RECENSIONI
Carla Cerati
Un matrimonio perfetto, La condizione sentimentale, Il sogno della bambina
Marsilio, Molte da 7,00 a 9,00
E giocàmose 'sta tripla - essendo trilogia (pure in cofanetto): Una donna del nostro tempo. Ma perché la Cerati? Beh, è un'Autrice prolifica: è stata finalista in molti premi importanti, qualcuno l'ha vinto. E' una donna, quindi presumibilmente di genere femminile, e mai epoca come la presente e (appena) viva è stata ossessionata da ogni declinazione di genere e degenere. E' persona attiva, la sua professione è tutt'affatto che l'imbrattacarte, e sin dai tempi della collanina "Mouse to mouse" della buonanima Tondelli l'interesse per i letterati "sanza lettere" è solida e riciccia.
Ma non è la sola, si dirà, ad avere tali caratteristiche. In fin dei conti, l'Italia è terra di poeti, poetesse e poetessi (e cantantesse), e una coppa, una volpe, una finocchiona, una grolla, una targa, una bustapaga, un astragalo, un dàvide e un darìde, un mezzobusto, un servizio di dodici tazze istoriato da scene di caccia non si nega a nessun "scrittoio". Inoltre, gravitano attorno al mestiere di scrivere impertinenti e non pertinenti (F. Mauri) a iosa. Dunque: perché la Cerati?
Perché parecchio tempo fa vidi una foto scattata da lei (tale è il suo mestiere), protagonista una ragazzina - forse una nipote. Nell'immagine (primi anni Settanta) un ciondolo le pendeva dal collo, risaltando sulla veste corta, chiara, di lei in bianco e nero. La giovanissima occupava una sedia da bar, un piede nudo sul bordo metallico della seggiola, il relativo ginocchio in opportuna inelastica articolazione, l'altra gamba stesa e in basso fuori dall'inquadratura, le mani e le braccia in un falso movimento, tutto sommato un'aria di candida e svogliata malizia - e mi sono detto: ecco Alice.
Armato di questa convinzione tutta da verificare, trovandomi a tu per tu con una scrittura femminile e volendone discutere, e incaponìto nel cercare, data l'eventualità, il rapporto che si crea - se si crea - tra il bianco e nero dell'immagine fotografica e il bianco e nero dell'immagine che le parole realizzano sulla pagina, fra i tratti della fisionomia e quelli dello stile ovvero dell'uomo (della donna, cioè), e l'abilità e la pertinenza a ritrarli e ad abbinarli, come un vero Giamburrasca mi sono gettato nella lettura. Concludendone?
Pigliamo il primo volume dei tre, pubblicato nel '75, rinnovato nel '90, riedito oggi. Cesare De Michelis, postfacendo, nota la proprietà del titolo (pure ambiguo): "un matrimonio compiuto, finito, ma anche interamente vissuto e consumato e pertanto (...) esemplare". (pp. 353-4) Esemplare, certo, d'una condizione d'un'epoca da ricordare e non imitare: Silvia, protagonista e voce narrante, vive reclusa non tanto in spazi sociali o intellettuali (siamo in ambiti medioborghesi), quanto culturali: il peso che affligge lei è quello delle malmaritate indissolubilmente, delle donne (anche giovanissime: lei va all'altare diciassettenne, nel '48 se non sbaglio) o spose e madri o prede e mignotte - si veda il saggio di Anna Tonelli da poco recensito in questo Paradiso. Difatti il matrimonio si trasforma da subito nella routine famigliare, incoronata da due figli e incornata da una serie di proto- o pseudo-amanti (tra cui uno Yul - contento Bevilacqua - desiderato e non avuto) che alla fine non sono che copie scialbe o tracotanti del marito Fabrizio presuntuoso e amorfo. La Cerati è bravissima a far sentire la meccanicità del susseguirsi delle avventurette e del ripiombare della malaccozzata di cui parla nell'anonima condizione di serva padrona, raddoppiata dal farsi ogni esperienza, immediatamente, memoria (la quale, nel suo congegno, altro non è che ripetizione, ("linguaggio encratico": Barthes)). Più che circuìta, la donna vive come cortocircuitàta, in un "già visto" di cui c'è la dinamica ma non l'esplicitarsi: "ecco il mio destino: buttarmi sulle cose e restarne prigioniera. Avrei dovuto dimenticare. Ma questa memoria implacabile di giorno in giorno riteneva e filtrava veleni senza concedere né attenuanti né soste". (p. 287) Memoria croce e delizia, siccome il ricordo è connesso alle attività fondative dell'Autrice, e così la parola: per la figlia, Silvia ha "il tempo di fare qualche ritratto in un quaderno dove annotavo ogni cosa che la riguardava". (p. 105) Parole e figure fermano il tempo, come altra faccia dell'attività mnestica deleteria, iterazione dell'iterazione su cui s'è inceppata la vita - e si potrebbe dire che la Cerati abbia scelto immagine e narrazione per riscattarle dalle loro intrinseche possibilità schiavili.
