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Il Paradiso degli Orchi
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RACCONTI

Francesco Scardone

Un leggero sentore di pipì

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 Ad Antonio Moresco


Chi fosse passato di lì, ignaro, senza ombra di dubbio lo avrebbe scambiato per un groviglio di giornali appallottolati a caso chi sa da chi, chi sa quando, chi sa perché proprio in quel cantuccio sotto i portici.
Chi, invece, dotato di occhio più attento-l'amore per i particolari che solo un chirurgo, un gioielliere!-, si fosse messo a guardare con maggiore attenzione, si sarebbe perlomeno stupito di fronte alla scrupolosa meticolosità con la quale quel malloppo sembrava modellato, le linee così precise, come a voler disegnare...cosa?...forse una piccola collinetta che dolcemente digrada verso il mare?-i più scafati, c'è da scommetterci, ci avrebbero visto una qualche installazione di arte contemporanea, una di quelle diavolerie che-ormai capita sempre più spesso!-a volte ci si ritrova, così di punto in bianco!, piazzate a casaccio nei centri storici...e fanculo il decoro urbano!
Ma solo un occhio veramente impossibile da ingannare-accompagnato da un naso oltremodo coraggioso o almeno del tutto chiuso alla ricezione-avrebbe potuto sbrogliare quell'appallottolio e scovare la verità: perché-se si guardava veramente bene, senza paura di farsi più vicini-chiaramente si poteva distinguere, in quell'inferno di carta, un volto umano, degli occhi chiusi, un pugno serrato all'altezza delle narici.
Bebbo dormiva così, di solito sei sette ore per notte, sotto i portici dove un tempo c'erano stati negozi e portoni di uffici: ora solo saracinesche arrugginite.
Era stato lui stesso a provvedere al ricercato arredamento del suo giaciglio: un bel giorno-aveva trovato un rotolone di scotch nell'immondizia quando il ferramenta aveva traslocato di un paio di isolati-aveva cominciato a incollare pezzi di giornale alla pesante coperta nella quale si sigillava ogni notte, arsura o gelo che fosse. Ma non aveva appiccicato articoli a caso: prima li aveva vagliati con scrupolo, a uno a uno, leggendo ogni singola riga, scartando i fogli che non dovevano essere di suo gradimento, operando una severa selezione: aveva preferito gli articoli di fondo, possibilmente dai quotidiani: rigorosamente in bianco e nero; solo qualche copertina colorata de L'Espresso, di Panorama, aveva superato quel test così difficile-un occhio oltremodo attento, lo stesso di poco fa, avrebbe riconosciuto, tra i titoloni di imminenti catastrofi finanziarie e la notizia di ormai insperati arresti di serial-killer di provincia, una tetta della Marini; Valeria.
Quanto scotch aveva dovuto sprecare!, quanti giri di nastro a vuoto!, prima di riuscire a trovare il modo per non far scollare la carta da quella coperta così lanuginosa-la stessa che si ritrovava nell'ombelico ogni settimana, quando si imbarcava nel piccolo viaggio fino alla stazione dei treni, per lavarsi alla sgangherata fontanella vicino ai cessi pubblici.
Il nome Bebbo, quello con cui tutti si riferivano a lui e la pronuncia del quale gli faceva alzare lo sguardo anche se solo per un istante, non si sapeva bene da dove fosse uscito: se glielo avesse appioppato qualche carica cittadina, se qualche forestiero di passaggio; se, in una momentanea pausa da quel mutismo ostinato che da sempre lo aveva contraddistinto, da solo se lo fosse scelto per darsi una qualche aria di qualche tipo.
Fatto sta che lui era Bebbo e quell'occhio, sempre lo stesso di cui si diceva all'inizio, difficilmente, come si ipotizzava, sarebbe potuto essere ignaro: perché, in città, tutti conoscevano Bebbo!
Tutti lo conoscevano; eppure: non lo si vedeva in fila alle mense per i poveri; non portava, come loro, alle labbra, con quelle cucchiare di legno bruciato, la broda annacquata e la vitella farcita(di cavolo) che il Comune offriva, ogni Vigilia di Natale, ai più bisognosi in uno spiazzo, una volta industriale, sufficientemente lontano dal centro; la sua mano mai si era tesa per chiedere uno spicciolo alla folla di passaggio e a passeggio. Insomma: dove e come Bebbo mangiasse non era per niente chiaro, anche se, ad essere del tutto sinceri, non che la gente se lo chiedesse così spesso; quella mascella tornita e barbuta nessuno mai l'aveva vista in azione, se non per deglutire quel po' di acqua che gelosamente custodiva in una piccola bottiglietta di plastica da mezzo litro-sempre la stessa: Uliveto!
