RECENSIONI
Yu Hua
Vivere!
Universale Economica Feltrinelli, Pag. 190 Euro 8,00
È semplice dire "Impara a vivere". È riduttivo. Per la vita in sé è riduttivo.
Solitamente e frequentemente quello che accade è che arrivino degli schiaffoni da mani ruvide di terra e calli fatti di legno impugnato per anni. E quando arrivano fanno un male da piegarsi a piangere. Per il dolore o la felicità poi è sempre da vedere.
Il punto esclamativo nel titolo di Yu Hua è chiaramente un incitamento, un grido che esorta a sollevare la testa in ogni attimo che segna i quattro passi che si riescono a mettere insieme durante un'esistenza. Vivere!. L'ordine morale che impara a seguire Fugui, il vecchio incontrato per caso dal narratore che si ritrova nelle campagne cinesi a raccogliere vecchie ballate, sulla strada segnata sulla propria fronte.
Fugui racconta di Fugui davanti a Fugui. Il vecchio racconta del giovane davanti al suo fedele bufalo. Sotto l'ombra di un albero snocciola la sua storia ricoprendosi per il tempo necessario dei vestiti indossati quarant'anni prima. Racconta la propria vita come se potesse riviverla ogni volta.
Suona il primo tamburo e la famiglia Xu ricompare davanti alle orecchie del narratore. Una famiglia ricca, rigogliosa come la terra che possedeva, speranzosa nell'ultimo bastoncino d'incenso che possedeva e che sperava non si spegnesse cancellando così la discendenza. Gli Xu, gravidi di speranza e sogni non trovano un appoggio nel giovane Fugui che ama il gioco d'azzardo, le donne, la vita da sciogliere nell'abbondante tè dell'irresponsabilità.
Il giovane abbatte tutte le speranze in una mescolata di carte tra le mura di una casa di piacere. Perde la terra. I suoi Mu. Quegli acri ereditati e non guadagnati.
Suona il secondo tamburo e Fugui si ritrova vittima della sua amata vita. Muore il padre, e povero si ritrova a perdere la moglie Jihazen e la figlia finchè la donna non torna da lui contro il volere dei genitori. Jihazen che lo ama incondizionatamente, che lo sostiene anche nei silenzi e negli sguardi rassegnati è il giogo delle sue forze, anche inconsapevolmente. Ogni volta che il marito cade più giù lei lo vede rialzarsi per sostenersi, ma qualcosa negli dei fa volgere sempre da un'altra parte lo sguardo della fortuna. Cecità o lezione divina?
Per un caso si ritrova arruolato a forza nelle truppe del Partito nazionalista di Chiang Kai-shek senza poter salutare la famiglia e vive la guerra e la morte. La vita è amata nel sangue dei commilitoni che sporca il riso che scarseggia nelle trincee.
Il racconto si anima di lacrime. Tante, che alcune volte fanno sorridere per la capacità di spuntare fuori come margherite primaverili. Si piange molto. Ci si commuove molto durante gli abbracci, gli addii, le morti e i ritrovamenti. Troppo forse. Ma questa non è la nostra vita e ognuno ha il diritto di versare quante lacrime ha in gola.
Suona il terzo tamburo e il ritorno a casa è fatto di figli grandi che guardano dai campi di riso il padre che saluta dalla strada impolverata. Il riso è il cibo. La terra ne è la madre. E soltanto chinati su di essa si riesce a capire quanta cura e reni spezzati ci vogliono per fare una vita.
La famiglia si salda, la figlia maggiore non ci sente e non parla. La miseria uccide i sensi è un lento logorio della salute che respira il poco che mangia. Tutti si fanno forza, tutti si stringono ma gli dei non guardano nel modo in cui si vorrebbe e la malattia piega gli animi rimasti in piedi a dondolare sul bordo della disgrazia.
Fugui è lì, nel presente e nel passato a guardare lontano. Abbracciato alla sua storia che entra nelle ossa di chi ascolta come l'umidità dei campi, come il riso bollito in una stanza di legno e paglia. Racconta e sembra il canto della storia della Cina, dei suoi passaggi di regime. È la storia della Cina riflessa nel sorriso di un vecchio che fa muovere il suo bufalo dicendogli che deve tenere il passo dei suoi compagni (inventati per stimolarlo a lavorare con più lena) e che si volge alle spalle sapendo che il peggio non passa, ma nemmeno si accanisce.
La storia che racconta Yu Hua è una magia che si lega al dito e prende il cuore.
Suona il quarto tamburo e le conclusioni si avvicinano.
Lentamente tutto prende la forma che gli dei hanno voluto. Ma qui forse loro non c'entrano.
Per imparare a vivere non si deve credere agli esseri che sembrano avere le redini delle nostre ore. Non si deve ascoltare la voce di una storia bellissima e tenacemente riportata alla realtà dal suo protagonista.
