RECENSIONI
Alessandra Lavagnino
Un inverno 1943-1944
Sellerio editore, Pag. 128 Euro 9,00
Scriveva Claudio Pavone ne Una guerra civile: Eventi grandi ed eccezionali rendono problematico quel che di solito appare ovvio e fanno nascere a un tempo la spinta alle scelte e ai giudizi netti e l'amore per le sfumature che sole permettono di comprendere gli altri quando insieme a noi oscillano. Chi nei suoi anni giovanili è stato avvolto da uno di questi grandi eventi stenta a trasmettere tutta la ricchezza alle nuove generazioni e se cerca di farlo con una ricerca storica, nella selezione delle fonti si insinua la silenziosa selezione compiuta in tanti anni dalla memoria. In questo senso la mia ricerca è stata anche di natura autobiografica.
Memoria, dunque, di grandi eventi a cui si è partecipato, ma abbiamo ormai imparato (c'è bisogno di ricordarlo per quanto sottinteso dalla ragione e dal buon giudizio) che la Storia è fatta, ahinoi, (e dico ahinoi perché troppo spesso sofferenza dei più deboli e indifesi) di piccoli accadimenti che assumono dignità con la ferocia della determinatezza.
Alessandra Lavagnino, con uno stile che ricorda i romanzi neorealisti e che è sempre, per fortuna, ad un passo dalla saggistica e dalla memorialistica , ci intrattiene con una vicenda esemplare e significativa: il riuscito tentativo da parte di alcuni impavidi e coraggiosi funzionari dello stato (ma quale stato se parliamo dell'inverno 1943-44?, ...Tra loro il padre della scrittrice, Emilio Lavagnino) di salvare le opere d'arte dell'Italia centrale.
In quell'inverno menzionato, decine e decine di camion (ma spesso semplici automobili prese in prestito) attraversano il nostro paese col solo obiettivo di ricoverare il nostro immaginifico patrimonio artistico nelle stanze più sicure del Vaticano e sottrarle al probabile saccheggio di una guerra ormai divenuta più sanguinaria.
Il libro è un andirivieni di consegne e di cuori (quelli delle persone che vogliono preservare la memoria) alleggeriti, ma anche una cagnara di sensazioni contrastanti: si vive (almeno io l'ho vissuto) l'inceppo di una Storia (con la maiuscola) che mostra in toto tutte le sue contraddizioni.
Il punto dunque della contesa (mia ora, credo, essenzialmente, ma forse di chi leggerà): la guerra è in corso, la gente fugge, si abbandonano anche i luoghi sacri, paesi interi desolati e tristi, gli alleati avanzano, i tedeschi indietreggiano. Ma cosa c'è di strano in tutto questo? Il ribaltamento della trama (perché noi a questo siamo abituati, ad assuefarci al percorso sicuro e tranquillo della memoria su un unico binario): alcuni gerarchi tedeschi sono in testa per la salvezza delle nostre opere (interesse lucroso o amore per l'arte?) inseguiti dalla forza opposta che pur di isolarli e sterminarli non guarda in faccia a nessuno (tanto per intingere il dito nel sangue: non fu distrutta l'Abbazia di Montecassino solo per scovare una pattuglia di nemici che si sapeva ormai fuori dalle mura?).
Per carità, non me ne voglia chi ha fede, giustamente, nella Liberazione. Sto parlando solo di incongruità della Storia, di stranezze, di episodi marginali che non intaccano le verità. Ma la Lavagnino, col suo sguardo per nulla pre-costituito ci lascia un accaduto magistrale: di eroi improvvisati al di là delle bandiere e delle violenze e del loro smisurato amore per il senso della vita e della sopravvivenza. Perché poi, l'autrice, con un tocco poetico inusuale, riagguanta all'improvviso la Storia come la conosciamo e disegna il profilo prima di un bambino pianista e poi, dopo la sua scomparsa (e capiamo perché) quella del suo sostituto, molto più grande, anche lui pianista, che immaginiamo scampato ai rastrellamenti degli ebrei.
