Tasti di scelta rapida del sito: Menu principale | Corpo della pagina

Il Paradiso degli Orchi
Home » Racconti » Per l'ostinazione di un pesce

Pagina dei contenuti


RACCONTI

Davide Riossone

Per l'ostinazione di un pesce

immagine
Quando giunsero sul posto, il suo corpo era gonfio come se qualcuno ci avesse soffiato dentro per un’ora buona, e immobile quanto un pezzo di legno lasciato galleggiare sul pelo dell’acqua, trasportato dalla corrente, si potrebbe dire.
Di fatto in quel laghetto artificiale mezzo sepolto dai campi di granturco e dimenticato da tutti, o quasi, non c’è neppure l’ombra della corrente. Al massimo, quando tira un po’ di vento, una brezza leggera rotola giù dalle montagne laggiù (d’estate è piacevole percepirla sui peli delle braccia, te li arriccia tutti), e copre di rughe la superficie dell’acqua, come il volto perplesso di un vecchio, e sembra ci siano delle minuscole onde a percorrerlo.
È pura illusione, però.
Quel laghetto, appena fuori Vische, frequentato perlopiù da zanzare grosse quanto una mano d’uomo, sta morendo, lentamente, ma lo sta facendo. Senza ombra di dubbio si sta prosciugando.
Proprio come quella ragazza poggiata sulla sua sponda fangosa, simile ad un bel pescione lasciato agonizzare dopo averlo trascinato, non senza fatica, a riva. Qui riceverà il colpo di grazia, quello definitivo che lo farà smettere di dimenarsi a destra e a manca. È normale faccia così, perché lui non ci sta, non ha proprio nessuna voglia di morire in modo stupido e privo di dignità, appeso all’amo di Giovanni, pescatore della domenica, deciso a portare qualcosa con sé, quando tornerà a casa, una qualsiasi cosa, purché sua moglie, Maria, non possa lamentarsi.
Indossa degli enormi pantaloni verdi e un giubbotto ricco di saccocce di cui non sa bene che farci, e deve portare a casa la cena. Cosa di fatto non necessaria (il frigorifero è pieno zeppo), ma utile a dimostrare che il tempo passato fuori non è andato sprecato, è servito a prendere quel pesce, un piccolo, innocente e neanche troppo prelibato pescetto (un pesce gatto pieno di lische, una trota ingenua o una carpa non ancora cresciuta, Giovanni non sa distinguere l’uno dall’altro) con il quale potersi gloriare di fronte al muso duro di quella donna, esasperata dal modo di comportarsi del marito.
Ma questa è un’altra storia.
Fatto sta che il bisogno di tornare vittoriosi dalla guerra ha spinto quella povera anima (il pescatore dallo sguardo perso che, senza alcun voglia, ha retto in mano una canna da pesca per tutto il giorno), a recarsi nell’unico posto nei dintorni in cui poter incontrare un’anima più povera della sua (il pesce), e a gettare il galleggiante ad appena qualche metro dalla riva paludosa, praticamente al centro del lago. È questo il motivo per il quale quell’uomo in pena si trova lì, pronto ad accoppare il suo bottino (a quell’ora del giorno neanche ci sperava più di riuscire a prendere qualcosa), che ancora si dimena tra l’erba bagnaticcia di sudore, il suo non quello del pesce, sfinito dalla lotta impari e da un pomeriggio infruttuoso.
È felice l’uomo (non il pesce, sta morendo lui), al punto di concedersi un bel sorriso.
Piega gli angoli della bocca all’insù e spinge fuori i denti in quello che gli pare un bel modo di farlo, di sorridere, e aspetta. Aspetta una reazione del suo corpo fiaccato dalla vita, vorrebbe un bel sorriso anche da parte sua, vorrebbe mostrasse anche solo un pelino di felicità. Niente.