I primi tempi, quando di punto in bianco, all'improvviso, era arrivato in città-e, a memoria del cittadino più preparato a riguardo, non dovevano essere passati meno di diciotto venti anni-qualche vecchietta, di quelle di cui nessun paese può fare a meno, gli aveva lasciato lì, a distanza di sicurezza-forse a causa di un virus che aveva dovuto chimicamente castrare tutti i gatti in età da monta, forse in un periodo durante il quale la derattizzazione doveva aver fatto qualche vittima non preventivata-un pezzetto di frittata di maccheroni, una-pasta-mista-fagioli-e-cozze. Ma Bebbo, quel cibo con così tanto amore riposto, non lo aveva neppure toccato. Le vecchiette, non potendo fare a meno di notare l'ineducazione del nuovo ospite, soprattutto se confrontata alla grande gentilezza di chi prima di lui aveva beneficiato della loro bontà(quelle scodelle non erano state mai meno che vuote, per Dio e la sua bontà!, leccate e sbavate in ogni angolo!), un po' si erano pure incazzate, eh: che poi, comunque, le cose erano lo stesso andate per il meglio, che i mici, non si sa come, ma alla fine erano tornati, in frotta, e pure più affamati di prima!
Come dicevo, nessuno bene sapeva dove, cosa, o come Bebbo mangiasse, ma in molti avevano coscienza-e per esperienza diretta!-di come provvedesse alla propria cura personale.
Il grosso lo faceva alla fontanella della stazione: a torso nudo, si portava l'acqua al viso e sul corpo, andava alla ricerca con il dito della lanugine di cui sopra e, con lo stesso dito, cercava altre secrezioni-nell'ordine-nel naso, nell'orecchio, nell'altro orecchio, nel boschetto bianco sotto il quale dovevano, per forza di cose, nascondersi le ascelle.
L'acqua scrosciava tutto intorno, nera, lurida, di quel tipo che non permette di specchiarcisi attraverso.
L'igiene delle parti intime, però, lo destinava ad altri luoghi; e a nessuno sguardo: riempiva la sua Uliveto da mezzo litro e passeggiava fino allo svincolo dei binari, fino ad arrivare a quello morto che era usato solo, di tanto in tanto, per motivi di manutenzione. Lì, in mezzo all'erba alta e urticante, con i pantaloni tirati giù e le gambe che a volte gli sanguinavano quando qualche spina trovava il modo di farsi spazio nella sua carne, sciacquava il vecchio pisello rattrappito, le dolci palle mosce e vuote. Di solito, per quest'operazione, non bastavano mai meno di due litri d'acqua e Bebbo, dopo essersi ogni volta tirato su i pantaloni, con tutta la pazienza del mondo faceva il tragitto fino alla fontanella e ritorno, tutte le volte che occorrevano.
Era solo, del tutto solo: non si scaldava, come gli altri senza tetto, le mani sotto le lingue sibilanti di un fuoco di fortuna acceso in un bidone; non cercava avanzi, sulle soglie delle porte di servizio, dagli sguatteri dei ristoranti cinesi che portavano fuori l'immondizia; non parlava da solo commentando il meteo, il telegiornale o un ricordo dal quale non si può fuggire, come i suoi colleghi sotto i tunnel della metro: nemmeno dalla propria voce era accompagnato.
Insomma: era solamente solo, solo era l'unica cosa che era; muto e solo.
Anche quel che riguardava il capitolo “averi personali”, era di immediata e semplice comprensione: non possedeva nulla, niente se non quella coperta incartocciata e quella mezzo-litro di Uliveto. Almeno questo sarebbe parso a chi, giorno per giorno, lo avesse visto condurre la sua semplice vita, fatta di poche azioni; e sempre uguali. Ma, per quanto attento, nessun occhio avrebbe potuto indovinare la segreta reliquia custodita, durante il sonno, nel calore di quella grossa mano: la destra-la stessa che, serrata a pugno, lungo tutta la notte, mai abbandonava il viso, e, in particolare, il ritmico risucchio delle narici.
