RECENSIONI
Andrés Neuman
Una volta l'Argentina
Ponte alle Grazie, Pagine 253 Euro 16.90
Ha scritto Borges da qualche parte – chiedo scusa per l'approssimazione, cito a memoria – che l'Argentina è sempre stato un paese con una sproporzionata idea di sé, perciò stesso fatalmente votato al sublime e alla retorica. Corollario aggiuntivo: incline a vivere al di sopra dei suoi mezzi reali.
A leggere fra le righe di questo bel memoir di Andrés Neuman, Una volta l'Argentina, scritto nel 2003 e tradotto ora da Silvia Sichel, tutto questo lo si capisce benissimo (per chi avesse un interesse peculiare per il grande paese sudamericano, consiglierei di accompagnare la lettura di Neuman con un recente volumetto dell'editore il Mulino, Argentina, a cura di Marzia Rosti, che traccia un quadro preciso della sua storia, delle sue sinistre vicende politiche e sociali, dei suoi partiti e dei suoi ordinamenti giuridici).
Intanto, non sfugge al lettore come nel paese raccontato da Neuman galleggi un'insistente baldanza machista. L'esaltazione viriloide introiettata a forza da bambini, il calcio "maschio" (in un paese che pure ha dato i natali al più grande virtuoso della storia pallonara), l'estetica militarista delle dittature che non sono mai mancate – e sanguinarie. Neuman, discendente di emigrati europei, russi, francesi, ebrei poco osservanti, tutto questo lo constata con rapida ironia, facendoci i conti da piccolo, tenendosi, dato il temperamento non bellicoso ma nemmeno mellifluo, stretto un suo ruolo di outsider, invaghito di una "mezz'ala di classe", il mancino Chino Tapia, che prima del sovrumano Maradona, per via del talento femmineo sembra patire diffidenze per gli eccentrici del pallone ben note a un altro paese carognesco assai– il nostro.
È solo uno dei modi possibili per leggere questo libro, nel quale l'eccellente autore de Il viaggiatore del Secolo alterna storie di antenati alle prese con l'Europa travagliata di fine Ottocento e inizio secolo, all'approdo nel "paese delle possibilità" (una versione più precaria ma fastosa degli Stati Uniti) dei parenti più prossimi, a ricordi più o meno plausibili della sua infanzia e adolescenza argentine – entra nel vivo, lui appena nato, col racconto di suo padre che si disinteressa del trionfo ai mondiali del '78, non per snobismo ma perché gli è molto chiaro come lo spettacolo dei coriandoli che inondano lo stadio di Buenos Aires dopo il gol del 3 a 1 di Kempes all'Olanda nasconda l'immonda tragedia che sta cancellando dalla faccia della terra migliaia di desaparecidos. Del resto, il padre, musicista come la madre (violinista e coraggiosa sindacalista) il calcio non lo ama, non lo conosce, ma ne intuisce il portato (non inevitabile, ma possibile) di perversa, potenzialmente truffaldina passione sociale quando, per evitare il servizio militare, approfitta della credulità del caporale che gli domanda se non sia per caso il fratello del calciatore del Chacarita che porta il suo stesso cognome. Del resto, il bisnonno paterno Jacobo fuggì dalla Russia prendendo in prestito da un tenente tedesco un cognome non suo (Neuman appunto). Del resto, ancora, questo è il paese in cui Maradona, alla domanda se conosca Borges, chiede a sua volta in quale squadra giochi, involontariamente ricambiando la distrazione del grande scrittore che dice di non sapere nulla di Diego. Sublime – forse inevitabile che un paese abbia una tale concezione di sé: la mitopoiesi poggiando su qualche prodigioso elemento di fatto.
Così, anche le storie che Neuman racconta non è detto che siano sempre vere, la memoria può ingannare, l'immaginazione può prenderti la mano: tutto questo non è importante, ce lo ricorda egli stesso. Ci racconta degli zii Silvia e Peter, librai, che da un giorno all'altro vengono prelevati e portati via dai militari i quali non si accontentano di far sparire i libri (compreso Il Rosso e il Nero, visto il pericoloso colore iniziale da comunisti! - Videla ci teneva a informare gli argentini che terroristi erano tutti quelli che diffondevano idee "lontane dalla tradizione occidentale e cristiana".) Di come i libri li scopra contro le insistenze dei propri genitori, due borghesi colti che non mancano di custodire fra i propri scaffali Edgar Allan Poe e Julio Cortazar, con grande stupore del giovane Andrés, costretto a rivedere il giudizio che, come ogni pischello che si rispetti, aveva frettolosamente formulato sulla loro personalità.