Tale falso bordone scava in Silvia "vuoti monumenti di vuoto", fino alla risoluzione finale dell'accordo matrimoniesco: e il suo modo di scrivere ha sì del femminile, ma in quella misura di serietà che le donne riescono a dare quando parlano delle cose vere, solide - che risultano dunque più autentiche di quando ne narrano i maschi, sempre tesi a rivestirle d'ideologia o di scuse. Qui poi accade - e in questo forse gioca l'attitudine alla fotografia, o suggerire una reificazione - che persino i concetti e le emotività vengano espresse o riportate al concreto d'una materia quotidiana: "la realtà contenuta nelle parole". (p.129) Infatti: "tentai di afferrarli (i sassi, nota mia) con le mani: mi apparve l'immagine di Fabrizio bambino"; (p. 84) "se pure non accadrà che un giorno i pensieri diventino strisce colorate"; (p. 179) "nell'ordine degli oggetti consueti cercavo di ristabilire l'ordine dentro di me". (p. 248) Addirittura è forte l'identificazione oggetto-idea, che troviamo "il suo zigomo scarno scivolò contro il mio: pensai che non mi amava". (p. 89) Ciò che non si vede ha da avere un correlativo oggettivo, attuale, per esistere - e viceversa, esiste il fenomeno, il resto si presume: le scintille testimoniano dello sfregamento d'una pietra focaia.
Fin qui, il primo e più corposo volume. Il secondo (uscito nel '77, riproposto nell'80 e ora) è lo smilzo della trìlloge, rarefacendosi tale rapporto: appena a p. 114 incontriamo "le sue frasi, a volte, mi davano la sensazione di un graffio su una lastra di cristallo". Inoltre, l'ambiente si sofistica: non più l'odore di lavabo ingombro di piatti dell'origine della serie, bensì una sessualità da farfallona amorosa più che da inibita e titubante adultera (anche se c'è un matrimonio di mezzo), e un cosmopolitismo intellettuale e sessantottesco che va dagli incontri con Soldati, Nono, Bene, Zavattini, Mirò, Marquez, Gaber (dal quale però - nell'ansia identitaria - l'Autrice non impara che "se un giorno noi cercassimo chi siamo veramente ho il sospetto che non troveremmo niente", cfr. il comportamento)(*)), alle seratine al Santa Tecla o passate ascoltando Brassens, ai viaggi a Barcellona o a New York o a Pesaro - ma per il festival del cinema sperimentale -, e al figlio dell'innominata protagonista (Martino) legato agli anarchici (e siamo nel '68-'69!, vedi p. 100), pestato dai sanbabilini (cfr. p. 105, e pp. 101-2), in odore di clandestinità. Libretto che a domanda risponde: ma se gli uomini sono dei mascalzoni, perché frequentarli? Scorri pag. 47: "Spogliandosi degli abiti, (...) si spogliava della violenza, del sadismo (....). Era Adamo nel paradiso terrestre, non ancora contaminato, non ancora impotente: eccitato dal mio corpo nudo contro il suo corpo nudo (....). Non capivo e non riuscivo a darmene pace, che un contatto così vero, così reale, potesse sbriciolarsi non appena ognuno di noi riprendeva a muoversi in maniera indipendente. Risorgeva in lui l'arroganza, il pregiudizio, il bisogno di dominare". Ed ecco Alice: oltre lo specchio del ripagare gli uomini "d'uguale moneta, usare il cinismo esattamente come facevano loro", (p. 49) ovvero risolversi, da donna, ad accettare metri di comportamento maschili e machisti, rispecchiandoli e dunque impossessandosene (come farà poi la "woman in careeer" Eighties-armed, Milano-da-bere), c'è la speranza d'un rapporto vivo, vero, umano senza attributi qualsivoglia. Un rapporto primordiale che perfori le concrezioni accumulatesi nei millenni di patriarcato - il giogo che non solo le donne sentono oppressore, visto che di lì a poco marcherà un segno Padre padrone (libro e film). Un rapporto che assimila madre e figlio, ma non nella sottomissione, bensì nella coscienza di essa.