L’analogia tra la il pesce e la ragazza si conclude qui perché a quest’ora il primo è già belle che morto (il pescatore, dopo essersi ricomposto dal suo goffo tentativo di stare su con la vita, come suggerisce sempre di fare sua moglie, ha afferrato un pezzo di legno bello tozzo e ha cominciato a colpirlo sulla testa fino a sentire il fatidico crac), mentre la seconda sembra avere ancora qualche speranza.
È ciò di cui si convince il pescatore soffiando dentro il suo corpo (da almeno mezz’ora) e schiacciando il suo petto, proprio come gli ha suggerito di fare l’uomo all’altro capo del telefono, quando ha chiamato il 118.
Ecco perché quel corpo, quasi del tutto nudo, fatta eccezione per un paio di mutandine zebrate mezze consumate, si sta gonfiando.
Qui sorge un’ulteriore problema perché le manovre messe in atto dall’uomo non sono proprio accurate come vorrebbe, ma in fondo non lo sono stati neppure i colpi sferrati sulla testa scivolosa del pesce, che a forza di agitarsi lo ha costretto a scagliare delle bastonate a casaccio, giungendo sì al famigerato crac, ma spargendo anche goccioloni di sangue grumoso tutt’intorno.
Giovanni sta facendo del suo meglio.
Vuole salvare la ragazza, ma non si è mai trovato in una situazione simile. A lui al massimo è capitato di uccidere (qualche pesce e nient’altro, sia chiaro), non di essere chiamato a restituire la vita a qualcuno. Non si sente a sua agio con quella faccenda. Gli sembra prossima all’idea della risurrezione, un argomento di cui ne sa davvero pochissimo, sua moglie è più ferrata.
Se la sente di provare a rianimarla? Gli ha domandato la voce al telefono.
Ovvio che no, come potrebbe? Ma cos’altro può fare (pensa anche)?
Osserva di nuovo il corpo. Pare addormentato. Pensa, peggio di così le cose non possono andare.
Come faccio? Domanda Giovanni e, sfilandosi il giubbotto ingombrante e abbassandosi le bretelle dei pantaloni che gli limitano i movimenti, si inginocchia a lato della ragazza e comincia a fare quel che c’è da fare.
È giovane, un po’ più vecchia del pesce accanto a lei con la testa fracassata, ma senza dubbio giovane. Indossa una parrucca biondo cenere che le copre solo metà della testa. L’altra metà è scura, quasi nera. La sua pelle, per quanto tutta tesa e sul punto di lacerarsi, sembra curata. Ha il corpo da modella, anche se sua moglie non lo direbbe mai di una ragazza così, troppo volgare, penserebbe. Gli occhi sono screziati di verde acido e appena arrossati. Nell’ombelico si è raccolta parecchia acqua e anche un’alga, segno che quella pozza sta proprio morendo.  
Bene, continui finché ce la fa… le ho già inviato un’ambulanza. Pochi minuti e sarà lì, si sente dire Giovanni dal microfono del cellulare, poggiato a terra tra l’erba.
Lui soffia e schiaccia, soffia e schiaccia, soffia e schiaccia, alternando i due gesti senza alcuna consapevolezza del loro significato, ma non succede un granché. Quel corpo è più rigido di quello del pesce, che con calma si sta dissanguando. Le branchie stanno colando.
Perché capitano tutte e me? Si domanda.
