CLASSICI
Alfredo Ronci
Tu, sanguinoso scrittore: “Verderame” di Michele Mari.
E’ indubbio che ci siano meccanismi ben precisi che ci indirizzano su autori invece che su altri. In questa nostra rubrica di classici, in verità, le scelte che cadono su uno scrittore invece che un altro derivano però solo dalla qualità delle loro opere e anche da un certo menefreghismo (sì proprio quello) dell’epoca. Ora, cosa può avermi spinto a scegliere un autore come Mari rispetto ad altri? Al di là di una narrativa esigente ma nello stesso tempo pratica dello scrittore, la scelta stavolta è stata data da un banale accadimento nella lettura di un contemporaneo: Dario Ferrari e il suo libro La ricreazione è finita. Cosa in verità? Nulla di che, ma al di là di certe intuizioni (ovviamente di Ferrari, non mie) freudiane, quel che mi ha spinto a parlare di Mari è stato soltanto il calore della sua arte di narratore. E la sua bellezza introspettiva.
Scrivevo anni fa sul Paradiso cartaceo a proposito di Tu, sanguinosa infanzia sempre di Michele Mari: Ognuno rivive l'infanzia secondo le proprie pulsioni. C'è chi la ricorda per esaltarne i momenti migliori. Chi per vantare il grado di maturità raggiunto. Chi per rimpiangerla. Non mi era mai capitato di leggere un autore che riducesse l'infanzia ad un malinconico patimento. Michele Mari, con un linguaggio a volte arcaicizzante, a volte desueto, sempre istintivamente alto, innesta un meccanismo di elementari ossessioni. Ma a sanguinare non è, come farebbe supporre il titolo, l'infanzia in quanto tale, ma chi di quegli anni conserva il furore del possesso, il dolore degli odori.
Con Verderame si raddoppiano le ossessioni e si gioca di nuovo col linguaggio. Sin dalla prima parola: dimidiata. Mari sa che sta baloccandosi e lo fa con sottile eleganza, con raffinata non chalance, per regalarci due pagine dopo un sustoltolo(pag.6), più avanti un disimplicandosi (pag. 42), ancora, uno spolviglio violetto (pag. 45), un colliquamento (pag. 137) e tra le righe un riassunto "ricercato" del titolo del libro: Il Verderame! Per anni fui convinto che quel nome meraviglioso fosse la somma meccanica del rame del sifone e del verde della vigna: invece lo stesso rame ci entrava per il colore che assume quando è ossidato o, come avrei scoperto da grande, quando è in forma di acetato.
Sfido chiunque a combinare con suprema duttilità la forma letteraria con quella meno "nobile", ma di più necessaria, della chimica.
Mari in questo libro, più ancora che in Tu, sanguinosa infanzia fa strame delle convenzioni sociali e delle coerenze: è mai possibile che un ragazzino che indaga sulle origine di una sorta di orco paesano, il Felice, che con gli anni perde la memoria, possa confrontarsi allo stesso modo e con la stessa "elementare" neutralità con il Novum Organum di Bacone ed una più giustificata lettura de Le navi di Pavlov che era stato uno degli Urania più appassionati degli ultimi tempi (pag. 37)?
Insomma nell'avventura sul filo dell'incredibile di questa sorta di odissea fanciullesca, lo scrittore milanese torna sul luogo del delitto: quello che appartiene ad una generazione immediatamente dopo il dopo-guerra, che s'alimentava di figurine panini (cita l'introvabile Tumburus, accidenti), delle sciocchezzuole canzonettistiche (ancora la rima, ricordati Dori Ghezzi, il ballo della steppa – pag. 76), di Krushev, papa Giovanni e Kennedy e delle pubblicità di Carosello (a sollecitare la contaminazione era la rima tra Merendero e Caballero e soprattutto l'analogia dei rispettivi apoftegmi ispano-veneti, «Miguel son mi» e «Bambina, quell'om son mi». (pag. 134).