E siamo all'ultimo volume della triade, che si fregia d'un doppio titolo: Il sogno della bambina - Uno e l'altro, (1983) ma che avrebbe dovuto battezzarsi "Terza persona", confida la Cerati in una iniziale missiva al Lettore (le lettere peraltro giocano in ognuno dei testi rassegnati un ruolo poderoso, che surroga l'introspezione mancante nei primi due e l'affianca nel terzo). Difatti, dopo la tesi e l'antitesi, viene la sintesi: nel "Matrimonio" la donna-oggetto, ne "La condizione" l'intellettuale "liberata", qui la moglie "moderna" in odore di separazione (si chiama Eleonora, detta Nora - e come se no?): della quale subito ci viene detto quel che è implicito negli scritti precedenti, ovvero che vive in una (ir)realtà della quale non (ri)conosce le regole, e dunque è "sempre in contrasto con la norma" (p. 28) - e ancora si ricordi la sognante bambina Alice, e i suoi tentativi razionali di adeguarsi ad un mondo irrazionale e dunque inumano. Un mondo, come insegna la Regina di Cuori, dove bisogna correre spasmodicamente per poter rimanere fermi. Che è pure la statica dinamica d'ogni personaggio di questi libri, bloccati come un fermo immagine in quella "perfezione" che viene illustrata nel "Matrimonio" prototipo.
Reso evidente quel che meritava su trame, atmosfere e motivi, resterebbe da dare un giudizio complessivo su un'opera tanto omogenea nei temi e nello stile (e nelle lunghezze e verbosità) da proporsi come un cielo di stelle fisse, su cui la cometa-protagonista vaga in un'orbita immutabile, anche se tenderebbe a farsene perturbare: ma anche questi epicicli sono prevedibili e omogenei, con il che viene l'idea - fuori dall'immagine astronomica - che ciò che veramente manca alla protagonista non sia solo la libertà sociale di muoversi secondo il proprio sentimento, ma il primitivo e profondo volerlo fare. E se è vero che essa mancanza si adombra - "la libertà (...) bisogna saperla conquistare dal di dentro" (Il sogno, p. 82) - nei testi è proprio questo l'aspetto più irrisolto: vediamo le donne di queste narrazioni soffocare sotto il dominio maschile e delle parole maschili che certo ha distrutto quell'autonomia, e le vediamo agitarsi per disfarsene. Ma, come assistendo da dietro un vetro alle movenze di qualcuno senza capire se scherza o sta tramortendosi in un eccesso convulsivo, dolore e sofferenza (e le loro parole) non le sentiamo. E' vero che ciò avviene anche perché situazioni di questo genere oggi sono meno acute, tuttavia i testi della Cerati s'inceppano proprio sulla rappresentazione del patimento che è l'"ubi consistam" e la ragione sufficiente del suo narrare, e che diviene spesso didascalia. Limite non invalicabile, comunque, per chi intenda leggere i testi come referto d'un costume di chiusura intellettuale e ricatto emotivo che non solo non è venuto meno, ma che, co' suoi chiavistelli ancora sostanzialmente inviolati, riguarda in un modo o nell'altro chiunque sia uomo (essere umano, cioè) e non caporale.