Questo è un segreto, il più segreto di tutti, e con non poca ritrosia ve lo affido: in quel pugno chiuso, chiuso fino a non far scorrere più il sangue, un fazzoletto di tela era nascosto, ruvido al tatto, dai larghi quadratoni bianchi e rossi, vecchio e un poco sbrindellato agli angoli. Ogni sera, prima di addormentarsi, Bebbo lo cercava nel buio delle mutande straziate; poi nel pugno lo chiudeva, invisibile ad occhio altrui, protetto in quella mano pesante e gualcita, piena di tutte quelle piccole ferite che il freddo così tanto generosamente distribuisce a chi non può da esso ripararsi.
E il fazzoletto lì restava, tutta la notte, con gli stessi quadratoni bianchi e rossi, che bianchi e rossi rimanevano anche nel cavo della mano, anche se nessuno poteva vederli.
Solo quando il fazzolettone arrivava lì-a pochi centimetri dalle narici occluse dal freddo, dal caldo, dal raffreddore o dal semplice moccio-Bebbo lasciava che gli occhi si chiudessero, che la persona tutta si stemperasse nel dolce richiamo di un sogno caldo.
Spesso, quel sogno, era percorso da tremori improvvisi, da brividi nervosi: sbalzi inaspettati che facevano franare tutta la montagnola di lana e inchiostro, e tracimare le lettere l'una dentro l'altra, di modo che non si sarebbe nemmeno più potuto leggere. Un sogno angoscioso, terribile, si sarebbe detto dall'esterno, ma, se solo si fosse potuta guardare la bocca celata dietro il pugno, un tenue sorriso, sereno, avrebbe meravigliato il più scrupoloso spettatore.
Una volta sveglio, ancora prima di sollevare le palpebre, Bebbo, o meglio la sua mano, andava fino ai pantaloni, ne allargava la molla allentata, e nelle mutande bucate lasciava ricadere il fazzoletto-e lì, c'era da giurarci!, nessuno mai lo avrebbe cercato!
Ma quel sogno che si sarebbe detto smarrito, anche se ora Bebbo era sveglio, non subito lo abbandonava: in tanti i sogni bisogna cercarli nell'occhio ancora umido, semmai sulla punta di una lingua mezzo indolenzita, ma Bebbo no: Bebbo i sogni, quei frammenti cristallizzati di luminosa opalescenza, se li portava nel naso, sì, tutti lì, ficcati nelle narici martoriate, tra i peli irsuti e spettinati, tra una crosticina appena rimarginata, di quelle che ti vengono per il gelo, e una caccola del tutto marmorizzata.
E c'era una bimba in quel sogno-lì, tutta nel suo naso!-, quattro anni forse cinque e correva a piedi nudi, in un prato: il vestitino rosa a palloncino, merletti bianchi sull'orlo della gonna.
Come correva quella bimbetta scalza e come rideva, Dio, quanto rideva!
Il bambino che Bebbo era stato, o una figurazione onirica tridimensionale col suo stesso mento tagliato, la seguiva a pochi passi, senza correre però, una coppoletta grigia-non proprio adatta alla sua età, chissà da quale cranio adulto sgraffignata-calata sulle ventitré: qualche anno in più della bimbetta, senza dubbio!, ma non più di un paio. Il prato era tagliato di fresco e solleticava sotto i piedi, una sensazione così intensa che friccicava pure alla gola. Il sole era tondo nel cielo, poche le nuvole: una medaglia scalfita. La giornata era bella, ma doveva essere non molto che aveva smesso di piovere: grosse gocce d''acqua scoppiavano sotto le palme dei piedi, si incastravano tra i fili d'erba quando quel po' di venticello cercava di sottrarle all'ingenuo scalpicciamento.
Chissà da dove veniva quella bimba, chissà da dove era sbucata?, chissà perché Bebbo, scalzo anche lui, la seguiva.
Chissà perché la pioggia suicida non si lasciava salvare da quel venticello generoso.
Bebbo riusciva a tenere dietro alla bimbetta anche senza correre: lei inciampava spesso ma mai fino a cadere, si girava solo per un momento e gli diceva qualcosa, che il vento, però, portava altrove.
