atomica non ebbe mai vita facile, tra censure e mal di pancia istituzionali, eppure, letto oggi, sorprende per l’aria scanzonata, l’assenza d’invettive schiumanti. Al contrario: Laxness sa giocare su più fronti, non perde mai il senso dell’umorismo e si balocca col tema del titolo tradendo – senza intenti manipolativi – le aspettative del lettore. Malgrado il contesto storico, questo non è un libro sulla Guerra Fredda: si colloca su un piano più alto, che lo rende comunque fruibile senza doverlo zavorrare di note a piè di pagina. Nella sua postfazione, Giuliano D’Amico (che ricordiamo ottimo traduttore di Erlend Loe) descrive per filo e per segno il momento in cui nacque La base atomica. L’Islanda, fresca d’indipendenza, rischiava di finire «occupata» dagli yankee per via della sua posizione strategica, e nel 1946 era stato siglato l’accordo di Keflavík che concedeva agli americani l’uso a scopi militari dell’aeroporto della capitale per i successivi sei anni. Il rischio che l’isola dei geyser potesse tramutarsi in uno strumento «fine di mondo» era concreto, tant’è che la popolazione, nel gennaio del 1949, scese in piazza per protestare contro l’entrata nella NATO: il momento più teso della storia islandese prima della bancarotta del 2009. Laxness, socialista convinto e globetrotter con esperienze di vita collezionate tra Hollywood, l’Unione Sovietica e la Parigi delle avanguardie, forgia il romanzo in questo clima incandescente, ma da scrittore di vaglia qual è scansa la trappola del romanzetto polemico, della satira incomprensibile agli occhi dei non contemporanei (o dei non islandesi), e lascia la (geo)politica sullo sfondo. Basti dire che la protagonista, l’io narrante, è una ragazza di nome Ugla che dalla campagna si trasferisce a Reykjavík con un harmonium a mo’ di bagaglio e finisce per destreggiarsi come governante tra famiglie altolocate e impresentabili, intellettuali ascetici e cellule del Partito. Per tacere della ricerca selvatica, cruda, dell’amore… Il tutto narrato con una disinvoltura sconcertante se si pensa all’anno di edizione. Laxness struttura il romanzo per capitoli brevi dai titoli a volte geniali (Tempesta nella minestra, Colui che dimora sulle vette e mio padre), lo condisce con momenti di lirismo commovente (uno per tutti: il capitolo sui cavalli, da pagina 216) e con impagabili strali di sarcasmo, in particolare quando c’è di mezzo la religione (da non perdere i brani su Lutero pornografo e la traduzione letterale islandese del sintagma ‘gesù cristo da betlemme’). In estrema sintesi, La base atomica è un’eccellente sceneggiatura per un’operetta corale, urbana – la capitale islandese era da poco una città nel senso proprio del termine – così sfaccettata da beffare qualsiasi tentativo di sinossi. Salvo ridurla, erroneamente, a un romanzo sulla Guerra Fredda. Ed ecco, in chiusa, un distillato del pensiero di Óli Pupazzo, il capo di governo che nel libro vorrebbe vendere l’Islanda all’America «perché glielo chiede la coscienza»: «I comunisti», esclamò il primo ministro. «Maledetti comunisti. Li amo. Li ammazzo» (p. 92).
di Simone Buttazzi
di Simone Buttazzi
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