Era così giovane, si dirà tra qualche ora in paese. Io so chi era! dirà qualcuno. Anch’io lo so, dirà qualcun altro. Era una puttana, interverrà una donna. Sì, ma voleva fare la modella, dirà di rimando un uomo. Conciata com’era poteva solo fare la zoccola, ribatterà Maria, decisa a tenere il punto. Si chiamava Ana… ci ho parlato una volta… al bar di Gio, interverrà un ragazzo, con voce spezzata. Era lì che adescava i clienti, dirà una donna (non quella di prima) apparsa accanto a Maria. Era parecchio bevuta, dirà ancora Matteo (quel ragazzo), abbassando lo sguardo sul suo negroni. Non era neppure italiana, preciserà Teresa (la seconda signora). È per colpa di gente così che il mondo ha smesso di andare nella giusta direzione, interverrà Maria. Diceva di voler fare la modella, così diceva, dirà ancora Matteo, giocherellando con il ghiaccio mezzo sciolto sul fondo del bicchiere. Bella era bella, si permetterà di commentare Carlo (il primo uomo ad aver parlato), mentre tutti gli sguardi gli cadranno addosso come mosche ammattite dal caldo precipitate su una grossa merda. Altri uomini (arrivati al bar di Gio durante le prime fasi della conversazione), mostreranno un cenno di sorriso sui loro volti al pensiero che Ana era proprio un gran pezzo di ragazza, tutta gambe e un seno grosso così, ricorderanno tutti. Non basta essere bella per fare la modella, dirà Maria, Ci vuole anche classe, portamento, eleganza, preciserà sempre lei qualche secondo dopo, ringalluzzita da Teresa al suo fianco, pronta a sostenerla. Diceva che gli mancava tanto così per avere i soldi e andarsene da qui. Per andare in città… a Milano, riprenderà a dire Matteo, con appena un filo di voce. È lì il suo posto… per strada, interverrà di nuovo la signora più grassoccia (Maria), Non qui in mezzo alla brava gente, dirà infine. A questo punto gli uomini non diranno più nulla (Carlo, una volta ci è andato con Ana. Povera ragazza, aveva proprio bisogno di soldi. Le ha dato cinque euro in più del pattuito. Anche Renato ci è stato, per darle una mano, sia chiaro. Era appena arrivata in Italia, così aveva detto lei, ma era stata truffata, e adesso batteva per poter restituire il prestito. La storia più vecchia del mondo, aveva riferito lui a Carlo, la stessa sera al bar di Gio. A quella gente piace fare quello che fa, sennò non lo farebbe (questo, però, l’ha solo pensato tra sé e sé). Luca non ci è mai andato, ma avrebbe voluto farlo, eccome se avrebbe voluto. Era così bella Ana, e anche gentile. Gli sorrideva sempre quando lo incrociava per strada. Aveva sempre l’aria malinconica però, a pensarci meglio. Un giorno le ha dato comunque dieci euro, senza pretendere niente in cambio. Stava bevendo davvero tanto, dirà ancora Matteo, senza badar troppo ai commenti di Maria. Quella è solo una vecchia inacidita dal tempo. Si sarà fatta almeno tre negroni e un bianchetto. Non la smetteva più, dirà Matteo. Che schifo, aggiungerà Teresa, quasi aggrappata alla sottana di Maria. Si è anche messa a piangere ad un certo punto, seguiterà a dire Matteo. Renato penserà che lo aveva fatto anche con lui. Si era messa a frignare a più non posso non appena finito. Le aveva allungato dei soldi in più per farla smettere. Poi si è alzata (parole di Matteo). Barcollava tutta. Non si reggeva quasi in piedi. È andata di là, dirà standosene seduto, indicando il laghetto Paradiso, mentre il sole starà sgocciolando gli ultimi resti di luce sul campanile della chiesa, poco più in là. Avremmo dovuto denunciarla, quella zozzona, dirà Maria, senza più nessuno ad ascoltarla, tranne Teresa.