Quando il fiato aveva cominciato a mancarle, si era messa a giocare a girotondo intorno ad un pioppo; una pecorella passava poco distante e lei l'aveva salutata, poi aveva sollevato una mela già mezza smangiucchiata che continuava a rotolare per il prato. Bebbo si era fermato poco distante, si era messo a guardarla con le braccia conserte, lo sguardo forzatamente serio, come di chi vuole costringersi a fare il grande. La bimba continuava a danzare intorno al tronco; con l'indice e il pollice prendeva la misura della mandibola impressa sulla mela. Ad un certo punto, però, dopo un saltello scoordinato che l'aveva portata a pochi passi da Bebbo, si era fermata irrigidendo i muscoli delle gambe: la mela era caduta, lei si era messa un dito in bocca: “Mi scappa la pipì!”, aveva detto.
Bebbo cercava brandelli di sogno, ogni volta, ad ogni risveglio, mentre le mani intirizzite riportavano l'improbabile tesoro nelle mutande-caveau, ma il freddo o il caldo o il vocio dei passanti o l'affanno di un cane tenuto al guinzaglio lo riportavano alla pressante realtà, pressante sì ma di sicuro più incorporea del sogno appena sfuggito.
Così cominciava le sue giornate quel muto barbone che si vedeva qualche volta, il venerdì notte, poco dopo l'orario di chiusura dei bar, cercare nelle feritoie dei sampietrini tappi di birre analcoliche, sugheri di spumanti stappati per festeggiare occasioni importanti. Rovistava con minuzia in ogni più buio anfratto, in ogni più recondito angolo: la vista gli si indeboliva sempre più, sotto lo sforzo improprio degli occhi chiusi a taglio per vedere meglio. Qualche ragazzo ubriaco, di ritorno da una nottata di bagordi, ancora mezzo barcollante per le strade, vedeva la sua figura china sull'asfalto, alla mezza luce di un lampione, le mani che mulinavano scartando l'immondizia più varia: al festaiolo impenitente il barbone doveva proprio sembrare un fantasmello vagante, ma uno di quelli simpatici eh, magari uscito fuori dalla penna di un Dickens.
Ma quei tappi così caparbiamente individuati, dei più vari materiali e colori, Bebbo non li teneva per sé, non li serbava per una folle collezione-come quel suo vicino di qualche anno prima, ormai morto, che si ostinava a conservare cadaveri di ratti spiaccicati, un mese, e cartine di caramelle alla frutta, il mese dopo.
Bebbo quei tappi, la mattina seguente, non appena il sole sorgeva-per l'occasione rinunciava al riposo notturno e, come ogni buon discotecaro, andava a dormire alle prime ore del giorno-li portava al mare. Arrancando nella sabbia arrivava fino a riva e li sì sedeva, sulla sabbia bagnata, in mezzo alle schifezze e alle alghe e alle poche conchiglie che la risacca aveva portato. Una volta messosi comodo, si vuotava le tasche e quei tappetti tutti diversi si riversavano sulla rena umida, le loro orme zigrinate resistevano all'aria fino alla prossima onda. Ma Bebbo non era interessato alla forma dei tappi o alle loro impronte, tantomeno all'arcobaleno di colori che formavano una volta riuniti tutti assieme: Bebbo, a quei tappi, a tutti loro, riservava la carezza dell'acqua. Dolcemente, li metteva a mollo e restava a guardarli: quanto lo stupore!, quanta la meraviglia!, ogni qual volta quei pezzi di metallo di legno di alluminio rimanevano a galla!; quanto lo sbigottimento!, quando un tappo di Peroni che prima galleggiava, una volta voltato, andava a fondo!
Bebbo li regalava all'acqua a uno a uno, nessuno ne conservava per sé. Restava a guardare quella colonna di turaccioli smangiucchiati-almeno quelli che resistevano all'annegamento-allontanarsi lentamente, riemergere talvolta da una schiuma sorniona, riverberare sotto le prime luci del giorno-e anche lui, così possiamo dire, aveva il suo venerdì sera, anche se era già sabato mattina.
La gente, di solito, non lo trattava male, i più si limitavano a evitarlo; dopo l'inapprezzata misericordia delle vecchiette gattare, non molti erano stati i gesti caritatevoli che la comunità gli aveva elargito, ma, a dire il vero, non avrebbe poi fatto tanta differenza, visto che, qualunque pietà, qualunque compassione, in quel cervello butterato dal freddo e dalla fame, niente avrebbe potuto scatenare di più se non un rapido sbattimento di palpebre.
A volte, qualche moccioso, così moccioso da tenere ancora la mano alla mamma, gli gridava di lavarsi, che era ora!-subito le mamme zittivano gli irrequieti pargoletti con uno schiaffetto, nascondendo un rapido sorriso sotto un imbarazzato colpo di tosse.