(*) in G. Gaber, La libertà non è star sopra un albero, Einaudi, Torino 2002, pp. 224-5.
di Marco Lanzòl
Ma non è la sola, si dirà, ad avere tali caratteristiche. In fin dei conti, l'Italia è terra di poeti, poetesse e poetessi (e cantantesse), e una coppa, una volpe, una finocchiona, una grolla, una targa, una bustapaga, un astragalo, un dàvide e un darìde, un mezzobusto, un servizio di dodici tazze istoriato da scene di caccia non si nega a nessun "scrittoio". Inoltre, gravitano attorno al mestiere di scrivere impertinenti e non pertinenti (F. Mauri) a iosa. Dunque: perché la Cerati?
Perché parecchio tempo fa vidi una foto scattata da lei (tale è il suo mestiere), protagonista una ragazzina - forse una nipote. Nell'immagine (primi anni Settanta) un ciondolo le pendeva dal collo, risaltando sulla veste corta, chiara, di lei in bianco e nero. La giovanissima occupava una sedia da bar, un piede nudo sul bordo metallico della seggiola, il relativo ginocchio in opportuna inelastica articolazione, l'altra gamba stesa e in basso fuori dall'inquadratura, le mani e le braccia in un falso movimento, tutto sommato un'aria di candida e svogliata malizia - e mi sono detto: ecco Alice.
Armato di questa convinzione tutta da verificare, trovandomi a tu per tu con una scrittura femminile e volendone discutere, e incaponìto nel cercare, data l'eventualità, il rapporto che si crea - se si crea - tra il bianco e nero dell'immagine fotografica e il bianco e nero dell'immagine che le parole realizzano sulla pagina, fra i tratti della fisionomia e quelli dello stile ovvero dell'uomo (della donna, cioè), e l'abilità e la pertinenza a ritrarli e ad abbinarli, come un vero Giamburrasca mi sono gettato nella lettura. Concludendone?
Pigliamo il primo volume dei tre, pubblicato nel '75, rinnovato nel '90, riedito oggi. Cesare De Michelis, postfacendo, nota la proprietà del titolo (pure ambiguo): "un matrimonio compiuto, finito, ma anche interamente vissuto e consumato e pertanto (...) esemplare". (pp. 353-4) Esemplare, certo, d'una condizione d'un'epoca da ricordare e non imitare: Silvia, protagonista e voce narrante, vive reclusa non tanto in spazi sociali o intellettuali (siamo in ambiti medioborghesi), quanto culturali: il peso che affligge lei è quello delle malmaritate indissolubilmente, delle donne (anche giovanissime: lei va all'altare diciassettenne, nel '48 se non sbaglio) o spose e madri o prede e mignotte - si veda il saggio di Anna Tonelli da poco recensito in questo Paradiso. Difatti il matrimonio si trasforma da subito nella routine famigliare, incoronata da due figli e incornata da una serie di proto- o pseudo-amanti (tra cui uno Yul - contento Bevilacqua - desiderato e non avuto) che alla fine non sono che copie scialbe o tracotanti del marito Fabrizio presuntuoso e amorfo. La Cerati è bravissima a far sentire la meccanicità del susseguirsi delle avventurette e del ripiombare della malaccozzata di cui parla nell'anonima condizione di serva padrona, raddoppiata dal farsi ogni esperienza, immediatamente, memoria (la quale, nel suo congegno, altro non è che ripetizione, ("linguaggio encratico": Barthes)). Più che circuìta, la donna vive come cortocircuitàta, in un "già visto" di cui c'è la dinamica ma non l'esplicitarsi: "ecco il mio destino: buttarmi sulle cose e restarne prigioniera. Avrei dovuto dimenticare. Ma questa memoria implacabile di giorno in giorno riteneva e filtrava veleni senza concedere né attenuanti né soste". (p. 287) Memoria croce e delizia, siccome il ricordo è connesso alle attività fondative dell'Autrice, e così la parola: per la figlia, Silvia ha "il tempo di fare qualche ritratto in un quaderno dove annotavo ogni cosa che la riguardava". (p. 105) Parole e figure fermano il tempo, come altra faccia dell'attività mnestica deleteria, iterazione dell'iterazione su cui s'è inceppata la vita - e si potrebbe dire che la Cerati abbia scelto immagine e narrazione per riscattarle dalle loro intrinseche possibilità schiavili.