Tutti escono dal bar, attirati dal suono di una sirena. La polizia forse, o un’ambulanza, chi può dirlo. Non è passata per quella strada, ma da fuori, dalla circonvallazione. Chissà dove sta andando? Vische è piena di cascine sparse in campagna. Se non sei del posto neppure sai che esistono.
Matteo guarda in direzione del laghetto.     
Un’altra questione da chiarire riguarda l’incapacità mostrata dal corpo di Giovanni a sottomettersi ad un istante di gioia (dopo aver sentito la canna da pesca irrigidirsi sotto il peso di una vita acquatica rimasta appesa al suo galleggiante, e dopo aver constato, attraverso gli occhi quasi grigi, una volta erano azzurri, che proprio di un pesce si trattava), restio oltre ogni limite a piegarsi ad appena qualche frammento di tempo sottratto all’infelicità nella quale sguazza tutti i santi giorni da almeno dieci anni a questa parte.
Non sopporta più sua moglie, ma è troppo vecchio per cercarsene un’altra.
La spiegazione, in realtà, non è quella. Quando lo sguardo dell’uomo si è alzato dal pesce appena trascinato a riva, è rimasto per un attimo stordito dalla poltiglia di sole che tra poco più di un paio d’ore andrà a morire appena al di là della collina di Candia, e subito dopo si è abbattuto su una sagoma scura, un pezzo di legno forse, un animale (possibile) a bagno nell’acqua. La sua vista non è più quella di una volta.
Quella è un essere umano, sta galleggiando, e non sta facendo il morto in mezzo al lago per abbronzarsi un po’. E quando Giovanni lo capisce, quando i suoi occhi mettono a fuoco la situazione, il suo cuore prende il controllo sulla mente, mostrandole come non ci sia proprio un bel niente per cui stare allegri.
È stanco morto Giovanni, di soffiare e schiacciare. Vorrebbe fermarsi. Gli sembra tutto inutile. Dalla bocca della ragazza è uscito pure del vomito, odoroso d’alcol. Per poco non lo fa svenire. Una puzza tremenda.
Proprio mentre sta per gettare la spugna sente una sirena in lontananza, l’ambulanza di certo. Non troveranno mai il posto. È troppo nascosto, pensa.
Sento l’ambulanza, dice al telefono, gli vado incontro.
No no, continui a rianimare la ragazza, si affretta a rispondere l’altra voce, ma è troppo tardi. Giovanni si è già alzato, abbandonando i due corpi (quello della ragazza e del pesce).
A questo punto lasciamo per un attimo il pescatore e torniamo al pesce e alla ragazza. È vero, ho mentito. L’analogia prosegue.
Immaginatevi la faccia del pesce.
Proprio non voleva stare fermo e morire con un colpo secco sulla testa. Era disposto a soffrire pur di convincere l’uomo con il bastone nelle mani a posare quel coso e rigettarlo in acqua. Non può far altro che sbattere la coda e piegare la testa a destra e a sinistra, in una sorta di No, No, ti supplico. Mica parla un pesce. Gli occhi di Giovanni sono percorsi di bontà, questo lo capisce il pesce, e proprio su quel sentimento cerca di far leva per ottenere la grazia.
Maria non lo guarda nemmeno più in faccia. Non sa cosa racchiude nei suoi occhi, il marito.
Adesso immaginatevi il volto di Ana, morta affogata piuttosto di fare la modella.
Lei non ha voluto sapere di riprendersi, si è rassegnata al suo destino, non proprio quello immaginato un anno prima, quand’era arrivata in quel paesino piemontese, ma pur sempre il suo destino. Non si è dimenata, non ha protestato, non ha mostrato segni di volere andare oltre. A lei andava bene così. Non ha chiesto lei a Giovanni di starle accanto e cercare di salvarla. È andata lì sola, e sola voleva morire. Senza recare alcun disturbo a nessuno.
Immaginate ancora il volto di Maria.
Qualche ora dopo i fatti esposti (quando il corpo di Ana sarà già stato rimosso) verrà convocata dai carabinieri del comando di Strambino per alcuni chiarimenti. Dove diavolo si è cacciato Giovanni? penserà mentre guida, Mai che si faccia vedere quando serve. Quando l’aveva sposato non si comportava così, proprio no, era sempre al suo fianco.
Ma questa è un’altra storia.
E immaginate ancora la sua faccia quando vede il marito chiuso in una stanza, insieme al maresciallo. Cosa ci fa lì? Pensa, Cos’ha combinato?
Immaginate infine il suo volto alla notizia che Giovanni, mezz’ora prima, è stato pescato sul luogo di un delitto, un laghetto di pesca abbandonato poco fuori Vische, mezzo svestito, sporco di sangue, in chiaro stato confusionale, forse ubriaco. Nello specifico si tratta del corpo di una ragazza di ventisei anni, una certa Ana Cescu, anch’essa completamente nuda e imbrattata di sangue. Maria si lascerà cadere su una sedia e penserà, Perché era lì? Cosa diavolo ci faceva lì? A lui non piace neppure pescare.
Ve l’immaginate?



CERCA

NEWS

RECENSIONI

ATTUALITA'

CINEMA E MUSICA

RACCONTI

SEGUICI SU

facebookyoutube