Altre volte, signori di passaggio, ventiquattrore alla mano, appena staccata una concitata chiamata al telefonino, senza dubbio di lavoro, gli si paravano di fronte e, con un'aria tra il faceto e il disperato, gli dedicavano qualche parola: “beato te, va'...che darei per poterti fare compagnia!”, gli dicevano, e poi rispondevano al cellulare che aveva già ricominciato a squillare.
Insomma, non molte erano le interazioni che da lui si richiedevano, che a lui si indirizzavano: di questo Bebbo non provava una certa felicità, ancor meno una certa tristezza.
Però, anche se la sua coscienza era sicuramente incapace di elaborare concetti che differenziassero il bene dal male, questo suo limite cognitivo non riusciva comunque a dissuaderli dall'essere crudeli, perché a volte, crudeli, lo erano stati davvero.
Come quella volta: era di gennaio e aveva da poco smesso di nevicare.
L'avevano strappato al sogno con dolore, e Bebbo si era dovuto svegliare, anche se a fatica: ma c'era qualcosa che gli zampillava in faccia, tipo l'acqua della fontanella quando andava ai cessi della stazione-ma di quella non si poteva trattare, visto che c'era già stato appena stamattina; alla stazione.
La cosa gli zampillava sul naso, e sulla bocca, e la sentiva infradiciargli i capelli. Allora, piano piano, aveva aperto gli occhi. Ancora prima che li avesse aperti del tutto, però, la mano serrata era corsa ai pantaloni, nelle mutande aveva riposto il fazzoletto: anche questa volta il tesoro era al sicuro!
Quattro piselli intirizziti di altrettanti ragazzini tutti infagottati nelle loro sciarpe riuscivano a malapena a trovare la fessura della zip per mirare sulla sua faccia. Nuvolette di fumo si condensavano appena fuori le loro bocche, mentre, ridacchiando, gli dicevano qualcosa sul gelo di quei freddi giorni, sul bisogno di difendersi con liquidi caldi.
I pisellini pisciavano a fatica pipì zigzaganti, lunghe pause si frapponevano fra uno schizzo e l'altro.
Bebbo era restato a guardarli-c'era qualcosa...qualcosa...una specie di coesione tra quel liquido caldo che gli sgocciolava sul viso e il morso di sogno dal quale, con strazio, si era dovuto evirare...qualcosa di...simile...ma quel senso di contatto, tra quello che aveva vissuto come un sogno e quella che viveva come realtà, rendeva ancora più straziante la stonatura in atto.
Alla fine i ragazzini avevano svuotato i pisellini e se ne erano andati ridendo.
E lì, ancora steso sotto la coperta incartocciata, con il fazzoletto al sicuro nelle mutande-forziere, Bebbo, il cervello di lui, aveva sagomato un pensiero affilato, generato con dolore un flusso razionale: “Quella era puzza di piscio...questo, invece, è un leggero sentore di pipì”, così il pensiero si era pensato.
Ci aveva messo un po' di tempo, quella notte, prima di riprendere sonno, nonostante il fazzoletto fosse tornato al suo posto: sotto le sensibili narici, al caldo del pugno.
Ma alla fine si era riaddormentato e anche il sogno era tornato. Ed era sempre lo stesso, sempre quello, perché il sogno è sempre e solo uno: è la realtà a differenziarsi e moltiplicarsi.
E la bimba stava ancora lì. “Mi scappa la pipì”, aveva appena finito di dire. E Bebbo l'aveva guardata sorpreso, con tanto di occhi, che lui, a riguardo, non aveva proprio idee.
Ma la bimbetta non doveva essere tipo da patemi e, in pochi istanti, aveva trovato la soluzione.
“La faccio qui!”, aveva detto: si era accovacciata dietro al pioppo.
Prima di alzare la gonna, però, un'altra preoccupazione le aveva sollevato la fronte: si era rimessa in piedi guardandosi attorno.
“Ci vengono le pecorelle, qui, la mattina”, aveva detto-con la mano aveva significato quello sterminato prato verde tutto imperlato di rugiada. “Povere pecorelle...ci vengono a mangiare: che schifo! Non si può così!”, aveva sentenziato-questa volta la mano aveva indicato all'altezza dell'inguine.
E allora anche a Bebbo era venuta un'idea: aveva abbandonato la sua posa da grande, braccia conserte e sguardo serio, e finalmente-da quanto lo desiderava!-aveva sorriso alla bimba; col dito le aveva fatto segno di aspettare. Poi si era messo a rovistare nelle tasche.