Ma la risposta ad un romanzo leggero ed intenso (ben al di sopra di quella bruttura impastoiata di ricordi melensi dell'Eco de La misteriosa fiamma della regina Loana) sta quando il protagonista-scrittore di fronte al ricordo di un bambino che aveva trovato quindici cadaveri dice: Quindici uomini sul a cassa del morto, più Stevenson di così, sì, forse ero un bambino fortunato, forse era il premio per la mia ostinazione a rimanere bambino e non crescere mai, lo voglio adesso figuriamoci se non lo volevo allora che avevo tredici anni e mezzo...
Giocando con la tradizione del romanzo d'avventura, Michele Mari confessa il suo sogno proibito. Forse quello di tutti noi.
Il romanzo da noi considerato è:
Michele Mari
Verderame
Einaudi
Scrivevo anni fa sul Paradiso cartaceo a proposito di Tu, sanguinosa infanzia sempre di Michele Mari: Ognuno rivive l'infanzia secondo le proprie pulsioni. C'è chi la ricorda per esaltarne i momenti migliori. Chi per vantare il grado di maturità raggiunto. Chi per rimpiangerla. Non mi era mai capitato di leggere un autore che riducesse l'infanzia ad un malinconico patimento. Michele Mari, con un linguaggio a volte arcaicizzante, a volte desueto, sempre istintivamente alto, innesta un meccanismo di elementari ossessioni. Ma a sanguinare non è, come farebbe supporre il titolo, l'infanzia in quanto tale, ma chi di quegli anni conserva il furore del possesso, il dolore degli odori.
Con Verderame si raddoppiano le ossessioni e si gioca di nuovo col linguaggio. Sin dalla prima parola: dimidiata. Mari sa che sta baloccandosi e lo fa con sottile eleganza, con raffinata non chalance, per regalarci due pagine dopo un sustoltolo(pag.6), più avanti un disimplicandosi (pag. 42), ancora, uno spolviglio violetto (pag. 45), un colliquamento (pag. 137) e tra le righe un riassunto "ricercato" del titolo del libro: Il Verderame! Per anni fui convinto che quel nome meraviglioso fosse la somma meccanica del rame del sifone e del verde della vigna: invece lo stesso rame ci entrava per il colore che assume quando è ossidato o, come avrei scoperto da grande, quando è in forma di acetato.
Sfido chiunque a combinare con suprema duttilità la forma letteraria con quella meno "nobile", ma di più necessaria, della chimica.
Mari in questo libro, più ancora che in Tu, sanguinosa infanzia fa strame delle convenzioni sociali e delle coerenze: è mai possibile che un ragazzino che indaga sulle origine di una sorta di orco paesano, il Felice, che con gli anni perde la memoria, possa confrontarsi allo stesso modo e con la stessa "elementare" neutralità con il Novum Organum di Bacone ed una più giustificata lettura de Le navi di Pavlov che era stato uno degli Urania più appassionati degli ultimi tempi (pag. 37)?
Insomma nell'avventura sul filo dell'incredibile di questa sorta di odissea fanciullesca, lo scrittore milanese torna sul luogo del delitto: quello che appartiene ad una generazione immediatamente dopo il dopo-guerra, che s'alimentava di figurine panini (cita l'introvabile Tumburus, accidenti), delle sciocchezzuole canzonettistiche (ancora la rima, ricordati Dori Ghezzi, il ballo della steppa – pag. 76), di Krushev, papa Giovanni e Kennedy e delle pubblicità di Carosello (a sollecitare la contaminazione era la rima tra Merendero e Caballero e soprattutto l'analogia dei rispettivi apoftegmi ispano-veneti, «Miguel son mi» e «Bambina, quell'om son mi». (pag. 134).
Ma la risposta ad un romanzo leggero ed intenso (ben al di sopra di quella bruttura impastoiata di ricordi melensi dell'Eco de La misteriosa fiamma della regina Loana) sta quando il protagonista-scrittore di fronte al ricordo di un bambino che aveva trovato quindici cadaveri dice: Quindici uomini sul a cassa del morto, più Stevenson di così, sì, forse ero un bambino fortunato, forse era il premio per la mia ostinazione a rimanere bambino e non crescere mai, lo voglio adesso figuriamoci se non lo volevo allora che avevo tredici anni e mezzo...
Giocando con la tradizione del romanzo d'avventura, Michele Mari confessa il suo sogno proibito. Forse quello di tutti noi.
Il romanzo da noi considerato è:
Michele Mari
Verderame
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