RACCONTI
Luigi Rocca
La vita vegetale
Certo si trattava di una suggestione (cos’altro poteva essere, altrimenti?), però dal giorno dell’incidente la signora Maria si sentiva serena solo sul suo terrazzo, circondata dal silenzio delle sue piante. Gli odori della città lassù non arrivavano e anche i rumori erano abbastanza distanti da poter essere ignorati, forse proprio per questo si era ritrovata a trascorrere il tempo in mezzo a quella nuova compagnia.
L’incidente. Il tragico incidente, come avevano scritto i giornali. Il fatale incidente. Ma la signora Maria sapeva che il fato e la tragedia non avevano niente a che fare con quello che era successo. Neanche la volontà di Dio. Era successo e basta: suo figlio prima c’era e ora non c’era più, Nient’altro. Quando le avevano dato la notizia, quando aveva visto per l’ultima volta il suo corpo disteso come in una deposizione medievale, quando era tornata dal funerale cercando di sfuggire gli abbracci soffocanti, quando insomma la sua mente aveva finalmente finito di comprendere quello che era veramente successo, aveva avuto la certezza che da quel momento le sue mani avrebbero rifiutato di afferrare gli oggetti, i suoi piedi di camminare, la sua bocca di masticare… Che senso avrebbe avuto, ormai? Non devi lasciarti sopraffare dal dolore, le avevano ripetuto tutti, è pericoloso. (Pericoloso. Che significato poteva avere adesso quella parola?) Il dolore è una sabbia mobile e se non provi a reagire subito, sarà sempre più difficile uscirne. Ed era proprio questo che lei voleva: lasciarsi scivolare sempre più a fondo nel dolore, lentamente, senza opporsi, senza reagire. Loro non potevano capire. Le piante sì.
Con suo marito, era stato diverso. Ricordi come eri stata coraggiosa, come eri stata forte? Certo: forte e coraggiosa, ma allora c’era stata la malattia che le aveva dato il tempo di prepararsi, di immaginare una vita senza di lui. E quando alla fine lui si era spento, non era stato difficile mostrarsi forte e coraggiosa. In fondo quell’uomo con il quale aveva diviso tutti gli ultimi anni, quell’uomo che aveva amato e detestato, non era nato da lei, non era sangue del suo sangue, il senso della sua vita. Come fare un paragone? Che senso poteva avere adesso essere forte e coraggiosa? Meglio il dolore, allora, meglio lasciarsi risucchiare dalle sabbie mobili, lentamente, inesorabilmente. La signora Maria trovava questa idea quasi rassicurante.
Le amiche i primi tempi erano state premurose nei suoi confronti, mille attenzioni, mille telefonate. Lei era stata gentile con loro o almeno sperava di esserlo stata. Rispondeva con una parola ad ogni loro parola, con un sorriso ad ogni loro sorriso, però avrebbe voluto dire che non era il caso, che lei stava bene così, nelle sue sabbie mobili.
Un pomeriggio, uno dei tanti pomeriggi che continuavano a susseguirsi nonostante tutto, era uscita sul terrazzo e aveva scoperto che le piante, le sue povere piante, avevano cominciato a soffrire della sua incuria: la strelitzia chinava la testa colorata come se anche lei affondasse nel dolore e la mancanza d’acqua chiazzava qua e là le foglie della dieffenbachia. Aveva provato un senso di ribellione a tutto questo: lei poteva anche lasciarsi precipitare giù per il suo dirupo, ma loro no. Il senso della sua vita da quel momento consistette nel prendersi cura delle sue amiche vegetali: la distribuzione dell’acqua, l’irrorazione dell’antiparassitario, il trapianto in vasi più grandi, ogni giorno c’era un nuovo intervento da finire.