Per imparare a vivere serve soltanto un punto esclamativo.
di Alex Pietrogiacomi
Solitamente e frequentemente quello che accade è che arrivino degli schiaffoni da mani ruvide di terra e calli fatti di legno impugnato per anni. E quando arrivano fanno un male da piegarsi a piangere. Per il dolore o la felicità poi è sempre da vedere.
Il punto esclamativo nel titolo di Yu Hua è chiaramente un incitamento, un grido che esorta a sollevare la testa in ogni attimo che segna i quattro passi che si riescono a mettere insieme durante un'esistenza. Vivere!. L'ordine morale che impara a seguire Fugui, il vecchio incontrato per caso dal narratore che si ritrova nelle campagne cinesi a raccogliere vecchie ballate, sulla strada segnata sulla propria fronte.
Fugui racconta di Fugui davanti a Fugui. Il vecchio racconta del giovane davanti al suo fedele bufalo. Sotto l'ombra di un albero snocciola la sua storia ricoprendosi per il tempo necessario dei vestiti indossati quarant'anni prima. Racconta la propria vita come se potesse riviverla ogni volta.
Suona il primo tamburo e la famiglia Xu ricompare davanti alle orecchie del narratore. Una famiglia ricca, rigogliosa come la terra che possedeva, speranzosa nell'ultimo bastoncino d'incenso che possedeva e che sperava non si spegnesse cancellando così la discendenza. Gli Xu, gravidi di speranza e sogni non trovano un appoggio nel giovane Fugui che ama il gioco d'azzardo, le donne, la vita da sciogliere nell'abbondante tè dell'irresponsabilità.
Il giovane abbatte tutte le speranze in una mescolata di carte tra le mura di una casa di piacere. Perde la terra. I suoi Mu. Quegli acri ereditati e non guadagnati.
Suona il secondo tamburo e Fugui si ritrova vittima della sua amata vita. Muore il padre, e povero si ritrova a perdere la moglie Jihazen e la figlia finchè la donna non torna da lui contro il volere dei genitori. Jihazen che lo ama incondizionatamente, che lo sostiene anche nei silenzi e negli sguardi rassegnati è il giogo delle sue forze, anche inconsapevolmente. Ogni volta che il marito cade più giù lei lo vede rialzarsi per sostenersi, ma qualcosa negli dei fa volgere sempre da un'altra parte lo sguardo della fortuna. Cecità o lezione divina?
Per un caso si ritrova arruolato a forza nelle truppe del Partito nazionalista di Chiang Kai-shek senza poter salutare la famiglia e vive la guerra e la morte. La vita è amata nel sangue dei commilitoni che sporca il riso che scarseggia nelle trincee.
Il racconto si anima di lacrime. Tante, che alcune volte fanno sorridere per la capacità di spuntare fuori come margherite primaverili. Si piange molto. Ci si commuove molto durante gli abbracci, gli addii, le morti e i ritrovamenti. Troppo forse. Ma questa non è la nostra vita e ognuno ha il diritto di versare quante lacrime ha in gola.
Suona il terzo tamburo e il ritorno a casa è fatto di figli grandi che guardano dai campi di riso il padre che saluta dalla strada impolverata. Il riso è il cibo. La terra ne è la madre. E soltanto chinati su di essa si riesce a capire quanta cura e reni spezzati ci vogliono per fare una vita.
La famiglia si salda, la figlia maggiore non ci sente e non parla. La miseria uccide i sensi è un lento logorio della salute che respira il poco che mangia. Tutti si fanno forza, tutti si stringono ma gli dei non guardano nel modo in cui si vorrebbe e la malattia piega gli animi rimasti in piedi a dondolare sul bordo della disgrazia.
Fugui è lì, nel presente e nel passato a guardare lontano. Abbracciato alla sua storia che entra nelle ossa di chi ascolta come l'umidità dei campi, come il riso bollito in una stanza di legno e paglia. Racconta e sembra il canto della storia della Cina, dei suoi passaggi di regime. È la storia della Cina riflessa nel sorriso di un vecchio che fa muovere il suo bufalo dicendogli che deve tenere il passo dei suoi compagni (inventati per stimolarlo a lavorare con più lena) e che si volge alle spalle sapendo che il peggio non passa, ma nemmeno si accanisce.
La storia che racconta Yu Hua è una magia che si lega al dito e prende il cuore.
Suona il quarto tamburo e le conclusioni si avvicinano.
Lentamente tutto prende la forma che gli dei hanno voluto. Ma qui forse loro non c'entrano.
Per imparare a vivere non si deve credere agli esseri che sembrano avere le redini delle nostre ore. Non si deve ascoltare la voce di una storia bellissima e tenacemente riportata alla realtà dal suo protagonista.
Per imparare a vivere serve soltanto un punto esclamativo.
di Alex Pietrogiacomi
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