Quasi un lampo, una luce improvvisa, forse più grande e accecante dei chiarori di questa vicenda unica e per certi versi commovente. Ci si potrebbe fare un film: darebbe pane ad una cinematografia italiana asfittica e persa tra ricordi e memorie di giorni o settimane. Un inverno 1943-44 parla di segni indelebili.
di Alfredo Ronci
Memoria, dunque, di grandi eventi a cui si è partecipato, ma abbiamo ormai imparato (c'è bisogno di ricordarlo per quanto sottinteso dalla ragione e dal buon giudizio) che la Storia è fatta, ahinoi, (e dico ahinoi perché troppo spesso sofferenza dei più deboli e indifesi) di piccoli accadimenti che assumono dignità con la ferocia della determinatezza.
Alessandra Lavagnino, con uno stile che ricorda i romanzi neorealisti e che è sempre, per fortuna, ad un passo dalla saggistica e dalla memorialistica , ci intrattiene con una vicenda esemplare e significativa: il riuscito tentativo da parte di alcuni impavidi e coraggiosi funzionari dello stato (ma quale stato se parliamo dell'inverno 1943-44?, ...Tra loro il padre della scrittrice, Emilio Lavagnino) di salvare le opere d'arte dell'Italia centrale.
In quell'inverno menzionato, decine e decine di camion (ma spesso semplici automobili prese in prestito) attraversano il nostro paese col solo obiettivo di ricoverare il nostro immaginifico patrimonio artistico nelle stanze più sicure del Vaticano e sottrarle al probabile saccheggio di una guerra ormai divenuta più sanguinaria.
Il libro è un andirivieni di consegne e di cuori (quelli delle persone che vogliono preservare la memoria) alleggeriti, ma anche una cagnara di sensazioni contrastanti: si vive (almeno io l'ho vissuto) l'inceppo di una Storia (con la maiuscola) che mostra in toto tutte le sue contraddizioni.
Il punto dunque della contesa (mia ora, credo, essenzialmente, ma forse di chi leggerà): la guerra è in corso, la gente fugge, si abbandonano anche i luoghi sacri, paesi interi desolati e tristi, gli alleati avanzano, i tedeschi indietreggiano. Ma cosa c'è di strano in tutto questo? Il ribaltamento della trama (perché noi a questo siamo abituati, ad assuefarci al percorso sicuro e tranquillo della memoria su un unico binario): alcuni gerarchi tedeschi sono in testa per la salvezza delle nostre opere (interesse lucroso o amore per l'arte?) inseguiti dalla forza opposta che pur di isolarli e sterminarli non guarda in faccia a nessuno (tanto per intingere il dito nel sangue: non fu distrutta l'Abbazia di Montecassino solo per scovare una pattuglia di nemici che si sapeva ormai fuori dalle mura?).
Per carità, non me ne voglia chi ha fede, giustamente, nella Liberazione. Sto parlando solo di incongruità della Storia, di stranezze, di episodi marginali che non intaccano le verità. Ma la Lavagnino, col suo sguardo per nulla pre-costituito ci lascia un accaduto magistrale: di eroi improvvisati al di là delle bandiere e delle violenze e del loro smisurato amore per il senso della vita e della sopravvivenza. Perché poi, l'autrice, con un tocco poetico inusuale, riagguanta all'improvviso la Storia come la conosciamo e disegna il profilo prima di un bambino pianista e poi, dopo la sua scomparsa (e capiamo perché) quella del suo sostituto, molto più grande, anche lui pianista, che immaginiamo scampato ai rastrellamenti degli ebrei.
Quasi un lampo, una luce improvvisa, forse più grande e accecante dei chiarori di questa vicenda unica e per certi versi commovente. Ci si potrebbe fare un film: darebbe pane ad una cinematografia italiana asfittica e persa tra ricordi e memorie di giorni o settimane. Un inverno 1943-44 parla di segni indelebili.
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