Soprattutto era rimanere in mezzo a loro, la perfezione del loro silenzio e della loro immobilità, a rasserenarla. La signora Maria non poteva fare a meno di sorridere di tutte le parole che le venivano in mente, di tutti i gesti che le riempivano la giornata. Inizialmente si era portata una sedia ed era rimasta con gli occhi chiusi, accontentandosi di percepire i refoli d’aria e il calore del sole. Poi aveva abbandonato la sedia ed era rimasta in piedi, tenendo le braccia leggermente staccate dal corpo, come fossero rami, sebbene questo le costasse una certa fatica. Per tutto il tempo in cui manteneva questa posizione poteva sentire la sua testa svuotarsi a poco a poco. Anche il pensiero del figlio, il suo ricordo, il dolore sembravano perdere consistenza.
Poi un giorno decise di togliersi le scarpe, ma le piastrelle del terrazzo erano troppo fredde e lisce sotto i suoi piedi e quel contatto non le sembrava naturale. Così decise di coprirle interamente con il terriccio. Ora sì che provava quello che voleva provare, con le dita che si muovevano quasi cercassero di radicarsi su quel tappeto naturale. Sentiva una nuova sensazione fluirle su per le gambe. La linfa, si disse, ma subito scacciò questa parola. Silenzio e immobilità.
Quando cominciarono a caderle sul viso le prime gocce di pioggia riuscì a resistere all’istinto di tornare dentro casa a ripararsi. Non pensò nemmeno Devo rimanere, rimase e basta. Insieme alle sue piante. La pioggia per loro era natura, era vita, doveva essere così anche per lei. Sentiva i vestiti inzupparsi sul suo corpo senza provarne fastidio. Anche le braccia avevano smesso di dolerle nonostante la posizione. Un soffio di vento spostò una foglia del filodendro che le sfiorò le dita e bastò questo contatto per farle provare un piccolo fremito e un maggiore senso di fratellanza.
Non si mosse nemmeno quando le gocce di pioggia smisero di bagnarla per lasciar posto al tepore del sole serale. Era di questo, solo di questo che aveva bisogno.
La mattina seguente, dopo una notte di silenzio e immobilità, il prurito sulle braccia le diede la sensazione che stessero spuntando le prime gemme. Le sarebbe piaciuto aprire gli occhi e guardarle, ma sarebbe stato un errore, così si accontentò di concentrarsi sul leggero solletico che generavano sulla sua pelle in attesa di sentirle germogliare.
L’incidente. Il tragico incidente, come avevano scritto i giornali. Il fatale incidente. Ma la signora Maria sapeva che il fato e la tragedia non avevano niente a che fare con quello che era successo. Neanche la volontà di Dio. Era successo e basta: suo figlio prima c’era e ora non c’era più, Nient’altro. Quando le avevano dato la notizia, quando aveva visto per l’ultima volta il suo corpo disteso come in una deposizione medievale, quando era tornata dal funerale cercando di sfuggire gli abbracci soffocanti, quando insomma la sua mente aveva finalmente finito di comprendere quello che era veramente successo, aveva avuto la certezza che da quel momento le sue mani avrebbero rifiutato di afferrare gli oggetti, i suoi piedi di camminare, la sua bocca di masticare… Che senso avrebbe avuto, ormai? Non devi lasciarti sopraffare dal dolore, le avevano ripetuto tutti, è pericoloso. (Pericoloso. Che significato poteva avere adesso quella parola?) Il dolore è una sabbia mobile e se non provi a reagire subito, sarà sempre più difficile uscirne. Ed era proprio questo che lei voleva: lasciarsi scivolare sempre più a fondo nel dolore, lentamente, senza opporsi, senza reagire. Loro non potevano capire. Le piante sì.
Con suo marito, era stato diverso. Ricordi come eri stata coraggiosa, come eri stata forte? Certo: forte e coraggiosa, ma allora c’era stata la malattia che le aveva dato il tempo di prepararsi, di immaginare una vita senza di lui. E quando alla fine lui si era spento, non era stato difficile mostrarsi forte e coraggiosa. In fondo quell’uomo con il quale aveva diviso tutti gli ultimi anni, quell’uomo che aveva amato e detestato, non era nato da lei, non era sangue del suo sangue, il senso della sua vita. Come fare un paragone? Che senso poteva avere adesso essere forte e coraggiosa? Meglio il dolore, allora, meglio lasciarsi risucchiare dalle sabbie mobili, lentamente, inesorabilmente. La signora Maria trovava questa idea quasi rassicurante.
