CINEMA E MUSICA
Alfredo Ronci
Tom Jones o della competenza: 'Spirit in the room'.
Annosa questio: gli artisti di successo devono sperimentare e quindi crescere oppure rimanere nelle loro comode posizioni?
Io dico che dipende dai casi. Certo, se faccio la domanda a Tom Yorke mi risponde pure male: i Radiohead non sperimentano, i Radiohead sono e punto. Se la faccio a Sting secondo me mi dice che in natura nulla si crea e nulla si distrugge.
E allora prendi Tom Jones: è passato attraverso centouno esperienze (io che ho una certa età me lo ricordo pure nell'hit anni sessanta 'Delilah', coverizzata in Italia da Jimmy Fontana) e mica ti aspetteresti che dopo apparizioni cinematografiche (Mars attack!) ed un hit mondiale come 'Sex bomb' ti sforna un album emozionale come Spirit in the room.
Diciamo la verità: non è che in questi decenni ho seguito con trepidazione le sorti musicali del sor Thomas ex minatore in quel di Galles, avevo ben altro da fare e da ascoltare, ma la sua ultima fatica merita tutte le nostre attenzioni.
E' un disco di cover. E che cover!
Immaginate un tuffo rigenerante nel folk più classico con qualche ballata suggestiva e assolutamente acchiapposa.
Sir Jones si permette di rifare, con classe cristallina e col solito vocione ben calibrato, Leonard Cohen ('Tower of song'), il Paul McCartney della colonna sonora del film Stanno tutti bene ('I want to come home'), una cover di una delle cantanti di colore più grandi del secolo scorso, Odetta, da poco scomparsa ('Hit or miss'), il Paul Simon di 'Love and blessing', Blind Willie Johnson di 'Soul of a man' ed un recentissimo Tom Waits, ed esattamente 'Bad as me' dell'omonimo album del 2011 (uno dei pezzi più suggestivi e riusciti). Su tutti, ed è ovviamente un giudizio personale, 'All blues hail Mary' del grande e mai troppo considerato Joe Henry, noto ai meno anche per essere il cognato di Madonna (ma Madonna si astiene dal cantarlo... anche perché che c'azzecca?).
Insomma un disco robusto e niente affatto scontato (i dischi di cover spesso lo sono perché servono essenzialmente a tener su l'artista e a fargli fare qualche liretta). Jones ha scelto la strada dell'impegno e della serietà, tralasciando il vezzo ballereccio contemporaneo (che lui saprebbe gestire alla meglio) e 'ribattezzandosi' artista con le contropalle.
Dunque la questione iniziale era: gli artisti di successo devono sperimentare e quindi crescere oppure rimanere nelle loro comode posizioni?
Si risponde di nuovo: dipende dai casi. Certo che l'evoluzione pare più facile per l'artista piuttosto che per il semplice esecutore. Ma Tom Jones dimostra che con un pizzico di lucidità si può far tutto e bene, e alla faccia delle fastidiosissime querelle.
Tom Jones
Spirit in the room
Universal - 2012
Io dico che dipende dai casi. Certo, se faccio la domanda a Tom Yorke mi risponde pure male: i Radiohead non sperimentano, i Radiohead sono e punto. Se la faccio a Sting secondo me mi dice che in natura nulla si crea e nulla si distrugge.
E allora prendi Tom Jones: è passato attraverso centouno esperienze (io che ho una certa età me lo ricordo pure nell'hit anni sessanta 'Delilah', coverizzata in Italia da Jimmy Fontana) e mica ti aspetteresti che dopo apparizioni cinematografiche (Mars attack!) ed un hit mondiale come 'Sex bomb' ti sforna un album emozionale come Spirit in the room.
Diciamo la verità: non è che in questi decenni ho seguito con trepidazione le sorti musicali del sor Thomas ex minatore in quel di Galles, avevo ben altro da fare e da ascoltare, ma la sua ultima fatica merita tutte le nostre attenzioni.
E' un disco di cover. E che cover!
Immaginate un tuffo rigenerante nel folk più classico con qualche ballata suggestiva e assolutamente acchiapposa.
Sir Jones si permette di rifare, con classe cristallina e col solito vocione ben calibrato, Leonard Cohen ('Tower of song'), il Paul McCartney della colonna sonora del film Stanno tutti bene ('I want to come home'), una cover di una delle cantanti di colore più grandi del secolo scorso, Odetta, da poco scomparsa ('Hit or miss'), il Paul Simon di 'Love and blessing', Blind Willie Johnson di 'Soul of a man' ed un recentissimo Tom Waits, ed esattamente 'Bad as me' dell'omonimo album del 2011 (uno dei pezzi più suggestivi e riusciti). Su tutti, ed è ovviamente un giudizio personale, 'All blues hail Mary' del grande e mai troppo considerato Joe Henry, noto ai meno anche per essere il cognato di Madonna (ma Madonna si astiene dal cantarlo... anche perché che c'azzecca?).
Insomma un disco robusto e niente affatto scontato (i dischi di cover spesso lo sono perché servono essenzialmente a tener su l'artista e a fargli fare qualche liretta). Jones ha scelto la strada dell'impegno e della serietà, tralasciando il vezzo ballereccio contemporaneo (che lui saprebbe gestire alla meglio) e 'ribattezzandosi' artista con le contropalle.
Dunque la questione iniziale era: gli artisti di successo devono sperimentare e quindi crescere oppure rimanere nelle loro comode posizioni?
Si risponde di nuovo: dipende dai casi. Certo che l'evoluzione pare più facile per l'artista piuttosto che per il semplice esecutore. Ma Tom Jones dimostra che con un pizzico di lucidità si può far tutto e bene, e alla faccia delle fastidiosissime querelle.
Tom Jones
Spirit in the room
Universal - 2012
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