La ricerca non era stata lunga: dalla tasca destra del pantalone, un fazzolettone rosso e bianco era emerso: Bebbo lo aveva allungato alla bimba. “Eh?”, aveva fatto lei, un po' stranita.
Allora lui lo aveva allargato per tutta la sua ampiezza, accuratamente stirato con le piccole mani e poi lo aveva adagiato sul quadratino di erba dove poco prima la bimba si era accovacciata.
“Ah!”, aveva fatto lei, ed era tornata alla precedente posizione. Senza pensarci più di due volte, si era tirata su la gonna e aveva portato l'orlo alla bocca: nel morso aveva stretto il merletto: così, per tenerlo su!
La bimba le mutandine non le portava e, quindi, non c'era stato bisogno di abbassarle: Bebbo, così,  aveva visto, per la prima volta, quella cosa che così tenacemente le femmine cercavano di tenere nascosta-quelle altre cose lì, poco più sopra, le aveva già viste spesso: che la mamma aveva allattato il fratellino più piccolo.
Era come una piccola soffice pagnottella incisa al centro(con la sola differenza che quella, di solito, di tagli ne aveva due, mentre questa, a quanto pareva, solo uno), una di quelle che il padre lo mandava a prendere la mattina dal fornaio e che, poi, dopo, per la strada, attraverso il sottile strato di carta, bruciava sulle dita.
Il nome preciso di quella cosa lì non è che lo avesse proprio capito bene, eh: quelle poche sillabe che era riuscito a carpire suonavano più come una formula magica, una specie di incantesimo-simsalabim!, biddibiboddibibu!, come diceva quel mago che, qualche volta, in paese, si metteva col suo banchettino per tirar su qualche spicciolo.
Eppure, beh, se l'era immaginata diversa! Tutto questo casino per una rosetta!, aveva pensato; e aveva sorriso.
Ma la bimba, nel frattempo, continuava a restare accucciata senza alcun successo.
“Forse è perché mi guardi”, gli aveva detto allora, e lui si era coperto la faccia con entrambe le mani-in principio non vedeva sul serio, ma, poi, la curiosità era stata più forte e un piccolo interstizio, in mezzo alle dita, alla fine, si era aperto.
Finalmente la pipì era uscita, dolce dolce, ma poca poca, tutta perfettamente centrata sul grosso fazzolettone.
La bimba si era spremuta ancora, ma altro non era cascato: allora si era tirata su e rimessa a posto.
“Sarà che ne avevo poca”, aveva spiegato. Poi aveva raccolto il fazzoletto, avvicinato i lembi un paio di volte fino a formare un piccolo quadrato. Si era avvicinata a Bebbo e glielo aveva restituito: “Tieni”, gli aveva detto, “poca, ma mi scappava!...grazie!”, poi si era messa di nuovo a correre, e a ridere, e a fare a nascondino con la propria ombra.
Bebbo era rimasto per un po' imbambolato, quel fazzoletto umido nel palmo. La bimba correva, si allontanava, e gli gridava ancora qualcosa, chissà cosa. Allora Bebbo aveva avvicinato il fazzoletto al naso, aveva tirato su con le narici, con tutte le forze-un risucchio così intenso che gli era servita la rincorsa!-e, appallottolato il fazzoletto nella tasca, aveva cominciato a correre anche lui, e a ridere e a fare a nascondino con la propria ombra.
Il sogno arrivato qui, di solito, non è che finiva: ricominciava dall'inizio, ma poi non è che proprio ricominciasse dall'inizio perché, appunto, non aveva avuto nemmeno il tempo di finire, figuriamoci quello per iniziare di nuovo.
E Bebbo se ne stava lì, steso al gelo o all'arsura che fosse, incartocciato nella sua coperta, ai piedi la fedele Uliveto da mezzo litro, sempre un po' piena perché non se ne volasse col vento; se ne stava lì con il suo pugno stretto stretto, all'altezza delle narici, in modo che potesse sorbire, anche attraverso la pelle martoriata e straziata, quell'odore salvifico che non aveva mai smesso di uscire da quel pezzo di tela, da tutto quel tempo, attraverso tutto il tempo del mondo.
E il suo cervello componeva una piccola frase, un breve accoccolio di sillabe che lo faceva tremare dalla gioia; e sorridere.
“Un leggero sentore di pipì”, si diceva.






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