Le amiche i primi tempi erano state premurose nei suoi confronti, mille attenzioni, mille telefonate. Lei era stata gentile con loro o almeno sperava di esserlo stata. Rispondeva con una parola ad ogni loro parola, con un sorriso ad ogni loro sorriso, però avrebbe voluto dire che non era il caso, che lei stava bene così, nelle sue sabbie mobili.
Un pomeriggio, uno dei tanti pomeriggi che continuavano a susseguirsi nonostante tutto, era uscita sul terrazzo e aveva scoperto che le piante, le sue povere piante, avevano cominciato a soffrire della sua incuria: la strelitzia chinava la testa colorata come se anche lei affondasse nel dolore e la mancanza d’acqua chiazzava qua e là le foglie della dieffenbachia. Aveva provato un senso di ribellione a tutto questo: lei poteva anche lasciarsi precipitare giù per il suo dirupo, ma loro no. Il senso della sua vita da quel momento consistette nel prendersi cura delle sue amiche vegetali: la distribuzione dell’acqua, l’irrorazione dell’antiparassitario, il trapianto in vasi più grandi, ogni giorno c’era un nuovo intervento da finire.
Soprattutto era rimanere in mezzo a loro, la perfezione del loro silenzio e della loro immobilità, a rasserenarla. La signora Maria non poteva fare a meno di sorridere di tutte le parole che le venivano in mente, di tutti i gesti che le riempivano la giornata. Inizialmente si era portata una sedia ed era rimasta con gli occhi chiusi, accontentandosi di percepire i refoli d’aria e il calore del sole. Poi aveva abbandonato la sedia ed era rimasta in piedi, tenendo le braccia leggermente staccate dal corpo, come fossero rami, sebbene questo le costasse una certa fatica. Per tutto il tempo in cui manteneva questa posizione poteva sentire la sua testa svuotarsi a poco a poco. Anche il pensiero del figlio, il suo ricordo, il dolore sembravano perdere consistenza.
Poi un giorno decise di togliersi le scarpe, ma le piastrelle del terrazzo erano troppo fredde e lisce sotto i suoi piedi e quel contatto non le sembrava naturale. Così decise di coprirle interamente con il terriccio. Ora sì che provava quello che voleva provare, con le dita che si muovevano quasi cercassero di radicarsi su quel tappeto naturale. Sentiva una nuova sensazione fluirle su per le gambe. La linfa, si disse, ma subito scacciò questa parola. Silenzio e immobilità.
Quando cominciarono a caderle sul viso le prime gocce di pioggia riuscì a resistere all’istinto di tornare dentro casa a ripararsi. Non pensò nemmeno Devo rimanere, rimase e basta. Insieme alle sue piante. La pioggia per loro era natura, era vita, doveva essere così anche per lei. Sentiva i vestiti inzupparsi sul suo corpo senza provarne fastidio. Anche le braccia avevano smesso di dolerle nonostante la posizione. Un soffio di vento spostò una foglia del filodendro che le sfiorò le dita e bastò questo contatto per farle provare un piccolo fremito e un maggiore senso di fratellanza.
Non si mosse nemmeno quando le gocce di pioggia smisero di bagnarla per lasciar posto al tepore del sole serale. Era di questo, solo di questo che aveva bisogno.
La mattina seguente, dopo una notte di silenzio e immobilità, il prurito sulle braccia le diede la sensazione che stessero spuntando le prime gemme. Le sarebbe piaciuto aprire gli occhi e guardarle, ma sarebbe stato un errore, così si accontentò di concentrarsi sul leggero solletico che generavano sulla sua pelle in attesa di sentirle germogliare.
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