Tale falso bordone scava in Silvia "vuoti monumenti di vuoto", fino alla risoluzione finale dell'accordo matrimoniesco: e il suo modo di scrivere ha sì del femminile, ma in quella misura di serietà che le donne riescono a dare quando parlano delle cose vere, solide - che risultano dunque più autentiche di quando ne narrano i maschi, sempre tesi a rivestirle d'ideologia o di scuse. Qui poi accade - e in questo forse gioca l'attitudine alla fotografia, o suggerire una reificazione - che persino i concetti e le emotività vengano espresse o riportate al concreto d'una materia quotidiana: "la realtà contenuta nelle parole". (p.129) Infatti: "tentai di afferrarli (i sassi, nota mia) con le mani: mi apparve l'immagine di Fabrizio bambino"; (p. 84) "se pure non accadrà che un giorno i pensieri diventino strisce colorate"; (p. 179) "nell'ordine degli oggetti consueti cercavo di ristabilire l'ordine dentro di me". (p. 248) Addirittura è forte l'identificazione oggetto-idea, che troviamo "il suo zigomo scarno scivolò contro il mio: pensai che non mi amava". (p. 89) Ciò che non si vede ha da avere un correlativo oggettivo, attuale, per esistere - e viceversa, esiste il fenomeno, il resto si presume: le scintille testimoniano dello sfregamento d'una pietra focaia.
Fin qui, il primo e più corposo volume. Il secondo (uscito nel '77, riproposto nell'80 e ora) è lo smilzo della trìlloge, rarefacendosi tale rapporto: appena a p. 114 incontriamo "le sue frasi, a volte, mi davano la sensazione di un graffio su una lastra di cristallo". Inoltre, l'ambiente si sofistica: non più l'odore di lavabo ingombro di piatti dell'origine della serie, bensì una sessualità da farfallona amorosa più che da inibita e titubante adultera (anche se c'è un matrimonio di mezzo), e un cosmopolitismo intellettuale e sessantottesco che va dagli incontri con Soldati, Nono, Bene, Zavattini, Mirò, Marquez, Gaber (dal quale però - nell'ansia identitaria - l'Autrice non impara che "se un giorno noi cercassimo chi siamo veramente ho il sospetto che non troveremmo niente", cfr. il comportamento)(*)), alle seratine al Santa Tecla o passate ascoltando Brassens, ai viaggi a Barcellona o a New York o a Pesaro - ma per il festival del cinema sperimentale -, e al figlio dell'innominata protagonista (Martino) legato agli anarchici (e siamo nel '68-'69!, vedi p. 100), pestato dai sanbabilini (cfr. p. 105, e pp. 101-2), in odore di clandestinità. Libretto che a domanda risponde: ma se gli uomini sono dei mascalzoni, perché frequentarli? Scorri pag. 47: "Spogliandosi degli abiti, (...) si spogliava della violenza, del sadismo (....). Era Adamo nel paradiso terrestre, non ancora contaminato, non ancora impotente: eccitato dal mio corpo nudo contro il suo corpo nudo (....). Non capivo e non riuscivo a darmene pace, che un contatto così vero, così reale, potesse sbriciolarsi non appena ognuno di noi riprendeva a muoversi in maniera indipendente. Risorgeva in lui l'arroganza, il pregiudizio, il bisogno di dominare". Ed ecco Alice: oltre lo specchio del ripagare gli uomini "d'uguale moneta, usare il cinismo esattamente come facevano loro", (p. 49) ovvero risolversi, da donna, ad accettare metri di comportamento maschili e machisti, rispecchiandoli e dunque impossessandosene (come farà poi la "woman in careeer" Eighties-armed, Milano-da-bere), c'è la speranza d'un rapporto vivo, vero, umano senza attributi qualsivoglia. Un rapporto primordiale che perfori le concrezioni accumulatesi nei millenni di patriarcato - il giogo che non solo le donne sentono oppressore, visto che di lì a poco marcherà un segno Padre padrone (libro e film). Un rapporto che assimila madre e figlio, ma non nella sottomissione, bensì nella coscienza di essa.
