RECENSIONI
Derek B. Miller
Uno strano luogo per morire
Neri Pozza, Massimo Gardella, pag. 318 pag. 318 Euro 17,00
Sheldon Horowitz è un soldato. Sheldon aggiusta orologi. Sheldon è un fotografo, un ebreo, un americano, un padre con sensi di colpa. Sheldon è un nonno. Sheldon è tante cose, soprattutto è il centro dell’universo narrativo di Uno strano luogo per morire, controverso noir d’esordio di Derek B. Miller edito in Italia da Neri Pozza. Se prendete in mano questo libro è da qui che dovete partire.
Di carne al fuoco nel romanzo ce n’è tanta: la guerra di Corea, quella del Vietnam, l’Afghanistan, la nuova Europa, la questione ebraica, i Balcani. Non tutta, varrà la pena ammetterlo, è cotta a puntino, ma questa è la storia di un uomo, la sua epopea, il resto è secondario. Essenzialmente infatti la storia che ci racconta Miller è una “missione”, quella di Sheldon, ex-cecchino dell’esercuito americano, emigrato dagli Stati Uniti in Norvegia al seguito di sua nipote Rhea, l’unica parente che gli è rimasta. La sua missione, l’ultima, è salvare un bambino la cui mamma è stata trucidata dai “cattivi” dell’Est Europa. Chiaro fin da subito che Sheldon sta cercando il riscatto da un’altra morte della quale si sente colpevole (chissà quanto a torto), quella del figlio Paul deceduto in Vietnam. Inizia così la fuga di questa strana coppia che attraversa la Norvegia, una fuga disordinata che ha una dinamica molto simile alla picaresca spagnola.
I giudizi dei critici sono stati contrastanti e questo perché Uno strano luogo per morire è un romanzo che chiede di schierarsi. Sembra quasi che Derek Miller abbia lasciato scorrere la mano sulla tastiera, senza fermarsi o preoccuparsi di chiudere tutti gli spunti che apre. Molto cuore, poco mestiere. Ne esce fuori un noir sui generis, una specie di romanzo on-the-road che ha come protagonista un vecchio chiacchierone, forse in preda a un’incipiente demenza senile, e un bambino che non dirà una parola durante tutta la narrazione. Figure estreme, bianco e nero, nessuna sfumatura. Finale non a sorpresa (ma è così che doveva andare).
di Marco Minicangeli
Di carne al fuoco nel romanzo ce n’è tanta: la guerra di Corea, quella del Vietnam, l’Afghanistan, la nuova Europa, la questione ebraica, i Balcani. Non tutta, varrà la pena ammetterlo, è cotta a puntino, ma questa è la storia di un uomo, la sua epopea, il resto è secondario. Essenzialmente infatti la storia che ci racconta Miller è una “missione”, quella di Sheldon, ex-cecchino dell’esercuito americano, emigrato dagli Stati Uniti in Norvegia al seguito di sua nipote Rhea, l’unica parente che gli è rimasta. La sua missione, l’ultima, è salvare un bambino la cui mamma è stata trucidata dai “cattivi” dell’Est Europa. Chiaro fin da subito che Sheldon sta cercando il riscatto da un’altra morte della quale si sente colpevole (chissà quanto a torto), quella del figlio Paul deceduto in Vietnam. Inizia così la fuga di questa strana coppia che attraversa la Norvegia, una fuga disordinata che ha una dinamica molto simile alla picaresca spagnola.
I giudizi dei critici sono stati contrastanti e questo perché Uno strano luogo per morire è un romanzo che chiede di schierarsi. Sembra quasi che Derek Miller abbia lasciato scorrere la mano sulla tastiera, senza fermarsi o preoccuparsi di chiudere tutti gli spunti che apre. Molto cuore, poco mestiere. Ne esce fuori un noir sui generis, una specie di romanzo on-the-road che ha come protagonista un vecchio chiacchierone, forse in preda a un’incipiente demenza senile, e un bambino che non dirà una parola durante tutta la narrazione. Figure estreme, bianco e nero, nessuna sfumatura. Finale non a sorpresa (ma è così che doveva andare).
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