Ed è certo che diverte, Neuman, coinvolge, ha una sua grazia diceva Bolaño – vero -, una capacità di rendere cristalline le vicende più drammatiche di un paese affascinante ma sempre a un passo dall'abisso tragico, attraverso una scrittura capace di "intelligere" come poche, senza fare lezione, superando in souplesse qualsiasi patetismo – ma emozionante. A tratti fa pensare a una variante meno caustica e fredda di Martin Amis. La narrazione è rapsodica, difficilmente insiste su una scena per più di qualche pagina. Fosse un romanzo magari sarebbe un difetto, ma Una volta l'Argentina non è propriamente un romanzo e si legge che è una bellezza.
di Michele Lupo
A leggere fra le righe di questo bel memoir di Andrés Neuman, Una volta l'Argentina, scritto nel 2003 e tradotto ora da Silvia Sichel, tutto questo lo si capisce benissimo (per chi avesse un interesse peculiare per il grande paese sudamericano, consiglierei di accompagnare la lettura di Neuman con un recente volumetto dell'editore il Mulino, Argentina, a cura di Marzia Rosti, che traccia un quadro preciso della sua storia, delle sue sinistre vicende politiche e sociali, dei suoi partiti e dei suoi ordinamenti giuridici).
Intanto, non sfugge al lettore come nel paese raccontato da Neuman galleggi un'insistente baldanza machista. L'esaltazione viriloide introiettata a forza da bambini, il calcio "maschio" (in un paese che pure ha dato i natali al più grande virtuoso della storia pallonara), l'estetica militarista delle dittature che non sono mai mancate – e sanguinarie. Neuman, discendente di emigrati europei, russi, francesi, ebrei poco osservanti, tutto questo lo constata con rapida ironia, facendoci i conti da piccolo, tenendosi, dato il temperamento non bellicoso ma nemmeno mellifluo, stretto un suo ruolo di outsider, invaghito di una "mezz'ala di classe", il mancino Chino Tapia, che prima del sovrumano Maradona, per via del talento femmineo sembra patire diffidenze per gli eccentrici del pallone ben note a un altro paese carognesco assai– il nostro.
È solo uno dei modi possibili per leggere questo libro, nel quale l'eccellente autore de Il viaggiatore del Secolo alterna storie di antenati alle prese con l'Europa travagliata di fine Ottocento e inizio secolo, all'approdo nel "paese delle possibilità" (una versione più precaria ma fastosa degli Stati Uniti) dei parenti più prossimi, a ricordi più o meno plausibili della sua infanzia e adolescenza argentine – entra nel vivo, lui appena nato, col racconto di suo padre che si disinteressa del trionfo ai mondiali del '78, non per snobismo ma perché gli è molto chiaro come lo spettacolo dei coriandoli che inondano lo stadio di Buenos Aires dopo il gol del 3 a 1 di Kempes all'Olanda nasconda l'immonda tragedia che sta cancellando dalla faccia della terra migliaia di desaparecidos. Del resto, il padre, musicista come la madre (violinista e coraggiosa sindacalista) il calcio non lo ama, non lo conosce, ma ne intuisce il portato (non inevitabile, ma possibile) di perversa, potenzialmente truffaldina passione sociale quando, per evitare il servizio militare, approfitta della credulità del caporale che gli domanda se non sia per caso il fratello del calciatore del Chacarita che porta il suo stesso cognome. Del resto, il bisnonno paterno Jacobo fuggì dalla Russia prendendo in prestito da un tenente tedesco un cognome non suo (Neuman appunto). Del resto, ancora, questo è il paese in cui Maradona, alla domanda se conosca Borges, chiede a sua volta in quale squadra giochi, involontariamente ricambiando la distrazione del grande scrittore che dice di non sapere nulla di Diego. Sublime – forse inevitabile che un paese abbia una tale concezione di sé: la mitopoiesi poggiando su qualche prodigioso elemento di fatto.
Così, anche le storie che Neuman racconta non è detto che siano sempre vere, la memoria può ingannare, l'immaginazione può prenderti la mano: tutto questo non è importante, ce lo ricorda egli stesso. Ci racconta degli zii Silvia e Peter, librai, che da un giorno all'altro vengono prelevati e portati via dai militari i quali non si accontentano di far sparire i libri (compreso Il Rosso e il Nero, visto il pericoloso colore iniziale da comunisti! - Videla ci teneva a informare gli argentini che terroristi erano tutti quelli che diffondevano idee "lontane dalla tradizione occidentale e cristiana".) Di come i libri li scopra contro le insistenze dei propri genitori, due borghesi colti che non mancano di custodire fra i propri scaffali Edgar Allan Poe e Julio Cortazar, con grande stupore del giovane Andrés, costretto a rivedere il giudizio che, come ogni pischello che si rispetti, aveva frettolosamente formulato sulla loro personalità.
Ed è certo che diverte, Neuman, coinvolge, ha una sua grazia diceva Bolaño – vero -, una capacità di rendere cristalline le vicende più drammatiche di un paese affascinante ma sempre a un passo dall'abisso tragico, attraverso una scrittura capace di "intelligere" come poche, senza fare lezione, superando in souplesse qualsiasi patetismo – ma emozionante. A tratti fa pensare a una variante meno caustica e fredda di Martin Amis. La narrazione è rapsodica, difficilmente insiste su una scena per più di qualche pagina. Fosse un romanzo magari sarebbe un difetto, ma Una volta l'Argentina non è propriamente un romanzo e si legge che è una bellezza.
di Michele Lupo
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