E siamo all'ultimo volume della triade, che si fregia d'un doppio titolo: Il sogno della bambina - Uno e l'altro, (1983) ma che avrebbe dovuto battezzarsi "Terza persona", confida la Cerati in una iniziale missiva al Lettore (le lettere peraltro giocano in ognuno dei testi rassegnati un ruolo poderoso, che surroga l'introspezione mancante nei primi due e l'affianca nel terzo). Difatti, dopo la tesi e l'antitesi, viene la sintesi: nel "Matrimonio" la donna-oggetto, ne "La condizione" l'intellettuale "liberata", qui la moglie "moderna" in odore di separazione (si chiama Eleonora, detta Nora - e come se no?): della quale subito ci viene detto quel che è implicito negli scritti precedenti, ovvero che vive in una (ir)realtà della quale non (ri)conosce le regole, e dunque è "sempre in contrasto con la norma" (p. 28) - e ancora si ricordi la sognante bambina Alice, e i suoi tentativi razionali di adeguarsi ad un mondo irrazionale e dunque inumano. Un mondo, come insegna la Regina di Cuori, dove bisogna correre spasmodicamente per poter rimanere fermi. Che è pure la statica dinamica d'ogni personaggio di questi libri, bloccati come un fermo immagine in quella "perfezione" che viene illustrata nel "Matrimonio" prototipo.
Reso evidente quel che meritava su trame, atmosfere e motivi, resterebbe da dare un giudizio complessivo su un'opera tanto omogenea nei temi e nello stile (e nelle lunghezze e verbosità) da proporsi come un cielo di stelle fisse, su cui la cometa-protagonista vaga in un'orbita immutabile, anche se tenderebbe a farsene perturbare: ma anche questi epicicli sono prevedibili e omogenei, con il che viene l'idea - fuori dall'immagine astronomica - che ciò che veramente manca alla protagonista non sia solo la libertà sociale di muoversi secondo il proprio sentimento, ma il primitivo e profondo volerlo fare. E se è vero che essa mancanza si adombra - "la libertà (...) bisogna saperla conquistare dal di dentro" (Il sogno, p. 82) - nei testi è proprio questo l'aspetto più irrisolto: vediamo le donne di queste narrazioni soffocare sotto il dominio maschile e delle parole maschili che certo ha distrutto quell'autonomia, e le vediamo agitarsi per disfarsene. Ma, come assistendo da dietro un vetro alle movenze di qualcuno senza capire se scherza o sta tramortendosi in un eccesso convulsivo, dolore e sofferenza (e le loro parole) non le sentiamo. E' vero che ciò avviene anche perché situazioni di questo genere oggi sono meno acute, tuttavia i testi della Cerati s'inceppano proprio sulla rappresentazione del patimento che è l'"ubi consistam" e la ragione sufficiente del suo narrare, e che diviene spesso didascalia. Limite non invalicabile, comunque, per chi intenda leggere i testi come referto d'un costume di chiusura intellettuale e ricatto emotivo che non solo non è venuto meno, ma che, co' suoi chiavistelli ancora sostanzialmente inviolati, riguarda in un modo o nell'altro chiunque sia uomo (essere umano, cioè) e non caporale.
(*) in G. Gaber, La libertà non è star sopra un albero, Einaudi, Torino 2002, pp. 224-5.
di Marco Lanzòl
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